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Diffamazione WhatsApp: non è mezzo di pubblicità

Un soggetto, condannato per diffamazione aggravata per aver inviato contenuti satirici tramite un’app di messaggistica, ha presentato ricorso in Cassazione. Sosteneva di aver inviato il materiale a una sola persona. La Suprema Corte ha annullato la condanna, stabilendo che la diffamazione WhatsApp non integra automaticamente l’aggravante del mezzo di pubblicità. Spetta all’accusa provare l’effettiva diffusione a un numero apprezzabile di persone, non potendosi invertire l’onere della prova a carico dell’imputato. Il caso è stato rinviato alla Corte d’Appello per un nuovo esame.

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Pubblicato il 1 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Diffamazione WhatsApp: Non è Automaticamente un Mezzo di Pubblicità

L’invio di un messaggio offensivo su un’app di messaggistica istantanea configura sempre il reato di diffamazione aggravata? A questa domanda cruciale ha risposto una recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha fissato principi chiari sulla diffamazione WhatsApp, distinguendola da quella che avviene su altri social network. La Corte ha sottolineato che, per applicare l’aggravante del mezzo di pubblicità, è necessaria una prova concreta della diffusione a un vasto pubblico, prova che spetta interamente all’accusa.

I fatti del caso

Il caso trae origine dalla condanna di un individuo per il reato di diffamazione aggravata. L’imputato era stato accusato di aver diffuso, tramite una nota applicazione di messaggistica, vignette satiriche e video contenenti affermazioni offensive nei confronti di un’altra persona, accusandola di speculazioni edilizie e finanziarie illecite. Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello avevano confermato la sua responsabilità penale, ritenendo che la diffusione tramite l’app integrasse l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità.

I motivi del ricorso: una difesa basata sulla natura della comunicazione

L’imputato ha presentato ricorso per Cassazione, affidandosi a tre motivi principali.
In primo luogo, ha sostenuto la mancanza di prova sulla comunicazione del contenuto diffamatorio a più persone. La difesa ha affermato che i messaggi erano stati inviati esclusivamente a un unico amico, senza alcuna volontà di ulteriore diffusione.
In secondo luogo, ha contestato la qualificazione della piattaforma di messaggistica come “mezzo di pubblicità”. A differenza di social network come le bacheche pubbliche online, che sono accessibili a un numero indeterminato di utenti, questa applicazione consente una comunicazione diretta e limitata a specifici destinatari. Senza l’aggravante, il reato sarebbe di competenza del Giudice di Pace.
Infine, come conseguenza logica, ha eccepito l’incompetenza del Tribunale a giudicare il caso.

Le motivazioni della Corte di Cassazione sulla diffamazione WhatsApp

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando la sentenza impugnata e rinviando il caso per un nuovo giudizio. Le motivazioni dei giudici si concentrano su due aspetti fondamentali: l’onere della prova e la natura dello strumento di comunicazione utilizzato.

L’onere della prova non può essere invertito

La Corte ha censurato la decisione della Corte d’Appello per aver basato la condanna su mere congetture. I giudici di merito avevano desunto la volontà di diffondere i messaggi dal loro contenuto articolato e dalla loro successiva circolazione pubblica, ribaltando illegittimamente l’onere della prova. La Cassazione ha ribadito un principio cardine del diritto processuale penale: spetta all’accusa dimostrare ogni elemento del reato, compresa la comunicazione a più persone. Non si può chiedere all’imputato di fornire la prova negativa di non aver diffuso i messaggi, né presumere la sua colpevolezza dalla sua scarsa collaborazione processuale.

WhatsApp non è un “mezzo di pubblicità” per natura

Il punto più rilevante della sentenza riguarda la qualificazione giuridica della piattaforma di messaggistica. La Corte ha consolidato un orientamento giurisprudenziale secondo cui la diffusione di un messaggio offensivo tramite questa app, di per sé, non integra l’aggravante del mezzo di pubblicità. Tale strumento è intrinsecamente destinato a scambi tra due o pochi soggetti. L’aggravante può sussistere solo se si dimostra che il messaggio è stato inviato a un gruppo composto da un numero “quantitativamente apprezzabile” di persone. La situazione è diversa per altri social network, come quelli con bacheche pubbliche, che sono “fisiologicamente” strutturati per raggiungere un pubblico potenzialmente illimitato. In ogni caso, la prova di tale ampia diffusione deve essere fornita da chi accusa.

Le conclusioni

La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di condanna e ha rinviato il caso ad un’altra sezione della Corte d’Appello per un nuovo giudizio, che dovrà attenersi ai principi enunciati. Questa decisione ha importanti implicazioni pratiche: chiarisce che la diffamazione WhatsApp non è automaticamente aggravata. Per contestare l’aggravante del mezzo di pubblicità, l’accusa deve superare un onere probatorio significativo, dimostrando che la comunicazione era destinata a raggiungere un numero di persone tale da essere assimilabile a una diffusione pubblica. Si tratta di una tutela fondamentale per l’imputato, che non può essere condannato sulla base di semplici presunzioni.

Inviare un messaggio offensivo su WhatsApp costituisce sempre diffamazione aggravata?
No. Secondo la Corte di Cassazione, non costituisce diffamazione aggravata dall’uso del mezzo di pubblicità, a meno che l’accusa non dimostri che il messaggio è stato inviato a un gruppo con un numero di persone “quantitativamente apprezzabile”.

A chi spetta dimostrare che il messaggio è stato inviato a più persone?
Spetta all’accusa. La Corte ha stabilito che non si può presumere la diffusione a più persone basandosi solo sul contenuto del messaggio o sulla sua successiva circolazione. L’onere della prova è a carico di chi accusa e non può essere invertito, chiedendo all’imputato di provare di non averlo diffuso.

Qual è la differenza tra WhatsApp e altri social network ai fini della diffamazione?
La Corte distingue tra strumenti di comunicazione destinati a scambi privati tra pochi soggetti (come WhatsApp) e piattaforme “fisiologicamente” strutturate per una diffusione a un pubblico vasto o indeterminato (come un social network con una bacheca pubblica). Per i primi, l’aggravante va provata caso per caso; per i secondi, è più facilmente configurabile data la natura stessa del mezzo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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