Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 12284 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 12284 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME nato a Montefiascone (VT) il 16/03/1966; avverso la sentenza del 19/02/2024 della Corte d’appello di Perugia; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore, NOME COGNOME che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità del ricorso; lette le note di replica depositate dal difensore dell’imputato, avv. NOME
COGNOME che ha concluso per l’annullamento della sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’Appello di Perugia ha confermato la sentenza del Tribunale di Perugia, che ha dichiarato NOME Paolo colpevole del reato di diffamazione ai sensi dell’art. 595, comma 3, cod. pen., per aver pubblicato, il 13/6/2015, un articolo sul sito online “RAGIONE_SOCIALE” che ledeva la reputazione di NOME.
COGNOME PaoloCOGNOME col suo avvocato, ha presentato ricorso in Cassazione
per i seguenti motivi.
2.1. Col primo motivo lamenta vizi di motivazione sulla sua identificazione quale autore dell’articolo.
La difesa contesta l’illogicità della valutazione della testimonianza resa dal maresciallo COGNOME e l’affermazione che attribuisce il nickname “COGNOME” a NOME COGNOME. Si evidenzia l’assoluta mancanza di prove inequivocabili che l’articolo pubblicato sul blog “RAGIONE_SOCIALE” sia opera di NOME COGNOME.
Viene criticato il fatto che il giudice di primo grado non abbia argomentato sull’attribuibilità del testo al COGNOME mentre la Corte d’Appello aveva superato questa mancanza in modo sbrigativo, rendendo l’argomentazione priva di logicità. La sentenza di condanna si fonda sul postulato che, poiché in alcuni articoli pubblicati sullo stesso blog accanto allo pseudonimo “COGNOME” vi era il nome NOME COGNOME allora l’autore dell’articolo diffamatorio doveva essere ritenuto con certezza costui. Si sottolinea che in un blog chiunque può postare articoli e sottoscriverli a proprio piacimento.
2.2. Col secondo motivo lamenta vizi di motivazione sempre in relazione alla sua identificazione quale autore dell’articolo in questione.
In particolare, la difesa contesta come la Corte d’appello abbia, con motivazione assente, contraddittoria o manifestamente illogica, superato il motivo di gravame relativo all’utilizzo indebito del nickname dell’imputato e al mancato accertamento dell’indirizzo IP di provenienza del testo diffamatorio.
Si richiamano i principi della presunzione di innocenza e dell’oltre ogni ragionevole dubbio, sottolineando che spetta all’accusa provare tutti gli elementi costitutivi del reato e la loro riconducibilità all’imputato: laddove, nella specie, l difesa aveva sollevato dubbi non meramente astratti.
Dunque, si sarebbe dovuto provare quali fossero l’indirizzo IP di provenienza della frase diffamatoria e i file di log contenenti tempi e orari della connessione: in mancanza di tale accertamento, restava non superato il dubbio che terzi avessero utilizzato il nickname dell’imputato.
2.3. Col terzo motivo lamenta vizi di motivazione in relazione alla sussistenza del fatto.
In particolare, la difesa denuncia la mancanza di prova circa la sussistenza del fatto imputato e l’effettiva pubblicazione dell’articolo asseritamente diffamatorio.
La Corte d’Appello, pur dando atto che l’articolo era stato acquisito agli atti solo in copia, si sarebbe limitata ad affermare che non sembrava ragionevole dubitare che l’articolo fosse effettivamente esistito e pubblicato sul sito online in questione, senza illustrare l’iter logico seguito per pervenire a tale decisione.
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Mancherebbe, dunque, prova certa dell’esistenza del messaggio offensivo, quale articolo di stampa pubblicato su un sito online “RAGIONE_SOCIALE“. La difesa ha sostenuto che sarebbe stato, al riguardo, necessario uno screenshot con il codice sorgente o una copia autenticata per provare in modo affidabile l’esistenza e l’origine del messaggio, oltre alla verifica dell’indirizzo IP.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
La Corte d’appello ha basato la sua decisione su una serie di elementi concorrenti, tra cui la testimonianza del teste di polizia giudiziaria, COGNOME che ha affermato che l’utente “Piggi”, in altri articoli pubblicati sullo stesso blog, di solito utilizzava il nome completo dell’imputato, e che l’imputato aveva una partita IVA per “altri servizi di informazione”. La Corte d’Appello ha inoltre sottolineato che COGNOME non ha denunciato alcun abuso del suo nick-name.
Orbene, questa Corte intende dare continuità all’orientamento secondo cui la riferibilità del fatto diffamatorio all’imputato non può essere esclusa sol perché non siano stati svolti accertamenti tecnici sui dati informatici (qual è quello sulla provenienza del messaggio, mediante verifica dell’indirizzo IP), che non rivestono certo il valore di prova legale necessaria. La prova, infatti, può essere desunta anche da una pluralità di dati convergenti e precisi, quali: il movente; l’argomento trattato nelle frasi pubblicate; il rapporto tra le parti; la provenienza dei messaggi dalla bacheca virtuale dell’imputato, con utilizzo del “nickname” dello stesso; infine, l’assenza di denuncia di “furto di identità” da parte dell’intestatario del “profilo” sul quale vi è stata la pubblicazione dei “post” incriminati (in tal senso, Sez. 5, n. 25037 del 17/03/2023, Rv. 284879-01).
Nella specie, i giudici di merito basano la loro decisione sostanzialmente sull’utilizzo di un nickname, “Piggi”, altre volte associato, nello stesso blog, al nome dell’imputato (che non contesta che in simili casi gli scritti fossero a lui riferibili) e sulla mancata denuncia contro ignoti per l’utilizzo del detto pseudonimo, tanto più necessaria in caso di suo abusivo utilizzo in un contesto in cui esso era, per l’appunto, pacificamente utilizzato dall’imputato.
Trattasi di motivazione che non può assumersi essere manifestamente illogica, su cui, dunque, questa Corte non può intervenire se non operando una nuova valutazione di merito, inibita in questa sede. Invero, proprio perché lo pseudonimo “COGNOME” era stato utilizzato unitamente al nome e cognome dell’imputato in altri articoli pubblicati sul medesimo blog, di cui il ricorrente non contesta la paternità, non appare manifestamente illogico desumere la paternità
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anche dell’articolo in questione dalla mancata smentita o denuncia di quanto scritto con tale nickname, sul medesimo blog.
A fronte della deposizione, citata dalla sentenza d’appello, del teste di polizia giudiziaria, che parla dell’articolo in oggetto da lui personalmente veduto sul blog in questione, non appare neppure illogica la conclusione che ne hanno tratto i giudici di merito, circa l’esistenza dell’articolo sul menzionato blog, a prescindere dalla mancata allegazione di uno screenshot con il codice sorgente o di una copia autenticata, per provare in modo affidabile l’origine del messaggio. Nessuna censura, peraltro, viene mossa circa il possibile travisamento del dato da parte del menzionato teste, la cui deposizione è stata correttamente ritenuta sufficiente al riguardo.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., alla declaratoria di rigetto segue la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così è deciso, 25/02/2025
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