Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 36858 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 36858 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a CATANZARO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 10/11/2023 della CORTE APPELLO di CATANZARO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo udito il difensore
FATTO E DIRITTO
1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Catanzaro, in riforma della sentenza con cui il tribunale di Lamezia Terme, in data 25.8.2018, aveva assolto COGNOME NOME dal delitto di cui agli artt. 81, cpv., 595, comma 2, c.p., commesso in danno di COGNOME NOME, in accoglimento dell’appello proposto dalla sola persona offesa, costituita parte civile, condannava il COGNOME al risarcimento in favore del COGNOME dei danni morali derivanti da reato, che quantificava nella somma di 3000,00 euro.
Il COGNOME è stato tratto a giudizio per rispondere del reato di cui all’art. 595, c.p., commesso, secondo l’ipotesi accusatoria, in danno del COGNOME, accusato dall’imputato, nel corso dell’udienza svoltasi innanzi al giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Lamezia Terme, chiamato a valutare, sull’opposizione del COGNOME, nella veste di persona offesa dal reato, la richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero in favore del COGNOME, in ordine ai fatti oggetto di denuncia per tentata estorsione sporta a suo carico dal COGNOME, di essere un “mafioso”; di godere di indebite protezioni istituzionali e di godere dell’appoggio dell’organizzazione criminale di stampo mafioso, facente capo alla “RAGIONE_SOCIALE“; di avere posto in essere ai suoi danni atti intimidatori e operazioni usurarie, nonché di essere titolare di una società, la “RAGIONE_SOCIALE“, riconducibile in realtà alla ‘ndrangheta.
Il giudice di primo grado aveva assolto il COGNOME, in quanto, pur riconoscendo il carattere obiettivamente offensivo dell’onore del COGNOME di quanto dichiarato dall’imputato, ha ritenuto che la condotta di quest’ultimo non integri alcuna ipotesi penalmente rilevante, essendo espressione del diritto di difesa sancito dall’art. 24, Costituzione, diritto che il COGNOME ha correttamente esercitato, nel momento in cui è stato convocato dall’autorità giudiziaria procedente a fornire la propria versione dei fatti, relativi alla denuncia per tentata estorsione sporta nei confronti del COGNOME.
Le affermazioni incriminate, infatti, erano attinenti all’oggetto del processo e, sotto il profilo soggettivo, erano giustificate dall’interesse
della persona offesa dal reato di tentata estorsione di riportate tutti i fatti idonei a rafforzare l’ipotesi delittuosa, che lo vedeva coinvolto.
Nel ribaltare la decisione assolutoria, la corte di appello, ha evidenziato come le dichiarazioni diffamatorie del COGNOME non solo non erano rispettose del criterio della verità storica, in quanto nessuno dei fatti addebitati dall’imputato al COGNOME ha mai trovato riscontro o riconoscimento in sede giudiziaria, ma erano anche del tutto non pertinenti rispetto all’oggetto del procedimento in corso, riguardante l’accusa di tentata estorsione, sicché le suddette dichiarazioni non possono ritenersi discriminate dall’esercizio del diritto di difesa o dalla causa di giustificazione di cui all’art. 598, c.p. (cfr. pp. 3-4 della sentenza oggetto di ricorso).
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione il COGNOME, lamentando: 1) violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all’art. 598, c.p., 2) inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza, in relazione all’art. 598, co. 2, c.p., e 649, c.p.p.
Con requisitoria scritta del 24.4.2024, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, AVV_NOTAIO, chiede che il ricorso venga rigettato.
Con memoria di replica e conclusioni scritte dell’8.5.2024, il difensore di fiducia del COGNOME, nel replicare alle argomentazioni svolte dal pubblico ministero nella richiamata requisitoria scritta, insiste per l’accoglimento del ricorso.
Con conclusioni scritte dell’8.5.2024, il difensore di fiducia e procuratore speciale della costituita parte civile, chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile o rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile.
Il ricorso è fondato e va accolto.
Il percorso argomentativo seguito dal giudice di appello non può essere condiviso, per le seguenti ragioni.
4.1. Appare innanzitutto evidente che l’assoluzione del COGNOME nel giudizio di primo grado con la formula perché il fatto non costituisce reato, trovi il suo fondamento nella previsione dell’art. 598, co. 1, c.p., essendo stata motivata dal tribunale facendo riferimento al legittimo esercizio del diritto di difesa da parte dell’imputato riconosciuto dall’art. 24 della Costituzione.
Come affermato da tempo dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, in tema di diffamazione, l’esimente di cui all’art. 598, c.p. (in base alla quale non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunziati dalle parti o dai loro patrocinatori innanzi alla autorità giudiziaria) costituisce applicazione estensiva del più generale principio posto dall’art. 51, c.p., in quanto riconducibile all’art. 24 Cost. (cfr. Sez. 5, n. 40452 del 21/09/2004, Rv. 230063; Sez. 5, n. 6701 del 08/02/2006, Rv. 234008; Sez. 5, n. 32823 del 06/02/2019, Rv. 276773).
Del resto, nel riformare la sentenza di primo grado, il giudice di appello, sulla base delle ragioni già esposte, ha ritenuto che la decisione del tribunale non fosse condivisibile, proprio perché non conforme alla previsione dell’art. 598, c.p.
Al riguardo non è revocabile in dubbio e nemmeno risulta contestato, che il COGNOME, in quanto legittimato, ai sensi dell’art. 410, c.p.p., nella sua qualità di persona offesa dal denunciato reato dì tentata estorsione a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero, debba considerarsi parte di un procedimento innanzi all’autorità giudiziaria, ai sensi dell’art. 598, co. 1, c.p.
Anche sotto questo profilo, invero, la giurisprudenza della Suprema Corte, ha da tempo affermato che è legittima l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 598, c.p., alla persona offesa non costituita parte civile, quando essa sia autorizzata a dedurre dinanzi all’autorità giudiziaria sull’oggetto della causa, in vista della potenziale assunzione della veste di parte civile (cfr. Sez. 5, n. 15525 del 20/02/2008, Rv. 239482).
Se, dunque, la norma sulla cui applicazione occorre interrogarsi è quella di cui al citato art. 598, co. 1, c.p.p., non può non rilevarsi che,
contrariamente a quanto affermato dalla corte di appello, l’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, come correttamente rilevato dal ricorrente, ritiene che tale esimente trovi la sua ragion d’essere esclusivamente sul rapporto di strumentalità tra le frasi offensive e le tesi prospettate nell’ambito di una controversia giudiziaria, sicché non si richiede che le offese abbiano una base di veridicità.
Ai fini dell’applicabilità dell’art. 598, c.p., di conseguenza, deve essere esclusa la necessità che le offese abbiano anche un contenuto minimo di verità o che la stessa sia in qualche modo deducibile dal contesto, in quanto l’interesse tutelato è la libertà di difesa nella sua correlazione logica con la causa a prescindere dalla fondatezza dell’argomentazione (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 6701 del 08/02/2006, Rv. 234008; Sez. 5, n. 2507 del 24/11/2016, Rv. 269075; Sez. 5, n. 40452 del 21/09/2004, Rv. 230063; Sez. 5, n. 24452 del 09/04/2019, Rv. 276512).
Risulta, pertanto, palesemente erroneo l’argomento utilizzato dalla corte territoriale, secondo cui, come si è già detto, si oppone al riconoscimento della scriminante ex art. 598, c.p., il limite della “necessaria verità dei fatti narrati”, nel senso che le dichiarazioni diffamatorie del COGNOME non erano rispettose del criterio della verità storica, in quanto nessuno dei fatti addebitati dall’imputato al COGNOME ha mai trovato riscontro o riconoscimento in sede giudiziaria (cfr. p. 4).
Del tutto lacunosa appare, inoltre, la motivazione della sentenza oggetto di ricorso in ordine all’indagine sulla sussistenza dei presupposti per l’applicazione della scriminante in parola.
La giurisprudenza della Suprema Corte, partendo dal presupposto che, come si è detto, il fondamento della suddetta scriminante debba essere individuato nel rapporto di strumentalità tra le frasi offensive e le tesi prospettate nell’ambito di una controversia giudiziaria, ha da tempo chiarito, con orientamento costante, che, in tema di delitti contro l’onore, perché possa ricorrere la scriminante prevista dall’art. 598, c.p., è necessario che le espressioni ingiuriose concernano, in modo diretto ed immediato, l’oggetto della controversia ed abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata o per
l’accoglimento della domanda proposta, quand’anche non necessarie o decisive (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 2507 del 24/11/2016, Rv. 269075; Sez. 5, n. 8421 del 23/01/2019, Rv. 275620).
Orbene il tema è stato frettolosamente affrontato e risolto dalla corte territoriale, che ha valutato quanto riferito dal COGNOME non pertinente rispetto all’oggetto del procedimento in corso, riguardante l’accusa di tentata estorsione, ritenendo il suo dire contraddistinto da dichiarazioni “gratuite, inutilmente diffamatorie e completamente avulse dal contesto della narrazione nel cui ambito sono state rese”, tali da “colorare” i fatti addebitati al COGNOME “di riprovevoli connotazioni corruttive e mafiose del tutto prive di fondamento” (cfr. p. 5).
Si tratta, tuttavia, di un’affermazione del tutto apodittica perché la corte territoriale non si è soffermata, con lo scrupolo che sarebbe stato necessario, sull’oggetto della controversia giudiziaria, in cui il COGNOME rivestiva incontestabilmente la qualità di parte.
Tale controversia, infatti, è sorta in conseguenza dell’opposizione instaurata su impulso del COGNOME, nella sua veste di persona offesa dal reato, alla richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero in favore del COGNOME sulla base di un presunto ne bis in idem, in ordine ai fatti oggetto della denuncia sporta dallo stesso COGNOME, riguardante una tentata estorsione che la persona offesa assumeva posta in essere in suo danno dal RAGIONE_SOCIALE secondo le modalità tipiche delle associazioni a delinquere di stampo mafioso, opposizione che, peraltro, rileva il ricorrente, COGNOME era COGNOME stata COGNOME accolta, COGNOME con COGNOME conseguente formulazione dell’imputazione coatta nei confronti del COGNOME da parte del giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Lamezia Terme.
Manifestamente illogico, inoltre, si presenta il richiamato passaggio motivazionale, nella parte in cui fa discendere l’insussistenza del ‘· rapporto di strumentalità tra le frasi offensive e le tesi prospettate in sede di opposizione dal COGNOME, dalla mancata dimostrazione della verità dei fatti storici denunciati da quest’ultimo, profilo, come si è già sottolineato, del tutto estraneo alla previsione dell’art. 598, c.p.
Certo, non ignora il Collegio, che, come rilevato nelle conclusioni del sostituto procuratore generale, richiamate dalla difesa del COGNOME, risulta consolidato nella giurisprudenza di legittimità l’orientamento, secondo cui l’esimente di cui all’art. 598, c.p., non si applica alle accuse calunniose contenute in tali atti, considerato che la predetta disposizione si riferisce esclusivamente alle offese e non può, pertanto, estendersi alle espressioni calunniose, essendo diversa la disciplina da riservare alle accuse su fatti potenzialmente costituenti reato, per le quali non può certo valere l’assunto di avere agito nell’espletamento di condotta difensiva (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 32823 del 06/02/2019, Rv. 276773).
Tuttavia nel caso che ci occupa tali principi non risultano applicabili, non solo perché gli stessi giudici di merito hanno ritenuto in entrambi i gradi di giudizio, senza alcuna contestazione delle parti sul punto, le dichiarazioni rese dal COGNOME, integranti il delitto di cui all’art. 595, c.p., e non quello di cui all’art. 368, c.p., ma anche perché, non avendo la corte territoriale valutato la portata delle suddette dichiarazioni alla luce del contenuto della denuncia sporta dal COGNOME e delle ragioni della proposta opposizione alla richiesta di archiviazione, risulta del tutto inesplorato in sede di merito il tema posto, in termini invero generici, nella requisitoria del sostituto procuratore generale e nelle conclusioni del COGNOME.
5. Sulla base delle svolte considerazioni, in esse assorbite ogni ulteriore questione proposta dal COGNOME, trattandosi di ricorso ai soli effetti civili, la sentenza impugnata va, dunque, annullata, con rinvio per nuovo esame al giudice civile competente per valore in grado di appello,
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia al giudice civile competente per valore in grado dì appello.
Così deciso in Roma il 16,5.2024.