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Diffamazione social: no al carcere senza gravità

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26136/2024, interviene su un caso di diffamazione social, confermando la responsabilità penale di un utente per post su Facebook ma annullando la condanna alla pena detentiva. La Corte stabilisce che, in linea con i principi della Corte Costituzionale, il carcere per diffamazione è applicabile solo in casi di ‘eccezionale gravità’, come discorsi d’odio, e non per critiche politiche basate su allusioni. La sentenza è stata quindi rinviata alla Corte d’Appello per la rideterminazione della pena.

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Pubblicato il 1 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Diffamazione Social: la Cassazione esclude il carcere senza ‘eccezionale gravità’

La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 26136/2024 affronta un tema di grande attualità: la diffamazione social e i limiti della sanzione penale. In un’epoca in cui i social network sono diventati piazze virtuali di dibattito, spesso acceso, la Corte traccia una linea netta sull’applicazione della pena detentiva, stabilendo che non può essere la regola, ma un’eccezione riservata a casi di particolare allarme sociale.

I fatti del caso

Un cittadino veniva condannato in primo e secondo grado per il reato di diffamazione. L’accusa era di aver pubblicato su Facebook alcuni post in cui si alludeva a presunti ‘accordi collusivi’ e a ‘ditte amiche’ tra il sindaco del suo comune e due imprenditori locali, fornitori di servizi per l’ente pubblico. La pena inflitta dalla Corte d’Appello era stata di nove mesi di reclusione, oltre al risarcimento del danno in favore delle parti civili.

I motivi del ricorso in Cassazione

L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su tre principali argomentazioni:
1. Incertezza sull’autore del post: La difesa sosteneva che un profilo Facebook, pur recando nome e foto dell’imputato, avrebbe potuto essere utilizzato da terzi, inclusi i familiari, e che quindi non vi era prova certa della sua paternità dei post incriminati.
2. Mancanza del carattere diffamatorio: Si contestava che le affermazioni avessero una reale portata diffamatoria.
3. Inadeguatezza della pena: Il ricorrente lamentava l’applicazione della pena detentiva, ritenendola sproporzionata e contraria ai recenti orientamenti della Corte Costituzionale.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha analizzato distintamente i tre motivi di ricorso, giungendo a conclusioni diverse per ciascuno di essi.

Sull’identificazione dell’autore dei post

La Corte ha respinto la prima doglianza, ritenendo corretta e logica la valutazione dei giudici di merito. La responsabilità dell’imputato è stata confermata sulla base di una serie di indizi convergenti: il profilo social riportava il suo nome e la sua fotografia; il contenuto dei post coincideva con quello di un esposto cartaceo presentato dallo stesso imputato; infine, l’imputato non aveva mai sporto denuncia per furto d’identità. Secondo la Corte, l’ipotesi dell’utilizzo del profilo da parte di terzi era rimasta una mera congettura astratta, non supportata da alcun riscontro.

Sulla natura diffamatoria e il diritto di critica

Anche il secondo motivo è stato giudicato infondato. La Corte ha ribadito che anche espressioni allusive e suggestive possono ledere la reputazione altrui, ingenerando nel lettore il convincimento, seppur non esplicito, di fatti illeciti. Nel caso specifico, le allusioni a ‘ditte amiche’ e ‘accordi collusivi’ sono state ritenute idonee a danneggiare l’onorabilità degli imprenditori e dell’amministratore pubblico. La Corte ha inoltre precisato che il diritto di critica politica, per essere legittimo, deve poggiare su un nucleo di verità, che in questo caso mancava completamente.

La questione cruciale: pena detentiva e diffamazione social

Il punto centrale della sentenza riguarda il trattamento sanzionatorio. Su questo aspetto, la Cassazione ha accolto il ricorso. I giudici hanno richiamato la fondamentale sentenza della Corte Costituzionale n. 150 del 2021, che ha dichiarato illegittima l’applicazione automatica della pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa (principio esteso a ogni altro mezzo di pubblicità, inclusa la rete internet).

La pena del carcere, anche se sospesa, è oggi compatibile con la libertà di espressione solo in presenza di una condotta di ‘eccezionale gravità’. Questa gravità, secondo la giurisprudenza, si configura in casi specifici come la diffusione di messaggi di odio, l’incitazione alla violenza o campagne di disinformazione dolose e gravemente lesive. Nel caso in esame, la Corte d’Appello non aveva fornito alcuna motivazione sul perché avesse scelto la pena detentiva invece di quella pecuniaria, né aveva verificato la sussistenza di tale ‘eccezionale gravità’.

Le conclusioni

La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena, rinviando il caso a un’altra sezione della Corte d’Appello di Napoli per una nuova valutazione. Questa dovrà attenersi al principio secondo cui la reclusione per diffamazione social è una misura estrema, da riservare solo ai casi più gravi che minacciano diritti fondamentali.

La sentenza consolida un importante principio di bilanciamento tra la tutela della reputazione e la libertà di manifestazione del pensiero, specialmente nell’arena digitale, evitando che il timore del carcere possa avere un effetto dissuasivo sproporzionato sull’esercizio del diritto di critica.

È sufficiente il nome e la foto su un profilo social per attribuire la responsabilità di un post diffamatorio?
Sì, secondo la Corte può essere un elemento di prova determinante, specialmente se corroborato da altri indizi convergenti come la coincidenza del contenuto con altri atti dell’imputato e l’assenza di una denuncia per furto d’identità.

La pena del carcere è sempre applicabile per il reato di diffamazione sui social network?
No. A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 150/2021, la pena detentiva per la diffamazione è legittima solo in casi di ‘eccezionale gravità’, come la diffusione di discorsi d’odio o l’incitazione alla violenza, e non per la normale critica, anche se aspra.

Il diritto di critica politica giustifica affermazioni allusive e non supportate da fatti?
No. La Corte ha chiarito che l’esercizio del diritto di critica, anche in ambito politico, deve fondarsi su un nucleo di verità. Non può tradursi in attacchi personali basati su allusioni, insinuazioni o fatti manipolati che ledono la reputazione altrui.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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