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Diritto all’interprete: quando il giudice può negarlo

Un imputato straniero ha impugnato una condanna sostenendo la violazione del suo diritto all’interprete. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, chiarendo che il giudice può negare l’assistenza di un interprete se la conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato emerge chiaramente da atti precedenti, come verbali di polizia e dal suo comportamento processuale. Il diritto all’interprete, quindi, non scaturisce da una mera richiesta ma da una necessità effettiva.

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Pubblicato il 12 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Diritto all’interprete: non basta la richiesta se si conosce l’italiano

Il diritto all’interprete per l’imputato straniero che non conosce la lingua italiana è un pilastro del giusto processo, garantito dall’articolo 143 del codice di procedura penale. Tuttavia, questo diritto non è assoluto né scaturisce automaticamente da una semplice richiesta. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito che il giudice ha il potere e il dovere di verificare l’effettiva necessità di tale assistenza, potendo negarla qualora esistano prove concrete della sufficiente conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato. Vediamo nel dettaglio il caso e le motivazioni della Suprema Corte.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine dal ricorso di un cittadino straniero, condannato dal Giudice di Pace al pagamento di una multa di 10.000 euro per un reato previsto dal Testo Unico sull’Immigrazione. L’imputato lamentava la nullità di tutti gli atti del dibattimento, sostenendo di essersi visto negare l’assistenza di un interprete, da lui richiesta durante il processo. Secondo la sua difesa, il giudice aveva erroneamente desunto la sua conoscenza dell’italiano dal solo verbale di identificazione, ignorando la giurisprudenza che riconosce il diritto all’interprete anche a fronte di una mera richiesta.

La valutazione del diritto all’interprete da parte della Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile per manifesta infondatezza. I giudici hanno chiarito un principio fondamentale: sebbene il diritto all’interprete sia cruciale in ogni fase processuale, spetta al giudice il compito di accertare se l’imputato sia effettivamente incapace di comprendere la lingua italiana. Questa valutazione non è arbitraria, ma deve basarsi su elementi oggettivi.

Il giudice può legittimamente desumere una sufficiente padronanza della lingua da atti e comportamenti precedenti al dibattimento. Non è obbligato a nominare un interprete se l’imputato ha dimostrato in altre occasioni di comprendere il significato degli atti processuali e di interagire efficacemente in italiano.

Le Motivazioni della Cassazione

Nel caso specifico, la conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato non era affatto un’ipotesi, ma un fatto supportato da molteplici prove documentali. La Corte ha evidenziato che l’imputato:

1. Nel verbale di identificazione: Aveva risposto in italiano alle domande delle Forze dell’Ordine e aveva nominato un difensore di fiducia, dimostrando di aver compreso gli avvertimenti ricevuti.
2. Nel verbale di perquisizione: Il documento, da lui firmato, attestava esplicitamente che egli “parla e capisce l’italiano”.
3. Nel verbale di arresto: Si dava atto che l’individuo “comprende, legge, scrive e si esprime in lingua italiana”.
4. Durante la prima udienza: Pur essendo presente, non aveva mai affermato di non capire o parlare l’italiano, sollevando la questione solo “improvvisamente” nell’udienza successiva.

Questi elementi, considerati nel loro complesso, hanno dimostrato in modo inequivocabile che la richiesta di un interprete non era dettata da una reale necessità, ma appariva piuttosto strumentale. Di conseguenza, il rigetto della richiesta da parte del giudice di merito è stato ritenuto corretto.

Conclusioni

L’ordinanza riafferma che il diritto all’interprete è una garanzia sostanziale e non una mera formalità. La sua attivazione dipende da una condizione oggettiva: l’incapacità dell’imputato di comprendere la lingua del processo. I giudici possono e devono utilizzare tutti gli elementi a loro disposizione, inclusi i verbali redatti nella fase delle indagini e il comportamento tenuto dall’imputato in aula, per valutare questa condizione. Una richiesta tardiva e contraddetta da prove concrete di conoscenza della lingua può essere legittimamente respinta, senza che ciò costituisca una violazione dei diritti di difesa.

Il diritto all’assistenza di un interprete è automatico se richiesto dall’imputato straniero?
No. Secondo l’ordinanza, il giudice ha l’obbligo di verificare l’effettiva necessità dell’assistenza e può negarla se ci sono prove sufficienti che l’imputato comprende e parla la lingua italiana.

Quali elementi può usare il giudice per valutare la conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato?
Il giudice può basarsi su fatti precedenti, come il contenuto di verbali di identificazione, perquisizione o arresto, in cui è attestato che l’imputato ha interagito con le forze dell’ordine in italiano, ha compreso gli avvertimenti e ha nominato un difensore di fiducia senza bisogno di un interprete.

Cosa succede se un imputato non chiede subito l’interprete ma lo fa in un’udienza successiva?
Se l’imputato partecipa a una prima udienza senza manifestare difficoltà di comprensione e chiede l’interprete solo in seguito, questo comportamento, unito ad altre prove della sua conoscenza della lingua, può portare il giudice a ritenere la richiesta non necessaria e a negarla, considerandola infondata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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