Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 1788 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 1788 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 05/10/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a BOLOGNA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 31/10/2022 della CORTE APPELLO di BOLOGNA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO NOME COGNOME, il quale ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza.
Ritenuto in fatto
Con sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Bologna ha confermato la condanna inflitta in primo grado nei confronti di NOME COGNOME alla pena di euro 1.200 di multa e al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili, liquidati in euro 4.000 per ciascuna di esse, per il reato di cui all’art. 595, terzo comma, cod. pen. Secondo la rubrica, l’imputato offendeva la reputazione di NOME COGNOME (RAGIONE_SOCIALEa RAGIONE_SOCIALE), NOME COGNOME (presidente della sezione RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE) NOME COGNOME (segretaria del RAGIONE_SOCIALE), NOME COGNOME (presidente RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE) NOME COGNOME (membro della RAGIONE_SOCIALE) NOME COGNOME (vicesindaco del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE) e NOME COGNOME (presidente di un’associazione RAGIONE_SOCIALE) pubblicando un post, sul suo profilo Facebook, a margine dell’immagine di uno dei presunti colpevoli dell’attentato di Barcellona del 2017, contenente la seguente espressione : “Dove sono le NOME, le NOME le NOME, le NOME, i NOMENOME le NOME, i NOME, gli NOME, i NOME, gli NOMENOME i NOMENOME i NOME e NOME quella gentaglia che appoggia e sostiene questi continui arrivi incontrollati?! Questi complici che ho citato, adesso cosa faranno? Metteranno una bandiera spagnola sulla loro immagine del profilo e torneranno a osannare la benevolenza umana nel portare qui l’Africa intera? Vergogna, è colpa vostra, fate schifo”,
Avverso la sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, affidando le proprie censure ai cinque motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, si duole di vizio di motivazione per avere la Corte territoriale affermato la riconducibilità del profilo Facebook all’imputato, omettendo qualsiasi verifica tecnica sull’indirizzo IP e riconducendo la paternità del post in questione all’odierno ricorrente sulla base del mero dato della carica di consigliere comunale ricoperta dal COGNOME nel comune di RAGIONE_SOCIALE. Si contesta inoltre il riferimento operato dalla Corte d’appello alle cariche pubbliche ricoperte dalle persone offese, posto che, all’epoca dei fatti, soltanto la persona offesa NOME COGNOME ricopriva un ruolo pubblico in quanto consigliere comunale.
2.2 Col secondo motivo, si duole di vizio di motivazione in relazione all’individuazione dei soggetti passivi dell’offesa. La Corte territoriale avrebbe infatti affermato la riconoscibilità delle persone offese quale desl:inatarie del post diffamatorio sulla base dei soli nomi propri di queste ultime. Con motivazione illogica, la Corte d’appello avrebbe presunto, da un lato, che in un RAGIONE_SOCIALE di modeste dimensioni, le persone possano individuarsi col solo nome proprio e,
dall’altro, che la manifestazione, da parte delle persone offese, di un pensiero inclusivo e tollerante sul tema dell’immigrazione bastasse di per sé a individuare le stesse quali destinatarie delle offese. La difesa contesta inoltre l’utilizzo della generica espressione “carica pubblica”, da parte dei Giudici dell’appello, riferita tanto alla carica di consigliere comunale quanto ad attività di RAGIONE_SOCIALEato.
2.3 Col terzo motivo, si lamenta vizio di motivazione in relazione all’elemento oggettivo del reato, per non avere la Corte d’appello fornito risposta al motivo d’appello che insisteva sulla struttura sintattica del post incriminato e per avere illogicamente isolato singole espressioni, in luogo di considerarle riferite al contesto AVV_NOTAIO del pensiero espresso.
2.4 Col quarto motivo, si deduce violazione di legge, in relazione all’art. 595 cod. pen., per avere la Corte territoriale erroneamente interpretato il c:oncetto di onore, basandosi unicamente sulla percezione soggettiva delle persone offese della pretesa lesione dell’onore. L’interpretazione esatta della norma incriminatrice richiede invece -ricorda la difesa- che il giudice valuti se l’asserita offesa abbia apportato un vulnus all’onore, inteso come senso della dignità personale nell’opinione altrui. Nella condotta ascritta, difetterebbe altresì il requisito della comunicazione con più persone, posto che l’estrema genericità dei riferimenti contenuti nel post incriminato avrebbe reso impossibile la perc:ezione, da parte della generalità dei consociati, delle offese espresse.
2.5 Col quinto motivo, si lamenta vizio di motivazione con riferimento all’invocata esimente del diritto di critica politica. Pur avendo i Giudici del merito ammesso che l’imputato non ha alluso in nessun modo a qualche forma di concorso morale delle persone offese nei reati consumatisi nell’attentato di Barcellona, essi hanno, di poi, contraddittoriamente affermato la responsabilità penale dell’imputato e il superamento del limite della continenza, per avere quest’ultimo espresso una mera opinione politica circa il tema dell’immigrazione e della sicurezza nazionale.
Sono state trasmesse, ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. 28/10/2020, n. 137, conv. con I. 18/12/2020, n. 176, le conclusioni scritte del AVV_NOTAIO, AVV_NOTAIO, il quale ha chiesto l’accoglimento del ricorso e l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza. La difesa delle parti civili ha depositato memoria conclusiva e note spese. La difesa dell’imputato ha depositato conclusioni scritte nell’interesse del ricorrente.
Considerato in diiritto
Il primo motivo è manifestamente infondato, ponendosi la censura in palese contrasto con quanto già chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte a proposito
del carattere non necessario dell’accertamento tecnico relativo alla titolarità dell’indirizzo IP, da cui risultano spediti i messaggi offensivi. Infatti, «ai fini dell’affermazione della responsabilità per il delitto di diffamazione, l’accertamento tecnico in ordine alla titolarità dell’indirizzo IP da cui risultano spediti i messaggi offensivi non è necessario, a condizione che il profilo “facebook” sia attribuibile all’imputato sulla base di elementi logici, desumibili dalla convergenza di plurimi e precisi dati indiziari quali il movente, l’argomento del “forum” sul quale i messaggi sono pubblicati, il rapporto tra le parti, la provenienza del “post” dalla bacheca virtuale dell’imputato con utilizzo del suo “nickname”» (Sez. 5, n. 38755 del 14/07/2023, L., Rv. 285077 – 01).
A tal proposito, la Corte territoriale ha adeguatamente chiarito le ragioni per cui ha ritenuto che le espressioni ritenute diffamatorie provenissero dal profilo “Facebook” dell’imputato, attesa, tra l’altro, l’assenza di pregresse denunce, da parte di quest’ultimo, di indebito utilizzo del proprio profilo da parte di sconosciuti, operando, con ciò, buon governo dei principi elaborati da questa Corte («in tema di diffamazione a mezzo “internet”, anche in mancanza di accertamenti informatici sulla provenienza dei “post”, è possibile riferire il fatto diffamatorio al suo autore su base indiziaria, a fronte della convergenza, pluralità e precisione di dati quali», tra gli altri, l’assenza di denuncia di “furto di identità” da parte dell’intestatari del “profilo” sul quale vi è stata la pubblicazione dei “post” incriminati»: Sez. 5, n. 25037 del 17/03/2023, Melis, Rv. 284879 – 01, ex multis).
Inoltre, al contrario di quanto sostenuto dal ricorrente a proposito dell’asserita illogicità dei riferimenti della Corte territoriale alla carica di consigliere comunale ricoperta dal COGNOME nel RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, oltre che a proposito dell’imprecisione dell’espressione “carica pubblica”, il Collegio rirnarca la perfetta congruità a logica della contestualizzazione del fatto, operata dalla Corte territoriale. Quest’ultima si è infatti riferita al dibattito pubblico che aveva visto la contrapposizione tra l’imputato, da un lato (esponente politico presso il Consiglio comunale), e le parti civili, dall’altro, a loro volta impegnate su vari fronti lato sensu politici (e cioè fronti tutti dotati di pubblico rilievo, più o meno intenso: il fronte istituzionale, per quel che ha riguardo alla carica di consigliere comunale, quello del RAGIONE_SOCIALEato e del terzo settore, come nel caso dell’RAGIONE_SOCIALE, etc.)- su temi (quali l’immigrazione, l’accoglienza degli immigrati) oggetto di differenti vedute tra l’uno e gli altri.
Sul punto, non è la motivazione a soffrire di vizi logici, essendo piuttosto il motivo a mostrarsi generico: in disparte quanto fin qui rilevato, si osserva che la difesa neppure ha tentato di indicare quale senso avesse, o a chi mai fosse riferito, quell’elenco di nomi propri contenuto nel post pubblicato sul profilo Facebook.
Il secondo motivo è, del pari, manifestamente infondato, non ravvisando il Collegio la dedotta illogicità della motivazione in relazione al profilo dell’asserita mancata riconoscibilità dei soggetti offesi dalla diffamazione, data l’indicazione dei soli nomi propri di queste ultime.
Innanzitutto, vanno a tal proposito ricordati i principi elaborati cla questa Corte in tema di diffamazione, secondo cui «non osta all’integrazione del reato di diffamazione l’assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, se lo stesso sia ugualmente individuabile sia pure da parte di un numero limitato di persone» (Sez. 5, n. 7410 del 20/12/2010, dep. 2011, A., Rv. 249601 – 01; Sez. 5, n. 2784 del 21/10/2014, dep. 2015, Zullo, Rv. 262681 – 01; Sez. 6, n. 2598 del 06/12/2021, dep. 2022, F., Rv. 282679 – 01).
In disparte la decisività di tale superiore argomentazione -cui si aggiunge il fatto che, nel caso di specie, ricorreva comunque l’indicazione del nome proprio delle persone offese- la Corte territoriale ha ritenuto che, dal post in questione, le persone offese fossero riconoscibili non già, come affermato dal ricorrente, perché in un piccolo comune tutti conoscono tutti, bensì sulla base di una militanza RAGIONE_SOCIALE e politica degli uni (le persone offese) e dell’altro (l’imputato), in un contesto geograficamente non esteso. In particolare, le due affermazioni della Corte d’appello -relative, l’una, alle modeste dimensioni di RAGIONE_SOCIALE, comune con circa 6.800 abitanti, che facilita la diffusa conoscenza reciproca degli abitanti e, l’altra, al fatto che persone offese avessero manifestato pubblicamente il proprio pensiero politico in materia di immigrazione- vanno intese congiuntamente e apprestano un sostrato logico alla motivazione in punto di riconoscibilità delle persone offese che, a parere di questo Collegio, è incensurabile. Infatti, la Corte territoriale, nel ritenere le persone offese riconoscibili quali destinatarie dell’offesa, ha fatto ricorso a un criterio oggettivo (l’avere, cioè, le persone offese espresso pubblicamente il proprio pensiero in materia di immigrazione e politiche inclusive e, ciò, in un contesto RAGIONE_SOCIALE e politico di piccole dimensioni), così rispettando i canoni interpretativi dettati da questa Corte in tema di diffamazione aggravata ai sensi del terzo comma dell’art. 595, cod. pen. (Sez. 5, n. 11747 del 05/12/2008, dep. 2009, Ferrara, Rv. 243329 – 01: «in tema di diffamazione a mezzo stampa, l’individuazione del destinatario dell’offesa deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione dell’offesa, sicché è necessario fare ricorso ad un criterio oggettivo, non essendo consentito il ricorso ad intuizioni o soggettive congetture di soggetti che ritengano di potere essere destinatari dell’offesa»). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Quanto al terzo motivo, esso è inammissibile, avendo a oggetto critiche generiche e palesemente infondate, imperniate su un’inconferente analisi
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sintattica del post incriminato, rispetto alle quali si può ben comprendere il silenzio della Corte d’appello.
Gioverà ricordare, a tal riguardo, che, in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, il necessario onere di confronto con la motivazione della sentenza impugnata impone al ricorrente, a pena di inammissibilità, di non limitare il proprio esame alla sola parte del provvedimento specificamente riferita alla questione posta, ma di considerare anche le argomentazioni contenute in altre parti comunque rilevanti rispetto al giudizio devoluto sul tema (Sez. 3, n. 3953 del 26/10/2021, dep. 2022, NOME COGNOME, Rv. :282949 – 01). Inoltre, in tema di valutazione delle censure proposte in presenza di una cd. “doppia conforme”, va aggiunto che «ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione» (cfr. Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013 Rv. 254988 Reggio.; Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017 Rv. 271227, COGNOME. e altri).
Ebbene, nel caso di specie, gli elementi di valutazione indicati dal ricorrente (congiunzione “e”, apposizione di cd. hashtag) sono palesemente sprovvisti di un qualunque carattere di decisività: per inciso, la congiunzione “e”, posta dopo l’elenco di nomi propri (le NOME, le NOME e NOME la gentaglia…”) è, appunto, elemento congiuntivo, che, lungi dal disgiungere o porre in opposizione o in alternativa, accomuna evidentemente i due gruppi di soggetti elencati nel post.
Il quarto motivo è manifestamente infondato, avendo i Giudici dell’appello reso una motivazione conforme ai criteri interpretativi enucleati dalla giurisprudenza di legittimità, illustrando, in particolare, come il giudizio di responsabilità per il reato di diffamazione sia stato basato non già, come preteso dal ricorrente, sulla mera percezione soggettiva delle persone offese, bensì su un criterio oggettivo, che si è sostanziato nella precipua ricostruzione, da parte della Corte, del contesto RAGIONE_SOCIALE e politico (di cui si è già detto sub par. 2 di questo “considerato in diritto”), nel quale era maturato un contrasto di vedute, tra le parti in causa, sui temi ricordati. Su tale base, la Corte ha correttamente ravvisato, nelle espressioni incriminate (le varie “NOME, NOME, NOME e NOME quella gentaglia che sostiene questi arrivi incontrollati… questi complici che ho citato…vergogna…fate schifo”) la lesione
della reputazione individuale di ciascuna delle persone offese, senza confonderla, NOMEvia, con la mera considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio, posto che il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 595 cod. pen. è eminentemente relazionale, tutelando il senso della dignità personale in relazione al gruppo RAGIONE_SOCIALE (come ribadito dalla Corte cost., con sentenza n. 150 del 2021).
Ed è proprio la proiezione -tipicamente- esterna della dignità personale in relazione al gruppo RAGIONE_SOCIALE a venire in rilievo nel caso di specie, posto che le espressioni adoperate dell’imputato sottendono una deminutio del senso della dignità personale nell’opinione altrui. Alcun fondamento, infine, riveste l’affermazione secondo cui sarebbe necessario, ai fini della ricorrenza del requisito della comunicazione con più persone, che l’offesa sia percepita dalla “generalità dei consociati”. È sufficiente ricordare, a tal proposito, che la propalazione dell’offesa è avvenuta tramite soda! media (via pubblicazione di un post su una bacheca “facebook”), ciò che integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone (cfr., ex multis, Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015, Rv. 264007 – 01).
5. Il quinto motivo è manifestamente infondato, attesa la palese contrarietà delle tesi difensive agli orientamenti elaborati da questa Corte a proposito delle condizioni in cui il reato in parola può dirsi scriminato dall’esercizio del diritto di critica politica (si veda, ad. es., Sez. 5, n. 4853 del 18/11/2016, ,dep. 2017, Fava, Rv. 269093 – 01, per il rilievo attribuito al complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e alla necessità di verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano, invece, comunque pertinenti al tema in discussione).
In primo luogo, non può condividersi quanto affermato dalla difesa a proposito del diritto di critica politica che l’imputato avrebbe esercitato “mediante un linguaggio allusivo iperbolico”, atteso che nell’espressione “fate schifo” non v’è nulla che somigli a un’allusiva iperbole.
Piuttosto, come osservato dai Giudici del merito con motivazione logica, quelle parole si caratterizzano per un contenuto gratuitamente denigratorio, sproporzionato rispetto al fatto narrato e al concetto da esprimere, del tutto privo di pertinenza con il dibattito politico sui temi in questione (immigrazione) e a tal punto simile a un attacco personale da deprivare quelle espressioni di qualsivoglia connotazione di dialettica politica. Di talché la deriva personalistica della critica espressa è stata ragionevolmente ritenuta tale da eclissare il requisito della
continenza formale, che, in tema di diritto di critica politic:a, può ritenersi sussistente soltanto a condizione che i toni, per quanto aspri e di disapprovazione, non trasmodino in attacco personale portato direttamente alla sfera privata dell’offeso e non sconfinino nella contumelia e nella lesione della reputazione dell’avversario (così, Sez. 5, n. 4031 del 30/10/2013, dep. 2014, COGNOME Marzo, Rv. 258674 – 01 , in cui si rinvia a Sez. 5, n. 4991 del 19/12/2006 – clep. 07/02/2007, COGNOME, Rv. 236321; Sez. 5, n. 31.096 del 04/03/2009, Spartà, Rv. 244811; Sez. 5, n. 37220 del 23/06/2010, COGNOME, Rv. 248645).
6. Il Collegio dichiara, pertanto, inammissibile il ricorso. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. (come modificato ex I. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere la parte in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n.186), L’imputato va, inoltre, alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte RAGIONE_SOCIALE, che liquida in complessivi euro 3.591, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte RAGIONE_SOCIALE, che liquida in complessivi euro 3.591, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 5/10/2023
Il Consigliere estensore
Il Presidente