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Diffamazione online: prova e identificazione vittima

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del PM contro un’assoluzione per diffamazione online. Un uomo aveva pubblicato su un social network foto di rifiuti abbandonati, tra cui una ricevuta con un codice fiscale parzialmente leggibile. La Corte ha confermato che, senza una chiara e inequivocabile identificazione della persona offesa, non si può configurare il reato, poiché manca la prova della lesione alla reputazione.

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Pubblicato il 26 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

La diffamazione online e l’onere della prova: il caso del codice fiscale

La diffamazione online è un tema sempre più attuale nell’era digitale, ma quando un post di denuncia sui social network supera il limite e diventa reato? Una recente sentenza della Corte di Cassazione chiarisce un punto fondamentale: per configurare la diffamazione, non basta un semplice indizio, ma è necessaria la prova che la persona offesa sia stata effettivamente e inequivocabilmente identificata da terzi. Analizziamo insieme questo interessante caso.

Il caso: un post sui rifiuti abbandonati e l’accusa di diffamazione

Un cittadino, stanco di trovare rifiuti abbandonati sul proprio terreno, decide di denunciare l’accaduto su un noto social network. Pubblica le foto dei sacchi di spazzatura, tra i quali si intravede una ricevuta di pagamento di una carta prepagata. Su questa ricevuta è presente il codice fiscale del presunto responsabile. Nel post, l’uomo esprime soddisfazione per aver “beccato” l’autore dell’abbandono.

La persona il cui codice fiscale era sulla ricevuta, sentendosi diffamata, sporge querela. In primo grado, tuttavia, il proprietario del terreno viene assolto. Il Tribunale rileva che l’imputato non aveva mai fatto il nome della presunta vittima, né nei post né alla polizia, dove anzi aveva indicato un’altra persona come possibile responsabile. Inoltre, il codice fiscale sulla ricevuta non era pienamente leggibile e solo due parenti della persona offesa erano riusciti a risalire a lui. Mancava, quindi, la prova che la sua reputazione fosse stata concretamente lesa agli occhi di un pubblico più vasto.

La decisione del Tribunale e il ricorso del Pubblico Ministero

Il Pubblico Ministero, non convinto dalla decisione di primo grado, presenta ricorso, sostenendo che la persona offesa fosse facilmente identificabile grazie al codice fiscale e che i numerosi commenti offensivi sotto al post dimostrassero l’intenzione diffamatoria dell’imputato. La Corte d’Appello, rilevando l’inappellabilità della sentenza secondo le nuove norme della Riforma Cartabia (per reati punibili con la sola pena pecuniaria), trasmette gli atti alla Corte di Cassazione.

L’analisi della Corte di Cassazione sulla diffamazione online

La Suprema Corte ha esaminato il caso e ha dichiarato il ricorso del Pubblico Ministero inammissibile, confermando di fatto l’assoluzione. Gli Ermellini hanno sottolineato che il fulcro del reato di diffamazione è la percezione dell’offesa da parte di terzi. Se la vittima non è chiaramente identificabile, l’evento dannoso per la reputazione non si concretizza.

Le motivazioni della Suprema Corte

La Corte ha basato la sua decisione su un’attenta analisi dei fatti accertati in primo grado. Le ragioni dell’assoluzione sono state ritenute logiche e ben fondate. In particolare:

1. Mancanza di identificazione diretta: L’imputato si era limitato a pubblicare fotografie per protestare contro un atto di inciviltà, senza mai nominare la persona offesa.
2. Leggibilità parziale dell’indizio: Il codice fiscale, l’unico elemento che poteva ricondurre alla presunta vittima, non era perfettamente visibile nelle fotografie. Questo rendeva l’identificazione incerta e non immediata per un osservatore medio.
3. Assenza di prova della riferibilità: Il Pubblico Ministero non è riuscito a dimostrare che, a seguito del post, la comunità avesse effettivamente associato la persona offesa all’abbandono dei rifiuti. La semplice possibilità che qualcuno potesse risalire all’identità non è sufficiente a provare la lesione della reputazione.

In sostanza, l’imputato ha esercitato il suo diritto di protesta senza però oltrepassare la soglia della diffamazione, poiché la sua condotta non ha permesso di individuare con certezza il destinatario dell’accusa implicita.

Le conclusioni: cosa insegna questa sentenza sulla diffamazione online

Questa pronuncia offre importanti spunti di riflessione. Per aversi diffamazione online, non è sufficiente lanciare accuse generiche o fornire indizi ambigui. È indispensabile che la vittima sia riconoscibile in modo univoco da un numero apprezzabile di persone. La prova di tale riconoscibilità spetta all’accusa. La sentenza ribadisce che il diritto di critica e di denuncia, anche attraverso i social network, è legittimo, a patto che non si traduca in un’attribuzione di fatti lesivi a persone specifiche e chiaramente identificabili, in assenza di prove concrete. In questo caso, la non perfetta visibilità del codice fiscale ha reso l’accusa troppo vaga per costituire reato.

È sufficiente pubblicare un indizio come un codice fiscale per commettere diffamazione online?
No, secondo la sentenza, non è sufficiente se l’indizio non è perfettamente leggibile e non permette una sicura e immediata identificazione della persona da parte di un numero indeterminato di utenti. La mera possibilità di risalire all’identità non basta.

Perché il ricorso del Pubblico Ministero è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché le argomentazioni non sono riuscite a scalfire la logicità della motivazione della sentenza di primo grado. La Corte ha ritenuto che, data la non completa leggibilità del codice fiscale e la mancanza di prove sulla percezione dell’offesa da parte della comunità, non sussistevano gli elementi per configurare il reato di diffamazione.

Qual è l’elemento fondamentale per configurare il reato di diffamazione?
L’elemento fondamentale, come ribadito dalla Corte, è la percezione o la percepibilità dell’offesa alla reputazione da parte di almeno due persone. Questo richiede che il soggetto passivo del reato sia individuato o facilmente individuabile dalla collettività, cosa che nel caso di specie non è stata provata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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