Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 910 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 910 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 07/12/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a VIADANA il 05/12/1972 COGNOME nato a CREMONA il 01/06/1973
avverso la sentenza del 13/12/2022 della CORTE APPELLO di BRESCIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
letta la memoria del difensore delle parti civili COGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME, Avv. NOME COGNOME e udito lo stesso, che ha chiesto la conferma della sentenza impugnata. con vittoria di spese di causa; ha letta la memoria del difensore della parte civile COGNOME, Avv. NOME COGNOME e udito lo stesso, che ha chiesto il rigetto dei ricorsi, con vittoria de spese del grado di giudizio;
Uditi i difensori di COGNOME NOME, Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME i quali si sono associati alla richiesta del Procuratore generale, si sono riportati ai mot di ricorso chiedendo la riqualificazione del fato in quello di cui all’art. 393 cod. con dichiarazione di improcedibilità per mancanza della condizione di procedibilità;
Uditi i difensori di COGNOME, Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME le quali hanno chiesto l’annullamento della sentenza impugnata;
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Brescia, con sentenza del 13 dicembre 2022, confermava la sentenza del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Cremona nella parte in cui COGNOME NOME era stato ritenuto responsabile del reato di estorsione commesso ai danni di NOME COGNOME e COGNOME NOMECOGNOME e COGNOME NOME del reato di estorsione commesso ai danni del solo NOME COGNOME secondo il capo di imputazione, i due imputati avevano costretto mediante minaccia le persone offese (COGNOME il solo COGNOME) a sottoscrivere le proprie dimissioni dal RAGIONE_SOCIALE Cremona, violando i loro diritti relativi all interruzione del rapporto di lavoro.
1.1 Avverso la sentenza ricorrono per cassazione i difensori di COGNOME NOME, impugnando il provvedimento della Corte di appello di Brescia con il quale, all’udienza del 15 settembre 2022, era stata rigettata l’istanza di differimento del processo, presentata a mezzo PEC in data 2 settembre 2022, finalizzato a consentire alla difesa lo studio compiuto degli atti processuali; la Corte di appello non aveva reso alcuna valutazione sul punto, essendosi limitata a riscontrare la presenza di un secondo difensore e il deposito dell’istanza tredici giorni prima dell’udienza; peraltro, il difensore Avv. COGNOME non era stato neppure destinatario della relazione della causa, ai sensi dell’art. 602 cod. proc. pen., trasmessa in data 13 settembre 2022 solo agli altri difensori.
1.2 I difensori osservano inoltre che la sentenza impugnata aveva accolto integralmente le dichiarazioni rese dalle persone offese, malgrado nei motivi di impugnazione fossero state rappresentate le ragioni per le quali doveva considerarsi legittima la condotta di COGNOME e le incongruenze e contraddizioni nelle versioni proposte da COGNOME e COGNOME, la cui denuncia era di quattro anni successiva alla data del presunto reato: COGNOME, quale Presidente del Consorzio, confortato dal parere del Consiglio di amministrazione, aveva ritenuto di dover rimuovere alcun dipendenti, tra cui COGNOME e COGNOME, in quanto dirigevano settori che si erano rivelati in crisi ed avevano portato a pesanti perdite per i Consorzio; era vero che, seguendo le procedure ordinarie, le dimissioni avrebbero dovuto essere precedute da contestazioni formali e dall’apertura di un procedimento disciplinare, ma ciò non escludeva la formalità della richiesta di COGNOME, che aveva ritenuto più agile e meno dolorosa la soluzione delle dimissioni volontarie, anziché del licenziamento per giusta causa.
La sentenza impugnata -proseguono i difensori- non aveva seguito un percorso argomentativo coerente tale da far ritenere sussistente una minaccia
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così grave da coartare, pressoché eliminandola, la libertà di determinazione dei dipendenti, ed anche relativamente all’elemento soggettivo la motivazione della sentenza era manchevole, essendo COGNOME assolutamente convinto della giustizia della sua richiesta.
1.3 I difensori eccepiscono l’erroneità della sentenza nella parte in cui non aveva riqualificato il reato di estorsione in quello di esercizio arbitrario de proprie ragioni con violenza alle persone: i giudici di appello non avevano considerato la consulenza volta a considerare le criticità nella gestione del consorzio, da cui risultava che la decisione di allontanare numerosi dipendenti dal Consorzio non traeva origine da un mero pretesto, ma da una puntuale riflessione intercorsa con soggetti di carattere qualificato; ciò consentiva anche di censurare la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto inverosimile che l’imputato avrebbe potuto esaminare analiticamente le conclusioni di una consulenza di sole 11 pagine nell’arco di 5 giorni tra la consegna della consulenza e le dimissioni di COGNOME, non avendo la Corte di appello neppure risposto alle censure relative alla puntuale rappresentazione delle criticità rilevate nell’operato delle persone offese, risultanti anche in un parere legale reso dagli avvocati del Consorzio, tutti elementi che avrebbero ragionevolmente potuto indurre l’imputato a convincersi della legittimità della propria pretesa che, secondo un opinabile giudizio espresso dalla Corte di appello, era da ritenersi infondata; tale sindacato non era però richiesto, dovendo il giudice verificare unicamente la convinzione soggettiva dell’agente e gli elementi da costui presi in considerazione per misurare la legittimità del proprio diritto; né potevano avere rilevanza la volontà di COGNOME liberarsi di persone legate alla precedente gestione o la preoccupazione del ricorrente per l’indagine in corso. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
1.4 I difensori rilevano che, qualora si fosse esclusa la sussistenza del reato di cui all’art. 393 cod. pen., i fatti avrebbero dovuto essere riqualificati nel re meno grave di violenza privata previsto dall’art. 610 cod. pen.: oltre al fatto che COGNOME, quale figura esterna al Consorzio, non aveva tratto alcun beneficio dalla vicenda, era stato trascurato che alle persone offese erano state riconosciute le indennità legate alla normale cessazione del rapporto di lavoro, incluso il TFR.
1.5 I difensori lamentano l’erroneità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante delle più persone riunite: la Corte di appello di Brescia si era pronunciata esclusivamente sulla sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi dell’ipotesi concorsuale, ai sensi dell’art.
cod. pen., nei confronti di COGNOME, peraltro con riferimento soltanto all’incontro con COGNOME, essendo stata accertata l’estraneità di COGNOME rispetto alla vicenda riguardante la parte civile NOME, ed aveva del tutt omesso qualsiasi considerazione in ordine alla violenza e/o minaccia in ipotesi concretamente percepita da COGNOME per effetto della condotta assunta dal datore di lavoro; tale omissione appariva ancora più grave in relazione all’episodio delle dimissioni di COGNOME, laddove COGNOME non era neppure presente; si doveva quindi escludere la percezione da parte di COGNOME e COGNOME di qualsiasi condotta violenta e/o minacciosa posta in essere dagli altri partecipanti all’incontro con COGNOME, idonea ad esplicare un più elevato effetto intimidatorio nei confronti delle persone offese.
1.6 I difensori eccepiscono la contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche: la Corte di appello si era limitata a richiamare le considerazioni relative alla gravità del fatto di reato omettendo di pronunciarsi sulle puntuali censure formulate nei motivi di appello e nella memoria difensiva.
1.7 I difensori lamentano la mancanza di motivazione relativamente alla quantificazione della pena, visto che la Corte di appello, dopo aver fissato la pena base in misura prossima al minimo edittale, non aveva esplicato alcuna indicazione relativa all’aumento per i singoli reati attinti della riten continuazione.
Propongono ricorso i difensori di COGNOME
2.1 I difensori lamentano la mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione relativamente alla affermazione di responsabilità ricorrente in relazione al reato di cui all’art. 629 cod. pen., facendo proprie tutte argomentazioni difensive sviluppate nel ricorso proposto nell’interesse di COGNOME.
2.2 I difensori rilevano che la motivazione della sentenza si adagiava sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa ed era basata su una parziale valutazione delle stesse, che non erano state oggetto di alcuna verifica sul piano della loro attendibilità; vi era stato poi un evidente travisamento probatorio del contenuto del documento inviato dall’avvocato del Consorzio all’imputato la sera precedente, posto che lo si era erroneamente qualificato come una bozza di lettera di dimissioni, mentre costituiva pacificamente una bozza di contestazioni disciplinari propedeutica al licenziamento di COGNOME inoltre la descrizione dei fatti da parte di quest’ultimo era radicalmente diversa da quella contenuta nella sentenza, visto che COGNOME era intervenuto quando il “licenziamento” si era già perfezionato.
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2.3 I difensori lamentano la erroneità della motivazione in ordine alla sussistenza della circostanza aggravante delle più persone riunite, con un motivo identico a quello proposto nell’interesse di COGNOME.
2.4 I difensori rilevano che qualora si fosse ritenuto COGNOME responsabile del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ai sensi dell’art. 393 cod. pen ovvero del reato di violenza privata di cui all’art. 610 cod. pen., l riqualificazione giuridica del fatto avrebbe dovuto essere riconosciuta anche al ricorrente.
2.5 I difensori lamentano la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione rispetto alla mancata concessione della circostanza attenuante della minima partecipazione prevista dall’art. 114 cod. pen., negata sulla base del fatto che risultava contestata l’aggravante delle più persone riunite, non tenendo conto che il presunto reato di estorsione risultava commesso soltanto da due persone; la sentenza impugnata non aveva inoltre illustrato le ragioni per le quali aveva ritenuto che la condotta del ricorrente non appariva marginale rispetto ad una valutazione complessiva della vicenda delittuosa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOME è infondato.
1.1 Quanto al primo motivo di ricorso, si deve rilevare la manifesta infondatezza dello stesso, posto che, come precisato da Sez.2 n. 5155 dell’11/01/2017, COGNOME, Rv. 269415, l’art. 108 cod. proc. pen. è dettato a tutela dell’imputato il quale abbia un solo difensore e questi rinunci, sia revocato o diventi incompatibile o abbandoni la difesa. Si tratta, con tutta evidenza, di norma di stretta interpretazione non solo per come è formulata ma anche per la ratio sottostante (tutela dell’imputato rimasto senza alcun difensore), sicchè non è estensibile al caso in cui sia nominato un secondo difensore; correttamente, pertanto, la Corte di appello ha ritenuto che la presenza di un co-difensore, oltre al fatto che il difensore che aveva presentato la richiesta di rinvio aveva avuto a disposizione 13 giorni per esaminare gli atti, fosse ostativa alla concessione del termine.
1.2 II secondo ed il terzo motivo di ricorso possono essere esaminati assieme, visto che entrambi i motivi fanno leva su una legittimità della condotta di COGNOME; tale assunto non può essere condiviso.
Innanzitutto, se anche si volesse riconoscere fondata la tesi del ricorrente, la condotta consentita sarebbe stata una procedura di licenziamento, non certo di
dimissioni indotte dal datore di lavoro, figura che non esiste nel nostro ordinamento giuridico e che quindi mai potrebbe portare ad una pretesa legittima da far valere davanti al giudice del lavoro, come del resto riconosciuto dallo stesso ricorrente, che giustifica la scelta di COGNOME come più agile e meno dolorosa per il dipendente; peraltro, COGNOME, quale presidente del consiglio di amministrazione del RAGIONE_SOCIALE, era a conoscenza che non aveva alcun potere né disciplinare, né di licenziare i dipendenti (meno che mai COGNOME collaboratore esterno), posto che era l’intero consiglio che poteva deliberare in merito, per cui non si vede come potesse ritenere legittima la pretesa di “allontanare” in piena autonomia i dipendenti.
Inoltre, non è neppure stata ritenuta provata la presunta legittimità dell’operato di COGNOME, posto che i giudici di merito hanno accertato che COGNOME, assunto da poco più di un anno, non poteva concludere contratti ma solo formulare proposte in merito, e che COGNOME, anche egli assunto da poco più di un anno, aveva formulato un piano di recupero; la pretesa di COGNOME di imputare ai due dipendenti le perdite evidenziate dalla società di revisione è stata ritenuta un mero pretesto per liberarsi di dipendenti “scomodi” in quanto dalla analisi compiuta dalla società suddetta era risultato che le perdite erano precedenti all’impiego di COGNOME e COGNOME, nei confronti dei quali non venne infatti mai esperita alcuna azione di risarcimento dal Consorzio per i presunti danni provocati.
Su tutti tali aspetti, si deve rilevare la natura meramente fattuale delle censure proposte dal ricorrente, in quanto con esse viene proposta una mera rivalutazione del compendio probatorio, non consentita in questa sede, stante la preclusione, per il giudice di legittimità, di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini dell decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289).
Premesso quindi che, come noto, “il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico” (Sez.U. n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027 – 02), i giudici di merito hanno in più punti evidenziato perché la condotta di COGNOME ha integrato il dolo proprio del reato di estorsione in quanto, come sopra ricordato, la sua pretesa non aveva alcuna possibilità di essere esercitata davanti al giudice del lavoro sia per motivi formali
(assoluta mancanza di potere disciplinare e di licenziamento, mancato rispetto di garanzie a tutela del lavoratore quali contestazione disciplinare e possibilità di controdeduzioni), sia sostanziali (impossibilità di addossare a COGNOME e COGNOME tutte le perdite rilevate, precedenti al loro impiego in quei settori); i giudi merito hanno rilevato che COGNOME aveva posto in essere le medesime modalità di “dimissioni indotte” anche con altri dipendenti del Consorzio (Nolli, Puliti e Terni) e che anche la vicenda intervenuta,. con il collaboratore COGNOME rendeva evidente che intento di COGNOME era di liberarsi di figure legate alla precedent gestione del Consorzio Agrario, sottolineando anche il motivo per il quale COGNOME aveva atteso quattro anni prima di presentare denuncia (pag.5 sentenza di appello), dovuto al timore di non trovare più occupazioni qualora avesse parlato di quanto era accaduto.
Quanto alla idoneità della minaccia a coartare la volontà delle persone offese, la Corte di appello ha osservato (pag.25) che nei confronti delle parti civili vennero utilizzate “minaccia, intimidazione, violenza financo materiale (apprensione del cellulare aziendale, preclusione a chiamate telefoniche a terzi, rifiuto di fa allontanare il dipendente convocato prima di ‘chiudere’ il colloquio, minaccia di far divulgare notizie nemmeno verificate con preclusione di ulteriori possibilità lavorative, intimidazione di chiedere danni nemmeno documentati per centinaia di migliaia di euro), circostanze che emergono anche dalla sentenza di primo grado, per cui ad entrambi i dipendenti venne impedito di uscire dalla stanza se prima non avessero firmato le dimissioni; i giudici di merito hanno quindi correttamente applicato i principi più volte affermati da questa Corte secondo cui in tema di estorsione, la connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l’elemento strutturale del reato vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa e l particolari condizioni soggettive della vittima, tutti elementi presenti nei casi esame.
1.3 Nessun dubbio vi è sul requisito dell’ingiusto danno patito dalle persone offese, costrette ad interrompere il rapporto di lavoro, per cui non si può sostenere che l’avere avuto le indennità spettanti per la risoluzione ed il TFR portino ad una insussistenza del danno, vista la perdita di tutti gli emolumenti che avrebbero avuto qualora il rapporto lavorativo fosse continuato; quanto al requisito del profitto in capo agli imputati, la Corte di appello Io ha individua nell’aver ottenuto per COGNOME l’allontanamento di COGNOME e COGNOME in maniera non regolare, “conseguendo vantaggi estranei al rapporto giuridico, finalizzati a
scopi diversi e non consentiti rispetto a quelli per i quali il diritto del lavora era riconosciuto e tutelato” (pag.23); in particolare, COGNOME, quale presidente del Consiglio di amministrazione, aveva il vantaggio di scegliere quali dipendenti tenere per il miglior andamento del Consorzio e quindi mantenere la sua carica, COGNOME aveva il vantaggio di mantenere il rapporto di collaborazione con il Consorzio assecondando la volontà di COGNOME; del resto, già il primo giudice aveva individuato l’ingiusto profitto nel “raggiungimento dell’obiettivo di rendere dimissionari due dipendenti non graditi, con indubbio vantaggio per il Consorzio dallo stesso rappresentato” (pag.20 sentenza primo grado).
1.4 La censura relativa all’aggravante delle più persone riunite è inammissibile per non essere stata proposta in appello: si deve ribadire che, alla luce di quanto disposto dall’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione, ad eccezione di quelle rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio e quelle che non sarebbe stato possibile proporre in precedenza (Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, COGNOME, Rv. 276062, in motivazione; Sez. 3, n. 57116 del 29/09/2017, B., Rv. 271869; Sez. 2, n. 29707 del 08/03/20; Sez. 2, n. 8890 del 31/01/2017, COGNOME, Rv. 269368; Sez. 3, n. 16610 del 24/01/2017, COGNOME, Rv. 269632; Sez. 2, n. 6131 del 29/01/2016, COGNOME, Rv. 266202; da ultimo v. Sez. 2, n. 23338 del 07/07/2020, COGNOME, non mass.). Il principio trova la sua ratio nella necessità di evitare che possa sempre essere rilevato un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado con riguardo ad un punto del ricorso non investito dal controllo della Corte di appello, perché non segnalato con i motivi di gravame.
1.5 Relativamente alla mancata concessione delle attenuanti generiche, la stessa è giustificata da motivazione esente da manifesta illogicità (pag.24 sentenza impugnata) e, pertanto, è insindacabile in cassazione (vedi Sez. 5, Sentenza n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME Rv. 271269 – 01)
1.6 Quanto alla determinazione della pena, si deve ribadire che “in tema di determinazione della pena nel reato continuato, pur sussistendo in linea di principio l’obbligo di dar conto delle ragioni della quantificazione dell’aumento di pena per il reato satellite, tuttavia, qualora l’entità di detto aumento non s ponga al di sopra della media della pena irrogabile a titolo di continuazione, non sussiste un obbligo di specifica motivazione, essendo in tal caso sufficiente il richiamo alla adeguatezza e alla congruità dell’aumento” (Sez.4, 48546 del 10/07/2018, Gentile, Rv. 274361).
Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME è infondato.
2.1 Premesso che con riferimento al primo motivo di ricorso devono essere richiamate le considerazioni espresse in merito al ricorso proposto nell’interesse di COGNOME, la Corte di appello ha ampiamente motivato sulla attendibilità della persona offesa COGNOME evidenziando che COGNOME è stato colui che ha dettato la lettera di dimissioni che COGNOME aveva scritto, per cui era necessariamente a conoscenza della volontà di COGNOME di costringere COGNOME a dimettersi senza che gli venisse effettuata alcuna contestazione formale; quanto alla eccezione che COGNOME non avrebbe ricevuto la lettera di dimissioni da dettare a COGNOME la sera prima dei fatti, ma una lettera di contestazioni disciplinari, la stessa è irrilevante, posto che ciò che viene addebitato a COGNOME di aver partecipato alla fase cruciale del colloquio (sia pure soltanto in una fase finale; il giudice di primo grado ha riportato le dichiarazioni di COGNOME dalle quali emergeva che l’atteggiamento di COGNOME era cambiato quando COGNOME li aveva raggiunti nella sala riunioni) e di avere materialmente posto in essere il comportamento al quale COGNOME era stato coartato mediante dettatura della lettera di dimissioni,..
2.2 Sulla eccezione di insussistenza della circostanza aggravante delle più persone riunite, anche in questo caso il motivo è precluso per non essere stato proposto in appello; sulla impossibilità di qualificare il fatto nell’ipotesi d all’art. 393 cod. pen. o in quella di cui all’art. 610 cod. pen., si è già det proposito del motivo proposto nell’interesse di COGNOME.
2.3 Infine, quanto alla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 114 cod. pen., vi è congrua motivazione della Corte di appello contenuta a pag. 24 della sentenza impugnata, che ha fatto corretta applicazione del principio secondo il quale
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta i ricorsi, le parti private che li hanno proposti devono essere condannate al pagamento delle spese del procedimento; i ricorrenti devono inoltre essere condannati, in virtù del principio della soccombenza, alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, non sussistendo motivi per la compensazione.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, gli imputati, in solido tra loro, alla rifusione delle rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte c NOME COGNOME che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori legge, ed il solo COGNOME alla rifusione delle spese di rappresentanza e difes parti civili NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME che liqu complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 07/12/2023