Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 10149 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 10149 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a CASTROVILLARI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 12/05/2023 della CORTE APPELLO di CATANZARO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; sentita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
NOME COGNOME, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;
lette le conclusioni del difensore che si è riportato al ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 12 maggio 2023 la Corte di appello di Catanzaro ha confermato, anche a fini civili, la sentenza resa dal Tribunale di Castrovillari nei confronti di NOME COGNOME, per il delitto di diffamazione commesso nei confronti di NOME COGNOME mediante la diffusione di commenti su Facebook.
Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore, articolando i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge, ed in particolare erronea applicazione dell’art. 192, comma 1, cod, proc. pen., nonché vizio di motivazione.
La Corte territoriale non avrebbe valorizzato la prova decisiva rappresentata dalla teste NOME, madre del ricorrente, che si era assunta a responsabilità del post diffamatorio; l’interpretazione della testimonianza da parte della Corte di appello sarebbe arbitraria.
Nello stesso motivo il ricorrente denuncia l’erroneità dell’interpretazione della frase diffamatoria attribuita all’imputato, che avrebbe un contenuto non insinuante, teso a rappresentare semplicemente la denunciata condotta della persona offesa.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge, segnatamente dell’art. 131-bis cod. pen., e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza dei presupposti di applicazione della causa di non punibilità.
La Corte territoriale non avrebbe considerato la condotta susseguente al reato, come è oggi richiesto dal nuovo testo della norma; né avrebbe correttamente valutato le modalità del fatto e l’esiguità del danno o del pericolo.
Il Procuratore generale ha concluso per iscritto chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.
Il Difensore ha depositato conclusioni scritte, insistendo per l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Premesso, con riguardo al primo motivo, che è inammissibile il motivo con cui si deduca la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. per censurare
l’omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili (cfr. Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027), va osservato che pure il vizio di motivazione è inammissibilmente dedotto.
Il motivo sul punto è affetto da genericità c.d. estrinseca (cfr. Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822, in motivazione), in quanto omette di confrontarsi con la motivazione resa dal giudice di appello sui punti denunciati.
Così, laddove il ricorrente deduce l’arbitrarietà della valutazione della testimonianza NOME ad opera della Corte di appello, per un verso sollecita la Corte di cassazione ad una non consentita rivalutazione della prova e soprattutto, per altro verso, non evidenzia manifeste illogicità della motivazione resa dalla sentenza impugnata sullo specifico punto, limitandosi a censurare con una clausola di stile la motivazione medesima.
La Corte di appello ha invero reso ragione, con una giustificazione non palesemente illogica, del giudizio di inattendibilità della deposizione: da un lato evidenziando l’inverosimiglianza della “confessione” della madre dell’imputato, che in maniera del tutto illogica si sarebbe sostituita al figlio nella redazione, a sua insaputa, di un post diffamatorio che lo avrebbe messo “nei guai” (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata); dall’altro lato confrontando detta testimonianza con quella della teste COGNOME, il cui racconto dell’interlocuzione avuta sul punto con l’imputato medesimo smentirebbe il racconto della NOME (ibidem).
Con le osservazioni della Corte di appello manca, come si è detto, qualsiasi confronto critico.
Simili conclusioni valgono per la seconda parte del motivo, con cui si attacca un diverso punto della decisione (essendo, quello relativo alla sussistenza del reato, un punto diverso da quello inerente l’attribuibilità dello stesso all’imputato: cfr. Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280261; Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 268965; Sez. U, n. 10251 del 17/10/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 235700; Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, COGNOME, Rv. 216239), vale a dire la portata diffamatoria del post. La critica, anche su tale punto, è del tutto generica: il ricorrente non si confronta affatto con la motivazione resa dalla Corte di appello, che ha evidenziato la valenza offensiva del messaggio, con il quale la persona offesa è stata accusata «di fregiarsi della economicità del suo ristorante, a spese dei dipendenti, non pagandoli e assumendoli “al nero”; di avere licenziato il COGNOME, in risposta alle sue legittime pretese; di averlo, addirittura, sia insultato che picchiato selvaggiamente e, infine, di averlo calunniato» (pag. 6 della sentenza impugnata), senza che l’istruttoria abbia dimostrato la veridicità di quanto affermato dall’imputato.
Inammissibile è pure il secondo motivo.
La motivazione resa dalla Corte territoriale a sostegno del diniego della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. non è stata certo fondata sulla pretesa inammissibilità dell’istanza in ragione della pena irrogabile, bensì su un compiuto giudizio di non particolare tenuità della condotta, argomentato con riferimento alla gravità della diffamazione, alle modalità del fatto ed al danno provocato alla persona offesa, titolare di un’attività commerciale nota, costretta a giustificarsi con i responsabili della “RAGIONE_SOCIALE” proprio in ragione dell’espressa menzione del nome del ristorante della vittima nel post diffamatorio (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).
La motivazione resa dalla Corte di appello è pienamente conforme all’esigenza di tener «conto ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo» (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590); fermo restando che non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. 7, n. 10481 del 19/01/2022, Deplano, Rv. 283044; Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Milone, Rv. 274647).
A fronte della motivazione resa dalla Corte territoriale, il riferimento che il motivo di ricorso opera alla condotta successiva al reato è per un verso generico (non essendo nemmeno descritto in cosa tale condotta sia consistita) e per altro verso inconferente, in quanto non in grado di incidere sulla tenuta logica della sentenza impugnata, sul punto specifico.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento, in favore della RAGIONE_SOCIALE delle ammende, di una somma che appare equo determinare in euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della RAGIONE_SOCIALE delle Ammende.
Così deciso il 07/02/2024