Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 24140 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 24140 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 20/05/2025
RITENUTO IN FATTO
Avverso la sentenza hanno proposto ricorsi per cassazione il difensore di COGNOME NOME e di COGNOME NOME, avv.to NOME COGNOME e il difensore di COGNOME, avv.to NOME COGNOME che hanno rispettivamente articolato i motivi di ricorso di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. cod. proc. peri.
2.1. Con il primo dei motivi di ricorso formulati dal difensore di COGNOME NOME e di COGNOME NOME si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., violazione di legge in relazione a quanto previsto dagli artt. 426 e 449 cod. pen.
Si sostiene, in particolare, che, nella decisione oggetto d’impugnativa, si sarebbe ritenuto configurabile il delitto di disastro colposo innominato valorizzando la sola circostanza che la frana provocata, seppur contenuta all’interno di recinti delimitativi delle proprietà coinvolte, aveva interessato una superficie di circa 2,5 ettari, con una lunghezza di circa 157 metri e una larghezza di circa 230 metri, senza tener conto del fatto che il delitto de quo richiede il verificarsi di un fatto distruttivo di proporzioni straordinarie, idoneo a esporre realmente a rischio la pubblica incolumità, giammai accertato.
2.2. Con il secondo motivo dei ricorsi in oggetto il difensore si duole, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., di vizio di motivazione per manifesta illogicità in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio.
Si osserva al riguardo che, nella decisione della Corte territoriale, la determinazione del più grave trattamento sanzionatorio riservato a Perrone Salvatore e a Perrone Giovanni sarebbe avvenuta senza tener conto del fatto che la frana si era verificata per effetto di modalità di svolgimento delle attività di coltivazione della cava e di estrazione del materiale lapideo palesemente irregolari, dovute all’inosservanza del progetto approvato e delle prescrizioni contenute nei provvedimenti autorizzativi, sicché mal si giustificava l’inflizione di pene più severe di quelle riservate al coimputato NOME COGNOME
2.3. Con il primo motivo del ricorso presentato dal difensore di COGNOME si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., vizio di motivazione per contraddittorietà, in punto di collocazione temporale della condotta del predetto.
Si sostiene, in particolare, che, nella decisione impugnata, l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato in ordine al delitto di disastro colposo innominato risulterebbe contraddittoriamente argomentata, posto che, per un verso, si sarebbe riconosciuto che lo stesso aveva acquisito la qualifica di direttore dei lavori dal 17/01/2013 e, per altro verso, si sarebbe sostenuto che si era verificato un “… netto sconfinamento non solo dei limiti di coltivazione già autorizzati nel 2007, ma anche dei limiti di disponibilità già nel 2011…”, così contraddittoriamente pervenendo alla pronunzia di condanna.
2.4. Con il secondo motivo di tale ricorso ci si duole, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., di violazione di legge in relazione a quanto previsto dall’art. 113 cod. pen.
Si assume al riguardo che, nella decisione della Corte territoriale, si sarebbe illegittimamente ritenuto che l’imputato, nella propria qualità di direttore dei lavori, avesse cooperato al verificarsi dell’accaduto, senza, tuttavia, indicare lo specifico contributo causale recato.
2.5. Con il terzo motivo del ricorso de quo ci si lamenta infine, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., di violazione di legge in relazione a quanto previsto dall’art. 6 d.P.R. n. 128 del 1959.
Si osserva, in specie, che, nella pronunzia dei giudici di merito, si sarebbe erroneamente ritenuto che il COGNOME, nella qualità rivestita, avesse omesso di vigilare in ordine al rispetto dei confini entro cui era consentita la ,coltivazione della cava, così favorendone il dissennato sfruttamento, dal momentb:Arn – obbligo in tal senso non sarebbe previsto dal disposto della norma evocata, a seguito della sua novellazione ad opera dell’art. 20, comma 1, d.lgs. n. 624 del 1996.
Il procedimento è stato trattato in udienza camerale con le forme e con le modalità di cui all’art. 23, commi 8 e 9, del d.l. n. 137/2020, convertito dalla legge n. 176 del 2020, i cui effetti sono stati prorogati dall’art. 5-duodecies del d.l. n. 162 del 2022, convertito, con modificazioni, nella legge n. 199 del 2022 e, da ultimo, dall’art. 17 del d.l. n. 75 del 2023, convertito, con modificazioni, nella legge n. 112 del 2023.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi presentati nell’interesse di COGNOME Salvatore, di COGNOME Giovanni e di COGNOME Carmelo sono manifestamente infondati per le ragioni che, di seguito, si espongono.
Del tutto infondato è il primo motivo dei ricorsi presentati nell’interesse di COGNOME NOME e di COGNOME NOME, rispettivamente amministratore unico e amministratore di fatto della compagine societaria cui apparteneva la cava in cui si verificò la frana, con cui si lamenta violazione di legge in relazione a quanto previsto dagli artt. 426 e 449 cod. pen., sostenendo che, nella decisione impugnata, si sarebbe ritenuto configurabile il delitto di disastro colposo innominato in base alla sola circostanza che il movimento franoso aveva interessato una superficie di circa 2,5 ettari, con una lunghezza di 157 metri e una larghezza di 230 metri, senza considerare che tale illecito esige l’effettivo verificarsi di un fatto distruttivo di proporzioni straordinarie, valevole ad esporre realmente a rischio la pubblica incolumità.
Ritiene in proposito il Collegio che la doglianza fatta valere con il motivo di ricorso de quo non colga nel segno, non risultando affetta la sentenza impugnata dal dedotto vizio di violazione della norma penale incriminatrice.
Ciò perché, risulta corretta la ritenuta configurabilità del delitto per il quale, in esito all’operata derubricazione – peraltro illo tempore espressamente invocata dai ricorrenti con il terzo motivo di appello – è stata pronunciata condanna dalla Corte territoriale.
In particolare, i giudici del merito hanno affermato che gli esiti dei sopralluoghi e dei rilievi topografici eseguiti, le risultanze dello studi cartografico dell’area interessata e l’analisi del materiale fotografico e delle videoriprese effettuate rendevano evidente che la frana, costituita da ingenti volumi di roccia e detriti, aveva interessato una superficie di circa 2,5 ettari, con lunghezza massima di 157 metri e larghezza massima di 320 metri, condivisibilmente inferendo da tali circostanze che la stessa risultava caratterizzata da una forza distruttiva dirompente, che aveva attinto una pluralità di fondi, molteplici costruzioni e numerose persone, sì da far insorgere un pericolo concreto per la pubblica e per la privata incolumità (così a pag. 9 della decisione impugnata).
Alla stregua di tali conclusioni, sul corretto rilievo che l’agire degli imputati fosse stato caratterizzato, sul piano dell’elemento soggettivo, non già da dolo, ma da mera colpa, pur se di rilevante intensità, hanno, quindi, correttamente concluso per la configurabilità del delitto di disastro colposo innominato, così conformandosi all’autorevole insegnamento di questa Suprema Corte, secondo cui «Il delitto di “frana colposa” (o “disastro colposo innominato”), in ossequio al principio di offensività da rapportarsi alla natura di pericolo astratto del reato, richiede ai fini della sua consumazione il verificarsi di un fatto distruttivo d proporzioni straordinarie che espone realmente a rischio la pubblica incolumità, mettendo in effettivo pericolo un numero indeterminato di persone» (così, da ultimo, Sez. 4, n. 46876 del 07/11/2019, P.G. C/COGNOME, Rv. 277702-01, nonché, in precedenza, Sez. 4, n. 14263 del 14/11/2018, Ratze, Rv. 275364-01).
3. Palesemente infondato è anche il secondo motivo dei ricorsi di cui trattasi, con cui ci si duole di vizio di motivazione per manifesta illogicità in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio, assumendo che, nella decisione della Corte territoriale, la quantificazione delle pene inflitte a COGNOME Salvatore e a COGNOME Giovanni sarebbe avvenuta in maniera del tutto irragionevole, ossia senza tener conto del fatto che la frana si era verificata per effetto delle erronee modalità di svolgimento dell’attività di coltivazione della cava, ascrivibili, in
primis, all’inosservanza, da parte del coimputato COGNOME, delle prescrizioni contenute nei provvedimenti autorizzativi.
Ritiene il Collegio che, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, l’effettuata diversificazione dei trattamenti sanzionatori e, in specie, l’inflizione a legali responsabili della società cui apparteneva la cava teatro del movimento franoso di una pena lievemente più severa di quella riservata al direttore dei lavori risulti argomentata in maniera tutt’altro che illogica, essendosi fondato il disposto incremento sulla diversa qualifica da quest’ultimo rivestita.
,’4 C D’altro canto, deve anche rilevarsi che, con la doglianza~ con il motivo in disamina, dietro lo schermo del prospettato vizio motivazionale, si censura, in realtà, la valutazione in fatto effettuata, sul punto, dai giudici del merito, caldeggiandosene una nuova, preclusa, tuttavia, nel giudizio di legittimità.
4. Destituito di fondamento è, ancora, il primo motivo del ricorso azionato nell’interesse di COGNOME con cui si lamenta vizio di motivazione per contraddittorietà in punto di collocazione temporale della condotta, assumendo che, nella decisione impugnata, l’affermazione della penale responsabilità del predetto imputato sarebbe stata contraddittoriamente argomentata, atteso che si sarebbe riconosciuto che lo stesso aveva acquisito la qualifica di direttore dei lavori solo a far data dal 17/01/2013 e si sarebbe, poi, sostenuto che si era verificato un “… netto sconfinamento non solo dei limiti di coltivazione già autorizzati nel 2007, ma anche dei limiti di disponibilità già nel 2011…”.
Osserva il Collegio che, contrariamente a quanto dedotto, non sussiste alcuna contraddittorietà nell’impianto argomentativo a corredo della decisione impugnata, atteso che la circostanza che risultassero accertati, già dall’anno 2011, sconfinamenti nella coltivazione della cava, rispetto alla quale il predetto assunse la qualifica di direttore dei lavori solo il successivo 17/01/2013, non preclude affatto la possibilità che l’illecita attività estrattiva sia proseguita anch dopo la sua formale investitura, come, peraltro, concretamente accertato nei gradi di merito.
Tanto chiarito, deve comunque aggiungersi che la doglianza fatta valere con il motivo di ricorso de quo si caratterizza per una palese genericità estrinseca o aspecificità.
E invero, la Corte territoriale, alle pagg. 19-20 della decisione impugnata, ha esposto, in dettaglio, gli argomenti a sostegno della ritenuta corresponsabilità del predetto nella causazione dell’evento, pur a fronte di una sua formale investitura nella carica avvenuta solo in data 17/01/2013, rilevando, in specie, che «Risulta… fuor di dubbio che costui rivestisse la qualità di Direttore Responsabile della cava, giusta nomina in atti sottoscritta da COGNOME SalvatoreCOGNOME
depositata il 17/01/2013 presso il Distretto RAGIONE_SOCIALE», aggiungendo che «In tale qualità egli doveva vigilare ed è indubbia., che l’aver consentito che si eccedesse oltre i limiti della coltivazione della cava, estraendo con mezzi meccanici ingenti quantità di materiale anche dove ciò non era consentito, ha alterato i parametri della sicurezza in quel cantiere, a discapito non solo dei lavoratori, ma anche dei soggetti esterni a tale ambito lavorativo», sostenendo, ancora, che «Nella sua specifica qualità, il COGNOME avrebbe dovuto richiedere, non solo il rispetto dei confini della coltivazione della cava, ma, in ogni caso, che venissero apprestati nuovi modelli di sicurezza parametrati all’effettiva consistenza ed estensione dell’attività di estrazione, predisponendo nuovi studi ed elaborazioni che accertassero la stabilità delle aree e dei versanti interessati» e concludendo, infine, che «L’aver omesso tali adempimenti, consentendo il dissennato sfruttamento della cava nei termini sopradetti, costituisce condotta ascrivibile certamente anche a carico del predetto appellante».
Con l’esposto apparato argomentativo non si è, tuttavia, confrontato in alcun modo il ricorrente nell’articolazione delle doglianze confluite nel motivo oggetto di scrutinio.
E invero, il predetto, con tale motivo di ricorso, ha finito col riproporre le medesime osservazioni critiche già fatte valere dinanzi ai giudici di merito, senza formulare controdeduzioni valevoli a superare ‘gli argomenti da questi spesi per confutare le prospettazioni contenute nell’atto di appello.
Deve, però, rilevarsi che, per consolidata acquisizione della giurisprudenza di legittimità, risultano affetti da un’evidente aspecificità i motivi di doglianza con cui, a fronte di un argomentato esauriente, qual è quello dianzi riportato, si ripropongono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame.
La mancanza di specificità del motivo ricorre, infatti, tanto nel caso della sua genericità, intesa come indeterminatezza della doglianza, quanto in quello del difetto di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ai sensi dell’art. 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., all’inammissibilità del gravame (così, ex multis, Sez. 6, n. 23014 del 29/04/2021, B., Rv. 281521-01, nonché, in precedenza, Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710-01, Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425-01, Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, COGNOME, Rv. 255568-01 e Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, COGNOME, Rv. 253849-01).
Manifestamente infondato è il secondo motivo del ricorso in trattazione, con cui ci si duole di violazione di legge in relazione a quanto previsto dall’art. 113 cod. pen., assumendo che, nella decisione della Corte territoriale, si sarebbe ritenuto che l’imputato, nella qualità rivestita, avesse cooperato al verificarsi dell’accaduto, senza indicare lo specifico contributo causale recato.
Ritiene in proposito il Collegio che la doglianza fatta valere con il presente motivo di ricorso non colga nel segno.
E invero, la Corte territoriale ha argomentato diffusamente in ordine al contributo causale che ha ritenuto avesse recato alla causazione dell’evento la condotta dell’imputato, recependo e facendo propria (in specie alle pagg. 9-19) la ricostruzione dell’accaduto operata dal perito nominato dal giudice dell’udienza preliminare nel corso del giudizio di primo grado, definito con rito abbreviato, evidenziando che tale ricostruzione non confliggeva, nelle sue linee essenziali, con quelle rispettivamente effettuate dal consulente tecnico del pubblico ministero e dall’altro perito nominato, in sede di incidente probatorio, dal giudice per le indagini preliminari, aggiungendo che l’imputato, per la qualità rivestita, era titolare di una posizione di garanzia, generatrice di uno specifico obbligo di vigilanza sulla conformità al provvedimento autorizzativo dell’attività di coltivazione della cava e concludendo che la violazione di tale obbligo aveva comportato la sua penale responsabilità, a titolo di cooperazione colposa, nel delitto ritenuto concretamente configurabile.
Per converso, la dedotta lamentazione risulta caratterizzata da un’assoluta genericità intrinseca, non indicandosi in alcun modo le specifiche ragioni dell’ipotìzzata violazione di legge.
Deve quindi ragionevolmente concludersi che la doglianza in oggetto si risolve in un’inammissibile richiesta di rivalutazione dei fatti, dei quali si sollecit de facto, una ricostruzione alternativa a quella fatta propria dalla Corte di appello.
È però ben noto che il giudice di legittimità non può sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, essendogli preclusa, in radice, la rivalutazione dell’accadimento fattuale.
Privo di pregio è, da ultimo, anche il terzo motivo del ricorso de quo, con cui si lamenta violazione di legge in relazione a quanto previsto dall’art. 6 d.P.R. n. 128 del 1959, sostenendo che, nella decisione impugnata, si sarebbe erroneamente ritenuto che il direttore dei lavori avesse favorito il dissennato sfruttamento della cava mercè l’omessa vigilanza sul rispetto dei confini entro cui ne era consentita la coltivazione, posto che un obbligo in tal senso non
sarebbe previsto dal disposto della norma evocata, a seguito della novellazione ad opera dell’art. 20, comma 1, d.lgs. n. 624 del 1996.
Osserva al riguardo il Collegio che la doglianza fatta valere con il motivo di ricorso di cui trattasi non risulta dedotta, illo tempore, con l’atto di appello, la qual cosa comporta che non possa essere prospettata in questa sede, trovando applicazione il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui «Non sono deducibili con il ricorso per cassazione questioni che non abbiano costituito oggetto di motivi di gravame, dovendosi evitare il rischio che in sede di legittimità sia annullato il provvedimento impugnato con riferimento ad un punto della decisione rispetto al quale si configura “a priori” un inevitabile difetto d motivazione per essere stato intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello» (così, ex multis, Sez. 2, n. 29707 dell’08/03/2017, COGNOME, Rv. 270316-01, Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745-01 e Sez. 5, n. 28514 del 23/04/2013, COGNOME, Rv. 255577-01).
Ad ogni buon conto, è d’uopo altresì evidenziare che la norma precettiva di cui s’ipotizza l’erronea applicazione non è stata posta dalla Corte territoriale a fondamento dell’affermata responsabilità di COGNOME COGNOME in ordine al delitto ritenuto in concreto configurabile, sicché la censura anche per tale motivo non coglie nel segno.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per i ricorrenti di sostenere, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e considerato che non v’è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza «versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», si dispone che ciascuno dei ricorrenti versi, in favore della Cassa delle ammende, la somma, determinata in via equitativa, di euro tremila.
I predetti devono essere, inoltre, condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute, nel presente giudizio di legittimità, dalle parti civili COGNOME Giuseppe e COGNOME NOME, che liquida in complessivi euro tremilanovecento, oltre accessori come per legge.
Non può, invece, essere disposta la rifusione delle spese sostenute, nel presente grado di giudizio, dalla parte civile comune di Marineo Ministero, posto che la memoria difensiva riversata in atti dal suo patrocinatore, per la genericità del contenuto, non fornisce alcun apporto alla decisione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della Cassa
delle ammende, nonché alla rifusione, in solido, delle spese di giudizio sostenute nel presente grado di legittimità dalle parti civili costituite, COGNOME NOME e
COGNOME NOME, che liquida in complessivi euro tremilanovecento, oltre accessori come per legge.
Nulla sulle spese in favore del comune di Marineo.
Così deciso il 12/03/202