LexCED: l'assistente legale basato sull'intelligenza artificiale AI. Chiedigli un parere, provalo adesso!

Dimissioni forzate è estorsione: la Cassazione

La Corte di Cassazione conferma la condanna per estorsione a carico del presidente di un consorzio che aveva costretto due dipendenti a firmare le proprie dimissioni forzate. La Corte ha stabilito che la pretesa del datore di lavoro era illegittima e la minaccia usata per ottenere le dimissioni integra il reato, escludendo l’ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Prenota un appuntamento

Per una consulenza legale o per valutare una possibile strategia difensiva prenota un appuntamento.

La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)
Pubblicato il 19 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Dimissioni Forzate: Quando la Pressione del Datore di Lavoro Diventa Estorsione

Ottenere le dimissioni forzate da un dipendente tramite minacce non è un modo sbrigativo per risolvere una questione lavorativa, ma integra il grave reato di estorsione. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con una recente sentenza, confermando la condanna per il presidente di un consorzio che aveva costretto due dipendenti a firmare la propria lettera di dimissioni. Questa pronuncia traccia una linea netta tra l’esercizio del potere datoriale e la condotta criminale.

I Fatti del Caso: Dimissioni Indotte o Estorsione?

La vicenda ha origine dalla decisione del presidente di un importante consorzio agricolo di ‘allontanare’ due dipendenti. Secondo la tesi difensiva, tale decisione era motivata da una gestione critica dei settori a loro affidati, che avevano generato pesanti perdite per l’ente. Il presidente, confortato dal parere del consiglio di amministrazione, aveva ritenuto la via delle dimissioni volontarie una soluzione ‘più agile e meno dolorosa’ rispetto a un licenziamento per giusta causa, che avrebbe richiesto l’apertura di un procedimento disciplinare.

Tuttavia, le modalità con cui sono state ottenute tali dimissioni sono state al centro del processo. I dipendenti sono stati convocati e, attraverso una serie di pressioni e minacce, costretti a sottoscrivere la loro uscita dall’azienda. Tra le condotte contestate figurano l’intimidazione, la minaccia di divulgare notizie non verificate per precludere future opportunità lavorative, l’impossibilità di lasciare la stanza prima di aver firmato e la richiesta di danni non documentati.

Le Argomentazioni della Difesa e la Richiesta di Riqualificazione

La difesa degli imputati (il presidente e un suo collaboratore) ha sostenuto che la condotta dovesse essere considerata legittima o, al più, riqualificata in un reato meno grave. Si è tentato di far passare l’azione come un esercizio, seppur arbitrario, delle proprie ragioni (art. 393 c.p.), sostenendo che il presidente fosse convinto della giustizia della sua pretesa di allontanare i dipendenti ritenuti responsabili di perdite economiche. In subordine, si è richiesta la riqualificazione in violenza privata (art. 610 c.p.).

I difensori hanno inoltre contestato la sussistenza di una minaccia idonea a coartare la volontà dei lavoratori e hanno messo in dubbio l’esistenza di un danno ingiusto, dato che ai dipendenti erano state corrisposte le normali indennità di fine rapporto, incluso il TFR.

La Decisione della Cassazione sul caso di dimissioni forzate

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente i ricorsi, confermando la condanna per estorsione pronunciata dalla Corte di Appello. I giudici supremi hanno smontato punto per punto le tesi difensive, chiarendo perché la condotta degli imputati integrasse pienamente il reato di cui all’art. 629 c.p.

La Distinzione tra Estorsione ed Esercizio Arbitrario delle Proprie Ragioni

Il cuore della decisione risiede nella distinzione tra i due reati. L’esercizio arbitrario presuppone che l’agente agisca per far valere un diritto esistente, anche se lo fa con mezzi illeciti anziché ricorrere al giudice. Nel caso di specie, la Corte ha stabilito che la pretesa del presidente era del tutto illegittima. In primo luogo, il concetto di ‘dimissioni indotte’ non esiste nell’ordinamento giuridico. In secondo luogo, il presidente non aveva il potere personale di licenziare i dipendenti, essendo questa una prerogativa dell’intero consiglio di amministrazione. La sua pretesa era quindi priva di fondamento giuridico, il che fa venir meno il presupposto per l’applicazione dell’art. 393 c.p. Di conseguenza, l’elemento psicologico non era la convinzione di esercitare un proprio diritto, ma il dolo specifico dell’estorsione: la volontà di ottenere un profitto ingiusto con l’altrui danno.

L’Ingiustizia del Danno e del Profitto

La Cassazione ha chiarito che il danno per le vittime non consiste nella mancata corresponsione delle indennità di fine rapporto, ma nella perdita stessa del posto di lavoro e di tutti gli emolumenti futuri che ne sarebbero derivati. Si tratta di un danno palesemente ingiusto, in quanto frutto di una coercizione e non di una legittima procedura di licenziamento.

Anche il profitto per gli imputati è stato ritenuto ingiusto. Per il presidente, consisteva nel consolidare il proprio potere all’interno del consorzio, liberandosi di figure legate alla gestione precedente in modo non regolare e ottenendo il vantaggio di scegliere quali dipendenti mantenere. Per il collaboratore, il profitto consisteva nel mantenere il proprio rapporto di collaborazione con il consorzio, assecondando la volontà del presidente.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano sulla palese illegittimità della pretesa avanzata dal datore di lavoro. I giudici hanno sottolineato che le perdite economiche addotte come giustificazione erano in realtà precedenti all’impiego dei due dipendenti, configurando la motivazione come un mero pretesto. La condotta è stata valutata come minacciosa e idonea a integrare l’estorsione in relazione a concrete circostanze oggettive: la personalità ‘sopraffattrice’ dell’agente, il contesto ambientale, l’ingiustizia della pretesa e le condizioni soggettive delle vittime. Le minacce utilizzate, come la preclusione di future opportunità lavorative e l’impedimento fisico ad allontanarsi, sono state considerate sufficienti a coartare la volontà delle persone offese, costringendole a subire le dimissioni forzate.

Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale: il rapporto di lavoro, sebbene caratterizzato da una naturale asimmetria di potere, non può mai trascendere nell’abuso e nella coercizione. L’utilizzo di minacce per ottenere le dimissioni di un lavoratore non è una scorciatoia gestionale, ma un’azione criminale che integra il reato di estorsione. Per i datori di lavoro, questa decisione serve da monito a seguire sempre e solo le vie legali previste dall’ordinamento per la gestione e l’eventuale cessazione dei rapporti di lavoro, rispettando le garanzie e le procedure a tutela del lavoratore. Per i lavoratori, è la conferma che la legge offre protezione contro abusi di potere che ledono la libertà di autodeterminazione e la dignità professionale.

Quando costringere un dipendente a dimettersi diventa reato di estorsione?
Diventa estorsione quando il datore di lavoro, mediante violenza o minaccia, costringe il lavoratore a firmare le dimissioni per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto (es. liberarsi di un dipendente scomodo senza seguire le procedure legali) con un danno ingiusto per il lavoratore (la perdita del posto di lavoro).

Qual è la differenza tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni in un contesto lavorativo?
La differenza fondamentale sta nella legittimità della pretesa. Si ha esercizio arbitrario se il datore di lavoro vanta un diritto tutelabile in sede giudiziaria (es. un licenziamento per giusta causa fondato) ma se lo fa da solo con la forza. Si ha estorsione, invece, se la pretesa del datore di lavoro è essa stessa illegittima e non potrebbe essere fatta valere davanti a un giudice, come nel caso di ‘dimissioni indotte’ basate su pretesti.

La perdita del posto di lavoro è un ‘danno ingiusto’ per l’estorsione, anche se il dipendente riceve il TFR?
Sì. Secondo la sentenza, il danno ingiusto non è escluso dalla liquidazione delle spettanze di fine rapporto. Il danno consiste nella perdita stessa del rapporto di lavoro e di tutti gli emolumenti che sarebbero derivati dalla sua prosecuzione, un pregiudizio che il lavoratore subisce a causa della condotta coercitiva e illegittima.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

Desideri approfondire l'argomento ed avere una consulenza legale?

Prenota un appuntamento. La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza / conference call e si svolge in tre fasi.

Prima dell'appuntamento: analisi del caso prospettato. Si tratta della fase più delicata, perché dalla esatta comprensione del caso sottoposto dipendono il corretto inquadramento giuridico dello stesso, la ricerca del materiale e la soluzione finale.

Durante l’appuntamento: disponibilità all’ascolto e capacità a tenere distinti i dati essenziali del caso dalle componenti psicologiche ed emozionali.

Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.

Il costo della consulenza legale è di € 150,00.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)

Articoli correlati