Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 37785 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 37785 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 26/09/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a MELITO DI PORTO SALVO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 17/12/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
C (3
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 17 dicembre 2024, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha riformato la decisione di primo grado, che aveva assolto, con la formula «perché il fatto non costituisce reato», NOME COGNOME dal reato di diffamazione, aggravata ai sensi del terzo comma dell’art. 595 cod. pen., condannandolo alla pena detentiva di mesi tre di reclusione, con beneficio della sospensione, e al risarcimento del danno. Secondo la rubrica, l’imputato offendeva la reputazione di NOME COGNOME, pubblicando sul proprio profilo Facebook frasi del seguente tenore: «meglio parlar di persona, anche se mi fai un po’ paura per i tuoi atteggiamenti da malandrino … per arrivare al 10% del mio QI dovresti rinascere un paio di volte».
Avverso la sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, affidando le proprie censure ai motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, si duole di violazione di legge e vizio di motivazione, per non avere la Corte d’appello considerato la memoria, presentata in data 8 novembre 2024, con cui il difensore eccepiva l’inammissibilità dell’impugnazione avanzata dalla Procura generale per il mancato rispetto dei termini processuali. L’appello del Procuratore generale veniva presentato il 4 aprile 2024, e, quindi, secondo la difesa, prima della scadenza del termine fissato, ex lege, in novanta giorni dal deposito della motivazione, che cadeva il 9 aprile 2024.
2.2. Col secondo motivo, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 595, terzo comma, cod. pen., per assenza di motivazione cd. rafforzata, data l’assenza di confutazioni delle ragioni espresse dal giudice di primo grado e per non avere la Corte distrettuale considerato il contesto in cui la frase incriminata era stata pronunciata. L’imputato aveva, infatti, successivamente chiarito la propria posizione, sempre per il tramite del social network Facebook e rimosso il post incriminato. Si censura la motivazione, inoltre, perché la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ascritto non è in alcun modo dimostrata; anche a tal proposito, la Corte d’appello avrebbe dovuto compiutamente analizzare il contesto comunicativo, in cui l’imputato esercitava il suo diritto alla critica politica, senza oltrepassare i limiti della continenza. Entrambi gli aspetti sono stati sottaciuti in motivazione. Si lamenta, infine, travisamento di prova, atteso che la motivazione è basata su «fatti non specifici, su mere valutazioni, frutto di percezioni soggettive».
Con ulteriore articolazione del medesimo motivo, si eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento dell’esimente della
provocazione, avendo l’imputato espresso la frase incriminata in reazione alla critica politica espressa dalla parte civile in direzione della moglie del ricorrente.
2.3 Col terzo motivo, si lamenta la mancata riqualificazione del reato in quello di ingiuria. Benché quest’ultima fattispecie sia stata «depenalizzata», la condotta ascritta doveva riqualificarsi in tal senso, attesa la mancata ricorrenza del presupposto dell’assenza della persona offesa (che era presente, sia pure virtualmente, e partecipava alla discussione on line).
È pervenuta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME, il quale ha chiesto dichiararsi il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è infondato, per le ragioni di seguito illustrate.
La sentenza di primo grado è stata resa il 10 gennaio 2024; il Tribunale indicava, ai sensi dell’art. 544, comma 3, cod. proc. pen., in 90 giorni il termine per depositare la motivazione. Ne consegue, ex art. 585, comma 1, lett. c), del codice di rito, che il termine per proporre impugnazione era quello di 45 giorni dal deposito della motivazione.
Ciò che il ricorrente non considera, tuttavia, è che tale termine decorre, ex art. 585, comma 2, lett. d), del codice di rito, «dal giorno in cui è stata eseguita la comunicazione dell’avviso di deposito con l’estratto del provvedimento per il procuratore generale presso la Corte d’appello”. Dal che deriva la necessità di considerare il momento – ed è questo il profilo che il ricorrente trascura – in cui è giunta al procuratore la comunicazione dell’avvenuto deposito della motivazione, poiché è da tale momento (e non dal novantesimo giorno per il deposito della motivazione, come sostiene la difesa) che decorrono i 45 giorni per impugnare la sentenza.
La regola appena enunciata, e la sua ratio, sono confermate dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «qualora la sentenza pronunciata in sede di appello venga comunicata alla Procura generale prima della scadenza del termine indicato dal giudice per il deposito, il termine per proporre l’impugnazione avverso la stessa decorre, per il P.G., dalla data della comunicazione e non dalla scadenza del termine di deposito» (Sez. 3, n. 7858 del 12/01/2016, P.g. in proc. c, Rv. 266275 – 01: in motivazione, la Corte ha osservato che i principi di impersonalità dell’Ufficio e di buon andamento della P.A. fanno presumere che, acquisita notizia della esistenza e del contenuto della sentenza, la Procura generale sia in grado di operare cognita causa le proprie valutazioni, con la conseguenza che da quel momento decorre il termine per l’impugnazione, non valendo le
esigenze di difesa tutelate dagli art. 585, comma 2, lett. d), e 548, comma 3, cod. proc. pen., a favore dell’imputato contumace).
Ed è per tal motivo che deve ritenersi sufficiente la motivazione della Corte distrettuale, che ha replicato – sia pure implicitamente e sinteticamente, definendo, cioè, «tempestiva» (v. p. 3 del gravato provvedimento) l’impugnazione della Procura generale – alla memoria difensiva contenente l’infondata eccezione.
Si osserva, infine, che la giurisprudenza valorizzata dal ricorrente (tra cui, Sez. 6, n. 13447 del 12/02/2014, COGNOME, Rv. 259455 – 01: il termine per proporre l’impugnazione della sentenza contumaciale decorre dalla scadenza di quello stabilito dalla legge o determinato dal giudice per il deposito della sentenza, ancorché la notifica dell’estratto contumaciale sia avvenuta prima di detta scadenza) è inconferente, perché relativa a ipotesi eccentriche rispetto al tema qui in scrutinio, che non si caratterizza per un problema di contrazione del diritto di difesa, posto che l’impugnazione è stata proposta dalla parte pubblica. Il principio di diritto posto da Sez. 6, n, COGNOME, Rv. 259455 – 01, cit., concerneva, infatti, il tema di aggiuntive garanzie per l’imputato contumace, rispetto al quale si statuì che «il termine per impugnare decorre dall’esecuzione della notificazione dell’avviso di deposito con l’estratto del provvedimento, quando tale notificazione avvenga dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 544, commi due e tre, c.p.p., e dalla loro scadenza quando la notificazione sia eseguita antecedentemente» (così, in motivazione, Sez. 6, COGNOME, Rv. 259455 – 01, cit.).
2. il secondo motivo è fondato e assorbe il terzo.
2.1 Va rilevata, in primo luogo, l’illegalità della pena detentiva a mesi tre di reclusione, atteso che la condotta diffamatoria attribuita al ricorrente non può certo dirsi connotata da quella «eccezionale gravità che, secondo un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, si individua nella diffusione di messaggi diffamatori connotati da discorsi d’odio e di incitazione alla violenza ovvero in campagne di disinformazione gravemente lesive della reputazione della vittima, compiute nella consapevolezza della oggettiva e dimostrabile falsità dei fatti ad essa addebitati» (Sez. 5, n. 28340 del 25/06/2021, Boccia, Rv. 281602 – 01).
Come già da tempo statuito da questa Corte, infatti, «l’applicazione della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, a seguito della sentenza n. 150 del 2021 della Corte costituzionale, è subordinata alla verifica della “eccezionale gravità” della condotta», da individuarsi nel senso sopra indicato (Sez. 5, n. 13993 del 17/02/2021, COGNOME, Rv. 281024; Sez. 5, n. 26509 del 09/07/2020, COGNOME, Rv. 279468 – 01).
Ora, al di là dei poteri valutativi della Cassazione circa l’offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione (su cui, ex plur., Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Fabi, Rv. 278145 – 01), è lo stesso giudice d’appello a indicare, in motivazione, una condotta che, certamente, non è definibile come ispirata a discorsi d’odio o di incitazione alla violenza, ovvero tradottasi in campagne di disinformazione gravemente lesive della reputazione della vittima. Nella prospettazione della Corte distrettuale, infatti, la condotta ascritta sarebbe diffamatoria, in quanto l’espressione «malandrino» farebbe riferimento a «un pericoloso delinquente, a un soggetto impertinente, scaltro, che esprime maliziosa furbizia, appartenente ad ambienti di natura eminentemente criminale». Di qui secondo i giudici d’appello, il timore ingenerato dal «malandrino» negli altri, che eviterebbero, pertanto, di contrapporvisi di persona, per tema della propria incolumità.
2.2 Ribadito che il messaggio veicolato dalle espressioni incriminate non può dirsi denotato dall’«eccezionale gravità» nel senso sopra riportato, e non giustifica, dunque, il trattamento sanzionatorio inflitto (seppure con pena sospesa), il Collegio condivide la censura difensiva relativa all’assenza di motivazione rafforzata. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che, nel riformare una sentenza, è necessario che il giudice dimostri di aver esaminato tutti gli elementi acquisiti e di avere compiuto, sulla base del devoluto, un confronto argonnentativo serrato con essa al fine di evidenziarne le criticità (cfr., Sez. U., n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679), per poi procedere a formare una nuova motivazione che non si limiti ad inserire in quella argomentativa del primo giudice mere notazioni critiche di dissenso, «in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed argomentazioni fra loro dissonanti, ma riesami il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura argomentativa che spieghi le difformi conclusioni» (Sez. U., n. 6682 del 04/02/1992, COGNOME, Rv. 191229).
Alla luce di tali chiare coordinate ermeneutiche, non può dirsi che la motivazione della gravata sentenza abbia operato buon governo dell’obbligo in parola. La Corte d’appello si è infatti limitata a confutare, in maniera asseverativa, la prospettazione del giudice di primo grado, osservando che la condotta ascritta non potesse inquadrarsi nell’ambito di una polemica d’interesse pubblico, senza tuttavia puntualizzare le ragioni di tale affermazione; in tal senso, coglie nel segno la difesa a criticare la sentenza per non aver disatteso compiutamente le valutazioni del primo giudice circa il contesto (di polemica politica relativa alle
attività istituzionali del Comune RAGIONE_SOCIALE Condofuri) in cui era maturata l’ascritta condotta diffamatoria.
In assenza di un congruo, e cioè effettivo e serrato, confronto argomentativo con le ragioni rese dal primo giudice circa «lo specifico contesto relazionale» (p. 4 sentenza di primo grado, in cui si dà conto della «ragionevole litigiosità e animosità dei suoi diversi esponenti», della contrapposizione tra imputato e persona offesa, appartenenti a fazioni politiche distinte, e dei motivi per cui si è ritenuto non ricorrente il dolo, v. p. 5 sentenza di primo grado), risulta deprivata di forza argomentativa anche la parte successiva della motivazione, in cui la Corte territoriale, escludendo la configurabilità dell’esimente del diritto di critica politica, procede all’esame delle specifiche espressioni utilizzate dall’imputato.
In altre parole, il giudizio critico di questo Collegio verte non soltanto sulla valutazione operata dalla Corte circa la portata asseritamente diffamatoria delle parole utilizzate dal ricorrente (su cui, infra), ma sull’insufficiente confutazione di quel che il giudice di primo grado ha illustrato nei termini di «contesto». Per pacifico orientamento di questa Corte, infatti, l’esame del contesto dialettico, in cui espressioni asseritamente diffamatorie hanno trovato forma, è necessario per valutare, altresì, l’eventuale superamento dei limiti della continenza (ex multis, Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C., Rv. 267866 – 01), che postula «una forma espositiva corretta della critica rivolta – e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione, che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione»; detto limite non può, tuttavia, «ritenersi superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo di cui deve tenersi conto anche alla luce del complesivo contesto in cui il termine viene utilizzato» (Rv. 267866 – 01, cit.; Sez. 5, n. 17243 del 19/02/2020, COGNOME, Rv. 279133 – 01).
Ora, anche ove si guardi alla parte motiva che la Corte distrettuale dedica all’esame delle espressioni incriminate (il termine maggiormente problematico, agli occhi della Corte territoriale, essendo quello di «malandrino»), si rinnova l’impressione di una totale omissione dell’approfondimento del tema della continenza. Invero, la Corte d’appello affida la sua valutazione, dapprima, a forme puramente avverbiali (v. p. 4 dell’impugnata sentenza, dove si osserva come l’imputato abbia «certamente» offeso la dignità della persona offesa NOME), del tutto idonee a fondare un giudizio di condanna, per poi eludere il tema della natura, obiettivamente polisemica, del termine «malandrino»: parola, quest’ultima, che è – ed è stata, nel tempo – suscettibile di più interpretazioni (secondo taluni dizionari della lingua italiana, l’accezione di brigante, malvivente
era comune in tempi più risalenti, denotando oggi l’espressione tanto il «furfante» e il «disonesto», quanto il «birichino» e il «ragazzo vivace, furbo»).
Né, a beneficio del proprio argomentare, la Corte distrettuale ha fornito ragioni (quale avrebbe potuto essere, ad esempio, il riferimento all’accezione più diffusa del termine «malandrino» nella regione in cui la condotta si è manifestata) atte a persuadere che, nell’ambiguità incontestabile dell’espressione in questione, il ricorrente intendesse privilegiare proprio l’accezione più negativa dell’espressione (ladro, brigante), anziché sfumature più scherzose.
E, se è vero che «il mero fatto dell’ambiguità dell’espressione utilizzata non legittima la generica invocazione del diritto di critica, incombendo, anzi, alla difesa l’onere di dissipare il dubbio sul dolo in relazione all’utilizzo di espressioni intrinsecamente allusive» (cfr., ad es., Sez. 5, n. 47041 del 10/07/2019, Faelutti, Rv. 277742 – 01), è vero anche che il giudice di primo grado aveva valorizzato, ai fini dell’esclusione del dolo, quanto dedotto dall’imputato circa il dialogo chiarificatore intercorso tra quest’ultimo e la sorella della persona offesa, successivamente alla condotta incriminata. Anche su tale aspetto, la motivazione della sentenza impugnata è silente.
Per le ragioni illustrate nell’esame del secondo motivo, il Collegio annulla la gravata sentenza con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Reggio Calabria.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Reggio Calabria.
Così deciso il 26/09/2025