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Diritto all’interprete: quando non è obbligatorio

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un cittadino polacco condannato per rapina, che lamentava la mancata assistenza di un interprete. La Corte ha stabilito che il diritto all’interprete non è automatico per lo straniero, ma presuppone una reale incapacità di comprendere la lingua italiana. Avendo l’imputato vissuto in Italia per oltre vent’anni e dimostrato di comprendere e parlare l’italiano durante il processo, la sua richiesta è stata ritenuta infondata.

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Pubblicato il 13 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Diritto all’interprete: quando la conoscenza della lingua lo esclude

Il diritto all’interprete rappresenta una garanzia fondamentale nel processo penale per assicurare che l’imputato straniero possa comprendere le accuse e partecipare attivamente alla propria difesa. Tuttavia, questo diritto non è assoluto. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito che tale garanzia non si applica automaticamente, ma dipende dalla reale capacità dell’imputato di comprendere la lingua italiana. Analizziamo il caso e le importanti conclusioni della Suprema Corte.

I Fatti del Processo

Un cittadino di nazionalità polacca veniva condannato in primo e secondo grado per il reato di rapina impropria aggravata in concorso. L’imputato decideva di ricorrere in Cassazione, affidandosi a due principali motivi di doglianza.

Il primo motivo riguardava una presunta violazione delle norme processuali. Sosteneva che, non conoscendo la lingua italiana, avrebbe dovuto essere assistito da un interprete per tutta la durata del processo e che gli atti avrebbero dovuto essere tradotti in polacco. Tale mancanza, a suo dire, avrebbe viziato l’intero procedimento.

Il secondo motivo criticava la motivazione della sentenza d’appello, ritenuta generica e illogica. Secondo la difesa, i giudici di secondo grado si erano limitati a confermare la responsabilità penale basandosi sulle sole dichiarazioni della persona offesa e richiamando la sentenza di primo grado, senza un’autonoma e approfondita valutazione dei motivi di gravame.

Il Diritto all’Interprete secondo la Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo entrambi i motivi manifestamente infondati. Sul punto cruciale del diritto all’interprete, i giudici hanno ribadito un principio consolidato: l’articolo 143 del codice di procedura penale riconosce il diritto all’assistenza gratuita di un interprete all’imputato che ‘ignora’ la lingua italiana. La condizione indispensabile, però, è che l’imputato dichiari o dimostri di non comprendere o di non sapersi esprimere in italiano.

Nel caso specifico, la Corte ha osservato che diversi elementi provavano il contrario:
1. L’imputato aveva reso l’interrogatorio di garanzia senza l’ausilio di un interprete.
2. Aveva dichiarato di risiedere stabilmente in Italia da oltre vent’anni.
3. Le trascrizioni dell’udienza dibattimentale mostravano che egli aveva compreso e risposto a tutte le domande del Presidente del Collegio in lingua italiana, senza alcuna difficoltà.

Questi fattori hanno consentito alla Corte di desumere con certezza la conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato, rendendo infondata la pretesa violazione del diritto di difesa.

La questione della motivazione e la “Doppia Conforme”

Anche il secondo motivo di ricorso è stato respinto. La Corte ha richiamato il principio della cosiddetta “doppia conforme”. Quando una sentenza di appello conferma integralmente quella di primo grado, adottando gli stessi criteri di valutazione delle prove, è consentito motivare la decisione anche per relationem, cioè richiamando le argomentazioni del primo giudice. Le due sentenze, in tal caso, si saldano e formano un unico corpo decisionale. La Corte d’Appello, quindi, non aveva omesso la motivazione, ma l’aveva validamente integrata con quella, già esaustiva, del Tribunale.

Le Motivazioni

La decisione della Cassazione si fonda su due pilastri giuridici. In primo luogo, il diritto all’interprete non è un automatismo legato alla sola cittadinanza straniera, ma una garanzia sostanziale legata a un’effettiva barriera linguistica. Spetta all’autorità giudiziaria valutare la necessità dell’interprete, basandosi su elementi concreti che possono emergere dagli atti processuali. La prolungata residenza in Italia e la fluida partecipazione al dibattimento sono elementi sufficienti a escludere tale necessità. In secondo luogo, il principio della motivazione “doppia conforme” risponde a esigenze di economia processuale, evitando inutili ripetizioni quando il giudice d’appello condivide in toto il percorso logico-giuridico del primo giudice.

Le Conclusioni

Questa sentenza riafferma che le garanzie processuali devono essere interpretate secondo la loro effettiva finalità. Il diritto all’interprete serve a garantire un processo equo, non a creare pretestuosi vizi procedurali. Un imputato straniero che ha dimostrato nei fatti di padroneggiare la lingua italiana non può, in un secondo momento, lamentare la mancata nomina di un traduttore. La decisione consolida un approccio pragmatico che bilancia i diritti della difesa con la corretta e celere amministrazione della giustizia.

Un imputato straniero ha sempre diritto a un interprete nel processo penale?
No. Secondo la Corte, il diritto sorge solo se l’imputato ignora la lingua italiana. Se dimostra di comprenderla e parlarla, come nel caso di specie dove risiedeva in Italia da oltre vent’anni e ha risposto correttamente alle domande in udienza, il giudice non è obbligato a nominare un interprete.

Cosa succede se un interprete non viene nominato pur essendo necessario?
L’assenza di un interprete, quando necessaria, causa una nullità definita “a regime intermedio”. Questo significa che il vizio deve essere sollevato prima della deliberazione della sentenza di primo grado; in caso contrario, si considera sanato e non può più essere fatto valere nei gradi successivi di giudizio.

Una Corte d’Appello può motivare una sentenza semplicemente richiamando quella di primo grado?
Sì, è possibile attraverso il meccanismo della motivazione “per relationem” nel caso di “doppia conforme”. Se la Corte d’Appello condivide pienamente l’analisi dei fatti e l’applicazione del diritto del primo giudice, può fare riferimento alla sentenza precedente, creando così un unico e complessivo corpo decisionale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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