Diritto all’interprete: Quando la sua mancanza non invalida il processo
Il diritto all’interprete rappresenta una garanzia fondamentale nel processo penale, assicurando che l’imputato straniero possa comprendere le accuse e partecipare attivamente alla propria difesa. Tuttavia, questo diritto non può essere utilizzato come uno strumento dilatorio o pretestuoso. Un’ordinanza della Corte di Cassazione ha recentemente chiarito i limiti di tale garanzia, dichiarando inammissibile il ricorso di un imputato che lamentava la mancata assistenza linguistica in circostanze dubbie.
I Fatti del Caso
Il caso trae origine dalla condanna di un uomo per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali. L’imputato, cittadino straniero, ha impugnato la sentenza di condanna, sia in appello che successivamente in Cassazione, sostenendo la nullità dell’intero procedimento. Il motivo principale della sua doglianza era la presunta violazione del suo diritto alla difesa, per non aver beneficiato dell’assistenza di un interprete e della traduzione degli atti processuali, affermando di non conoscere la lingua italiana.
La Decisione della Corte di Cassazione e il Diritto all’Interprete
La Suprema Corte ha respinto categoricamente il ricorso, dichiarandolo inammissibile per manifesta infondatezza e genericità del motivo. Secondo i giudici, l’appello dell’imputato era privo di qualsiasi supporto probatorio. Al contrario, la Corte ha evidenziato come le prove raccolte dimostrassero una realtà ben diversa da quella rappresentata dal ricorrente.
La decisione finale è stata quindi la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di tremila euro alla Cassa delle ammende, confermando che l’abuso di un diritto processuale non può trovare tutela nell’ordinamento.
Le Motivazioni della Sentenza
La Corte ha basato la sua decisione su diversi elementi chiave emersi durante i precedenti gradi di giudizio. In primo luogo, la sentenza impugnata aveva già dato atto che, secondo i verbali della polizia giudiziaria, l’imputato si era espresso in italiano e aveva dimostrato di comprendere pienamente quanto gli veniva comunicato dagli agenti.
In secondo luogo, un elemento decisivo è stato il comportamento dello stesso imputato durante il processo d’appello. In quella sede, la Corte gli aveva nominato un interprete, ma egli si era ‘ingiustificatamente’ rifiutato di interloquire con il professionista. Questo rifiuto è stato interpretato come un chiaro segnale della natura pretestuosa della sua richiesta.
La Cassazione ha sottolineato che il ricorso si limitava a riproporre la stessa identica lamentela, senza fornire alcun nuovo elemento o contro-argomentazione rispetto a quanto già accertato e motivato dai giudici di merito. Tale comportamento processuale integra una mera riproposizione di una doglianza già respinta, rendendo il ricorso generico e, quindi, inammissibile.
Conclusioni
Questa pronuncia ribadisce un principio fondamentale: sebbene il diritto all’interprete sia sacro e inviolabile per garantire un giusto processo, il suo esercizio è subordinato a un presupposto di fatto, ovvero l’effettiva incapacità dell’imputato di comprendere la lingua processuale. Quando emergono prove concrete che contraddicono tale affermazione, o quando l’imputato stesso ostacola l’assistenza offertagli, la richiesta può essere legittimamente disattesa. La decisione serve da monito contro l’uso strumentale delle garanzie difensive, che devono essere finalizzate alla tutela sostanziale dei diritti e non a ostacolare il corso della giustizia.
Un imputato che non conosce l’italiano ha sempre diritto a un interprete?
Sì, il diritto all’assistenza di un interprete è una garanzia fondamentale del giusto processo per chi non comprende la lingua italiana. Tuttavia, la sua concessione si basa sulla reale necessità, che il giudice è tenuto a verificare.
Cosa succede se ci sono prove che l’imputato capisce l’italiano, nonostante la sua richiesta?
Se dagli atti processuali, come i verbali di polizia, emerge che l’imputato è in grado di esprimersi e comprendere la lingua italiana, il giudice può rigettare la richiesta di un interprete, ritenendola infondata, come avvenuto in questo caso.
Quali sono le conseguenze se un imputato rifiuta di collaborare con l’interprete nominato?
Il rifiuto ingiustificato di interagire con l’interprete messo a disposizione dal tribunale può essere considerato un elemento a sfavore dell’imputato. Tale comportamento può essere interpretato come un’indicazione che la sua richiesta era pretestuosa e contribuire a dichiarare il suo ricorso inammissibile.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 32233 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 32233 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME (CUI CODICE_FISCALE) nato il 23/07/1988
avverso la sentenza del 18/12/2024 della CORTE APPELLO di ROMA
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
NOME COGNOME impugna la sentenza in epigrafe indicata, che ne ha confermato la condanna per i delitti di cui agli artt. 337 e 582-585, cod. perì., deducendo il vizio della motivazione nella parte in cui è stata respinta l’eccezione di nullità dell’intero procedimento, per non essere stato assicurate all’imputato, che non conosce la lingua italiana, l’assistenza di un interprete e la traduzione degli atti.
Il ricorso è inammissibile, per la manifesta infondatezza e la genericità del motivo.
La relativa allegazione è sfornita di qualsiasi sostegno probatorio. La sentenza impugnata, invece, rappresenta che, dagli atti di polizia giudiziaria, risulta come l’imputato si esprimesse in italiano ed avesse compreso quanto rappresentatogli dagli operatori. Inoltre, la Corte d’appello gli ha nominato un interprete, con il quale egli ha comunque rifiutato ingiustificatamente d’interloquire. A tali osservazioni il ricorso nulla replica, limitandosi a riproporre la doglianza.
All’inammissibilità del ricorso segue per legge la condanna alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si stima equa in tremila euro, non ravvisandosi assenza di colpa del ricorrente nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di tremila euro alla Cassa delle amm Così deciso, 1’11 luglio 2025.