Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 14345 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 14345 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a PALERMO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 21/02/2023 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
zrelit3 il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME
NOME ha concluso chiedendo
udito NOME
ifensore
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello Caltanissetta riformava in senso favorevole all’imputata, limitatamente al trattamento sanzioNOMErio, la sentenza con cui il tribunale di Caltanissetta, in data 26.4.2002, aveva condanNOME COGNOME NOME alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni derivanti da reato, in relazione al reato di cui all’art. 595, co. 3, c.p., commesso in danno della parte civile costituita COGNOME NOME, che, secondo l’assunto accusatorio, era stato indicato come inquilino moroso, disonesto, ex spacciatore di coca e autore di minacce di morte nei suoi confronti dall’imputata, attraverso “post” inseriti nella propria bacheca attivata presso il social network noto come “Facebook”.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, lamentando: 1) violazione di legge e vizio di motivazione, in punto di ritenuta paternità dei “post” dal contenuto offensivo in capo all’imputata e sulla mancanza di prova della diffusività della notizia a mezzo “Facebook”; 2) violazione di legge in punto di mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, con giudizio di prevalenza, piuttosto che, come avvenuto, di equivalenza rispetto alla contestata circostanza aggravante di cui all’art. 595, co. 3, c.p.
Con requisitoria scritta del 9.10.2023, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, AVV_NOTAIO, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.
Con conclusioni scritte del 27.10.2023, pervenute a mezzo di posta elettronica certificata, il difensore di fiducia dell’imputata, AVV_NOTAIO, NOME insiste per l’accoglimento del NOME ricorso, NOME riportandosi integralmente agli articolati motivi di ricorso.
Il ricorso va dichiarato inammissibile, sotto diversi profili.
4.1. Manifestamente infondato, generico e di natura meramente fattuale, appare il primo motivo di ricorso, con il quale, in realtà, vengono prospettate due distinte questioni.
4.2. Con riferimento alla contestata paternità dei messaggi dal contenuto offensivo, si osserva che in questa sede di legittimità è precluso il percorso argomentativo seguito dalla ricorrente, che si risolve in una mera e del tutto generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289; Cass., Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Cass., Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Cass., Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758), con la cui motivazione l’imputata non si confronta realmente.
E invero, indiscutibile è il dato oggettivo che su di un profilo “Facebook” riconducibile alla COGNOME, erano apparsi, come constatato personalmente dalla parte civile, nonché dai testi COGNOME NOME e COGNOME NOME, tre fotografie del COGNOME, accompagnate dalle frasi dal contenuto diffamatorio riportate nel capo d’imputazione, aventi come destinatario proprio il COGNOME.
Sulla natura diffamatoria delle espressioni in precedenza indicata non vi sono dubbi, incidendo esse negativamente sull’opinione di cui ciascun individuo gode in seno alla società, dunque sull’onorabilità del COGNOME, nel suo riflesso in termini di considerazione sociale, che costituisce il bene giuridico protetto dalla norma penale.
La ricorrente contesta la riconducibilità di tali espressioni all’imputata, opponendo l’insussistenza di un rapporto contrattuale tra lei e il COGNOME, il quale, in realtà, si era limitato a fare semplicemente da intermediario tra la COGNOME e la COGNOME COGNOME, che aveva preso in affitto l’appartamento di proprietà della stessa COGNOME.
Ad avviso della ricorrente tutte le frasi in contestazione sono del tutto sganciate dal rapporto esistente tra le parti, se è vero, come dichiarato dalla persona offesa, che il COGNOME, dopo avere messo in correlazione la COGNOME con la COGNOME, era uscito di scena, senza tacere che, secondo quanto riferito dalla stessa COGNOME, quest’ultima e il COGNOME si
“sarebbero trovati davanti i post minacciosi”, in assenza di “problemi” riferibili al COGNOME, il quale ha, inoltre, dichiarato che la COGNOME pagava l’affitto regolarmente, mentre risulta del tutto indimostrato che sia stata la COGNOME a impadronirsi delle foto ritraenti il COGNOME.
Si tratta, come si è detto, di censure di merito e generiche, essendo stato dimostrato sulla base delle concordi dichiarazioni rese dal COGNOME, dal COGNOME e dal COGNOME, sulla cui attendibilità la ricorrente non ha articolato specifiche contestazioni, che i “post” erano apparsi sul profilo “Facebook” dell’imputata.
La corte territoriale, inoltre, a sostegno della sua decisione, con logico argomentare ha evidenziato, da un lato, come la stessa COGNOME abbia dichiarato che, dopo avere sottoscritto il contratto di locazione con la COGNOME, quest’ultima “cominciava a frapporre problemi inesistenti in un crescendo che la portava a minacciare la stessa COGNOME” ritenendo, evidentemente, che della condotta di quest’ultima dovesse “rispondere” il COGNOME, per aver fatto da intermediario tra le due donne; dall’altro, che “lo stesso COGNOME….riferiva di precedenti messaggi con frasi e minacce a lui inviati dalla COGNOME tramite messanger, nonché attraverso l’utenza telefonica del padre del COGNOME stesso” (cfr. p. 4 della sentenza impugnata).
Tali affermazioni non hanno formato oggetto di specifiche censure da parte della ricorrente, che, come si è detto, si è limitata a proporre una generica e parziale rilettura delle risultanze processuali.
4.3. In ordine alla seconda questione va ribadito il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, c.p., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indetermiNOME, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 13979 del 25.1.2021, Rv. 281023).
Tale principio va ovviamente coordiNOME con l’ulteriore assunto, secondo cui, essendo il reato di diffamazione configurabile in presenza di un’offesa alla reputazione di una persona determinata, esso può ritenersi sussistente nel caso in cui vengano pronunciate o scritte espressioni offensive riferite a soggetti individuati o individuabili (cfr. Sez. 5, n. 3809 del 28.11.2017, Rv. 272320)
Pertanto, qualora l’espressione lesiva dell’altrui reputazione sia riferibile, ancorché in assenza di indicazioni nominative, ad un novero di più persone, individuabili e individuate sulla base di indici rivelatori, ciascuna di esse può ragionevolmente sentirsi destinataria di detta espressione, con conseguente configurabilità del reato “de quo” (cfr. Sez. 5, n. 18249 del 28.3.2008, Rv. 239831).
Orbene la decisione dei giudici di merito appare assolutamente in linea con tali principi, in quanto, come si è detto, proprio in ragione del contenuto dei “post” inviati sul profilo “Facebook” della COGNOME, corredati dalle fotografie raffiguranti l’imputato, quest’ultimo era certamente individuabile, come dimostrato dalla circostanza obiettiva, non contestata dalla ricorrente, che i testi COGNOME e COGNOME lo avevano subito riconosciuto, aprendo la pagina “Facebook”, che pertanto era accessibile a terzi, provvedendo poi a informarlo.
Manifestamente infondato e tale da sollecitare una rivalutazione sul merito del trattamento sanzioNOMErio, non consentita in questa sede di legittimità, appare il secondo motivo di ricorso.
La ricorrente, invero, non tiene nel dovuto conto che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 c.p., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (cfr. Sez. IV, 06/05/2014, n. 29951; Sez. 1, n. 17494 del 18/12/2019, Rv. 279181).
Né va taciuta l’esistenza di un costante orientamento del Supremo Collegio, secondo cui ai fini del giudizio di comparazione fra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, anche la sola enunciazione
dell’eseguita valutazione delle circostanze concorrenti soddisfa l’obbligo della NOME motivazione, NOME trattandosi NOME di NOME un NOME giudizio NOME rientrante NOME nella discrezionalità del giudice e che, come tale, non postula un’analitica esposizione dei criteri di valutazione (cfr., ex plurimis, Sez. II, 08/07/2010, n. 36265, rv. 248535; Sez. I, 09/12/2010, n. 2668, rv. 249549; Sez. 7, Ordinanza n. 11571 del 19/02/2016, Rv. 266148).
Orbene la decisione della corte territoriale si colloca a pieno titolo nel menzioNOME alveo giurisprudenziale, in quanto il giudice di appello ha fondato il rigetto della concessione delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza, “in conseguenza della concreta gravità del fatto e delle conseguenze obiettive”, dunque proprio alla luce dei parametri di cui all’art. 133, c.p., sicché, sul punto, la suddetta motivazione non può ritenersi né arbitraria, né manifestamente illogica.
6. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 3000,00 a favore della cassa delle ammende, posto che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest’ultima immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 16.11.2023.