Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 22281 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 22281 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 23/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Trieste nel procedimento nei confronti di
NOME, nato a Trieste il DATA_NASCITA
avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Trieste il 06/03/2023
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procurato generale NOME COGNOME, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;
letta la memoria del difensore di fiducia, AVV_NOTAIO, che ha chie dichiararsi inammissibile il ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe il Tribunale di Trieste ha disposto la condanna di NOME COGNOME alla pena – condizionalmente sospesa – di mesi uno di reclusione in relazione al reato di resistenza a pubblico ufficiale, irrogata a titolo di aumento in continuazione sulla pena di cui alla sentenza del Tribunale di Trieste del 14 febbraio 2022, irrevocabile il 4 luglio 2022.
Propone ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Trieste, deducendo, con un unico motivo, erronea applicazione dell’art. 81 cpv. cod. pen.
Il Tribunale, nel disporre la condanna, ha ritenuto sussistente il vincolo della continuazione con il reato di cui alla sentenza indicata in premessa, relativa ad altro reato di resistenza, senza tuttavia enucleare elementi giustificativi della medesimezza del disegno criminoso tra i fatti.
Sul punto la sentenza si limita ad evidenziare che si tratta di reati della stessa indole, commessi nei mesi di febbraio e di agosto dello stesso anno e dunque separati tra loro da un ridotto intervallo temporale.
Nella requisitoria scritta il Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso immediato, evidenziando l’assenza delle condizioni indicate dall’art. 593-bis, comma 2, cod. proc. pen., che avrebbero legittimato il Procuratore generale presso la Corte d’appello ad interporre gravame, in quanto non ricorrerebbe alcuna ipotesi di avocazione o di acquiescenza al provvedimento da parte del Procuratore della Repubblica.
Onde l’impossibilità di convertire il ricorso per cassazione in appello.
Il giudizio è stata definito con procedimento cartolare, in assenza di richiesta di discussione orale nei termini di legge.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato e va accolto per i motivi di seguito illustrati.
2. Esso è anzitutto ammissibile.
Il Procuratore Generale presso questa Corte di cassazione, nella sua requisitoria, ha dedotto che il Procuratore Generale presso la Corte di appello non fosse legittimato a proporre ricorso in forza del principio affermato da Sez. U, n. 21716 del 23/02/2023, P., Rv. 284490-03, per cui “in tema di impugnazione della parte pubblica, in assenza delle condizioni per presentare appello ai sensi dell’art. 593-bis, comma 2, cod. proc. pen., il procuratore generale non è legittimato a proporre ricorso immediato per cassazione ex art. 569 cod. proc. pen. né ricorso ordinario ai sensi degli artt. 606, comma 2, e 608 cod. proc. pen.”
Difetterebbe, nella specie, il presupposto legittimante dell’acquiescenza al provvedimento da parte del Procuratore della Repubblica, ovvero, e in alternativa, dell’avocazione da parte dello stesso Procuratore generale.
Tale prospettazione non è corretta.
Come evidenziato dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite, l’art. 593bis cod. proc. pen., pone il problema di chiarire l’interpretazione del sintagma “acquiescenza al provvedimento”.
Le coordinate ermeneutiche da valere nella applicazione della norma sono riassumibili, per il Massimo Consesso nomofilattico, nei termini che seguono:
è stata disegnata dal legislatore una legittimazione “sussidiaria” del procuratore generale presso la corte di appello, che non presuppone la formalizzazione processuale di una manifestazione di volontà da parte del procuratore della Repubblica assimilabile ad una sorta di rinuncia ad impugnare (art. 589 cod. proc. pen.), e tanto meno impone che il termine assegnato al procuratore della Repubblica per proporre appello sia già decorso;
l’acquiescenza del procuratore della Repubblica, nella indicazione desumibile dal combinato disposto degli artt. 593-bis cod. proc. pen. e 166-bis disp. att. cod. proc. pen. – introdotto dall’art. 8 dello stesso d.lgs. n. 11 del 2018 rappresenta esclusivamente l’espressione di una intesa o di altro modulo organizzativo che sia stato scelto per il coordinamento dei due uffici di procura;
nella logica di “deformalizzazione” che ha qualificato la riforma, il procuratore generale non deve certificare formalmente, nel proprio atto di impugnazione, di avere verificato tali condizioni. L’art. 166-bis disp. att. cod. proc. pen. prevede, infatti, che il procuratore generale e il procuratore della Repubblica raggiungano una intesa ovvero definiscano un accordo come risultato di una qualsivoglia iniziativa di coordinamento tra i due uffici e, dunque, anche in maniera del tutto informale. Di qui il principio di diritto enunciato dalle Sez U cit. per cui: “In tema di appello della parte pubblica, la legittimazione del procuratore generale a proporre appello ex art. 593-bis cod. proc. pen, avverso le sentenze di primo
grado, derivante dall’acquiescenza del procuratore della Repubblica, consegue alle intese o alle altre forme di coordinamento richieste dall’art. 166-bis disp. att. cod. proc. pen. che impongono al procuratore generale di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni dello stesso procuratore della Repubblica in merito all’impugnazione della sentenza” (Rv. 284490-01);
il Procuratore generale che propone un appello contro una sentenza di primo grado riconosce.clunque, assumendosi la relativa responsabilità ordinamentale, di avere esercitato il potere-dovere di coordinamento e di preliminare verifica assegnatogli dall’art. 166-bis disp. att. cod. proc. perì., e indica così il proprio ufficio come legittimato ad impugnare ai sensi dell’art. 593-bis, comma 2, cod. proc. pen., senza potersi profilare alcun sindacato successivo in ordine al contenuto dell’intesa da parte del giudice dell’impugnazione.
Alla luce degli indicati principi, il fatto che il ricorso da cui origina presente impugnazione sia stato proposto prima che fosse decorso il termine per impugnare per il Procuratore della Repubblica non è dunque significativo di mancata acquiescenza da parte del medesimo organo di accusa.
Piuttosto, deve considerarsi che la sentenza impugnata, resa in esito a giudizio abbreviato, è inappellabile in forza della previsione dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., che ha inteso circoscrivere la legittimazione all’appello del pubblico ministero, sebbene in termini più ampi rispetto al passato, in un’ottica deflattiva e di maggiore convenienza per l’imputato. Il pubblico ministero, secondo tale disposizione non può proporre appello contro le sentenze di condanna pronunciate in esito al detto rito premiale, salvo che si tratti di sentenza modificativa del titolo del reato.
In simmetria con tale previsione, l’art. 593, comma primo, cod. proc. pen. (come da ultimo modificato dal d. Igs. 6 febbraio 2018, n. 11) stabilisce che «Salvo quanto previsto dagli articoli 443, comma 3, 448, comma 2, 579 e 680, l’imputato può appellare contro le sentenze di condanna mentre il pubblico ministero può appellare contro le medesime sentenze solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante a effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato». Dunque, il novellato art. 593, comma 1, prevede che il pubblico ministero possa proporre appello avverso le sentenze di condanna pronunziate nei giudizi diversi dall’abbreviato, dall’applicazione di pena a richiesta, o aventi ad oggetto misure di sicurezza – per le quali valgono i limiti rispettivamente previsti dagli artt. 443, comma 3, 448, comma 2, 579 e 680 cod. proc. pen. – solo nelle ipotesi sopra tipizzate.
Dalla inappellabilità della sentenza qui impugnata discende la non proponibilità del ricorso diretto, ostandovi il disposto dell’art. 569, comma 1, cod. proc. pen., essendo tale legittimazione riconosciuta solo in favore della parte che” ha diritto di appellare” la sentenza di primo grado, in ragione della stretta interrelazione tra diritto al ricorso diretto per cassazione e diritto all’appello, voluta dal legislatore con la indicata norma.
Nondimeno, ritiene il Collegio che il proposto ricorso per cassazione sia comunque ammissibile come ricorso ordinario.
La soluzione negativa, invocata dal Procuratore Generale presso questa Corte di cassazione, non merita condivisione.
Sempre nella sopra richiamata sentenza a Sezioni Unite, la Corte ha precisato che: «li artt. 606, comma 2, e 608 cod. proc. pen. non possono, dunque, essere valorizzati in relazione all’ipotesi disciplinata dall’art. 593-bis, comma 2, nella quale – come si è già avuto modo di porre in evidenza – non si può sostenere che la sentenza sia oggettivamente inappellabile, ben potendo l’atto di appello essere proposto dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale: sicché l’esercizio della relativa facoltà da parte del pubblico ministero di primo grado “consuma” il potere di appello e non serve a modificare, in relazione alla “concorrente” posizione del procuratore generale presso la Corte di appello, la natura del provvedimento». Tale soluzione esegetica risponde alle esigenze deflattive e di razionale coordinamento degli uffici di Procura, sottese alla disciplina contenuta nel d.lgs. n. 11 del 2018, in quanto scongiura il rischio di una “sovrapposizione” di mezzi di impugnazione eterogenei aventi ad oggetto la medesima decisione, proposti da organi che rappresentano la stessa parte processuale.
Di contro, e per quanto qui interessa, la stessa pronuncia del Massimo Collegio ha precisato che l’interpretazione logico sistematica degli artt. 606, comma 2, e 608 cod. proc. pen. «induce fondatamente a ritenere che, nel riconoscere al procuratore generale la legittimazione a proporre il ricorso per cassazione avverso la “sentenza inappellabile”, il legislatore abbia inteso richiamare i casi nei quali è oggettiva la qualità della inappellabilità della sentenza, ossia quelli in cui il codice di rito esclude che l’ufficio del pubblico ministero, in tutte le sue articolazioni, possa presentare appello contro una sentenza di primo grado. E’ il caso della sentenza di condanna (salvo che non abbia modificato il titolo del reato) emessa all’esito di giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen In queste ipotesi è pacifico che il procuratore generale possa proporre contro la sentenza di primo grado ricorso per cassazione “ordinario”, destinato, in caso di connessione ex art. 12 cod.
proc. pen., a convertirsi in appello se tale mezzo di impugnazione sia stato presentato da una delle parti private legittimate; qualora la Corte di cassazione accolga il ricorso e disponga l’annullamento con rinvio, gli atti saranno trasmessi al giudice che ha emesso la sentenza in primo grado, giusta la previsione dell’art. 623, comma 1, lett. d), cod. proc. pen.»
6. A favore della tesi della ammissibilità del ricorso per cassazione, nei casi di inappellabilità in senso oggettivo, si è espressa del resto anche questa Sezione, affermando il principio per cui: “In tema di giudizio abbreviato, il pubblico ministero non può interporre appello incidentale avverso la sentenza di condanna resa in esito a rito abbreviato senza mutamento del titolo del reato contestato facendo valere il vizio di violazione di legge nella determinazione della pena, potendo proporre unicamente ricorso per cassazione ( il quale, nondimeno, si converte in appello in caso di contestuale gravame dell’imputato, prevalendo la finalità dell’art. 580 cod. proc. pen. – volto ad evitare che la proposizione di diversi mezzi di impugnazione determini esiti processuali incompatibili sull’inappellabilità da parte del pubblico ministero stabilita dall’art. 443, comma 3, cod. proc. pen.) (Sez. 6, n. 34097 del 28/06/2023, COGNOME; Rv. 285155 – 01).
7. Il ricorso in scrutinio, ammissibile ai sensi degli artt. 606, comma 2, e 608 cod. proc. pen., è altresì fondato, avendo la sentenza impugnata, nel riconoscere il vincolo della continuazione tra i reati ascritti al ricorrente, reso una motivazione viziata, ai limiti della mera apparenza.
In particolare, valorizzando, quanto ai presupposti della unificazione quoad poenam dei detti reati, i soli profili della identità del titolo e della – pera relativa – contiguità temporale dei fatti, il Tribunale non ha spiegato perché tali elementi, del tutto generici, fossero dimostrativi di un disegno criminoso unitario; il quale presuppone l’esistenza di un programma delle condotte illecite previamente ideato e voluto, quantomeno nelle sue linee essenziali (in tal senso, v. da ultimo Sez. 2, n. 10033 del 07/12/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284420-01, per la quale l’identità del disegno criminoso, che caratterizza l’istituto disciplinato dall’art. 81, comma secondo, cod. pen., postula un programma in tal senso definito, ma non si identifica con la semplice estrinsecazione di un genere di vita incline al reato; ed ancora v. Sez. 1, n. 15955 del 08/01/2016, COGNOME, Rv. 266615-01, per la quale l’identità del disegno criminoso, che caratterizza l’istituto disciplinato dall’art. 81, comma secondo, cod. pen., postula che l’agente si sia ‘previamente rappresentato e abbia unitariamente deliberato una serie di condotte criminose e non si identifica con il programma di vita delinquenziale del reo, che esprime, invece, l’opzione
del reo a favore della commissione di un numero non predeterminato di reati, che, seppure dello stesso tipo, non sono identificabili a priori nelle loro principali coordinate, rivelando una generale propensione alla devianza, che si concretizza, di volta in volta, in relazione alle varie occasioni ed opportunità esistenziali).
7. Da tanto consegue l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla riconosciuta continuazione e per le conseguenti determinazioni in ordine alla entità della pena, dovendo il Giudice del rinvio – ferma restando l’affermazione di responsabilità, divenuta irrevocabile in assenza di impugnazione – adottare adeguata motivazione in ordine alla ricorrenza dei presupposti per ritenere l’identità del disegno criminoso.
Tale giudice, non versandosi in ipotesi di ricorso per saltum ex art. 569, comma 1, cod. proc. pen., deve individuarsi nel Giudice di primo grado.
PQM
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla continuazione con rinvio per nuovo giudizio sul punto al Tribunale di Trieste. Dichiara irrevocabile l’affermazione di responsabilità.
Così deciso il 23/04/2024