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Diffamazione aggravata: ricorso inammissibile

Una giornalista è stata condannata per diffamazione aggravata per aver definito una persona ‘appartenente’ a un’associazione mafiosa, nonostante una precedente assoluzione. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la condanna e sottolineando la portata offensiva del termine utilizzato e la genericità dei motivi di appello.

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Pubblicato il 10 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Diffamazione Aggravata: L’Uso del Termine ‘Appartenente’ a un Clan è Reato

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso di diffamazione aggravata, chiarendo i confini del diritto di cronaca e le responsabilità penali che derivano dall’uso di un lessico impreciso e lesivo della reputazione altrui. La vicenda riguarda una giornalista condannata per aver definito una persona come ‘appartenente’ a un’associazione di tipo mafioso, nonostante questa fosse stata assolta dalla medesima accusa anni prima. La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la condanna e stabilendo principi importanti sulla portata offensiva di determinate espressioni.

I Fatti del Caso

Il procedimento nasce da un articolo in cui una giornalista attribuiva a una persona la qualifica di ‘appartenente’ a un’associazione mafiosa. La persona offesa, tuttavia, aveva ottenuto una sentenza di assoluzione definitiva per quella specifica imputazione circa cinque anni prima della pubblicazione dell’articolo. La giornalista veniva quindi condannata per il reato di diffamazione aggravata sia in primo grado che in appello. Contro la sentenza della Corte d’Appello, l’imputata proponeva ricorso per Cassazione.

I Motivi del Ricorso e la Tesi sulla Diffamazione Aggravata

La ricorrente basava la sua difesa su due argomenti principali:

1. Violazione della legge penale e vizio di motivazione: Sosteneva che le sue affermazioni fossero veritiere e che il termine ‘appartenente’, nel gergo giornalistico, non indicasse un legame organico come membro dell’associazione (societas scelerum), ma una mera connessione con attività delittuose. A suo dire, non vi era quindi l’elemento soggettivo del reato.
2. Erronea applicazione dell’art. 131-bis c.p.: Chiedeva il riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, ritenendo l’offesa di lieve entità.

La Corte di Cassazione ha rigettato entrambe le argomentazioni, dichiarando il ricorso inammissibile.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte ha ritenuto il primo motivo manifestamente infondato. I giudici hanno chiarito che l’espressione ‘appartenente a un’associazione mafiosa’ ha una ‘patente portata offensiva’ nel linguaggio comune. Tale qualifica è universalmente intesa come l’attribuzione della qualità di membro di un sodalizio criminale, e non come una generica ‘connessione’. La difesa della giornalista è stata considerata un tentativo irrituale di rivalutare i fatti, senza peraltro contestare un travisamento della prova. La Corte ha inoltre sottolineato la gravità dell’affermazione, resa ancora più lesiva dalla precedente assoluzione della persona offesa, fatto noto e riportato nella stessa sentenza impugnata.

Anche il secondo motivo è stato giudicato inammissibile per la sua totale genericità. La ricorrente si era limitata a enunciazioni assertive, senza confrontarsi minimamente con le ragioni per cui la Corte d’Appello aveva già escluso l’applicazione della causa di non punibilità. La Cassazione ha ribadito che un motivo di ricorso non può limitarsi a riproporre una richiesta, ma deve specificamente criticare e smontare il ragionamento del giudice del grado precedente.

Le Conclusioni e le Implicazioni Pratiche

La decisione della Cassazione si conclude con la dichiarazione di inammissibilità del ricorso. Questa declaratoria comporta conseguenze economiche significative per la ricorrente: la condanna al pagamento delle spese processuali, il versamento di una somma di 3.000 euro alla Cassa delle ammende (a causa della ‘colpa’ nell’aver proposto un ricorso palesemente infondato) e la rifusione delle spese legali della parte civile per oltre 3.500 euro.

Questa ordinanza offre due importanti lezioni. In primo luogo, ribadisce che la precisione terminologica nel giornalismo è fondamentale, specialmente quando si toccano temi sensibili come la criminalità organizzata. Usare espressioni ambigue ma dal chiaro significato offensivo non rientra nel diritto di cronaca, ma integra il reato di diffamazione aggravata. In secondo luogo, evidenzia l’onere di specificità che grava su chi intende impugnare una sentenza in Cassazione. I ricorsi generici, che non si confrontano analiticamente con le motivazioni della decisione appellata, sono destinati all’inammissibilità, con pesanti conseguenze economiche per il ricorrente.

Quando l’uso del termine ‘appartenente’ a un’associazione mafiosa costituisce diffamazione?
Secondo la Cassazione, costituisce diffamazione quando, nel linguaggio comune, tale espressione è atta ad attribuire al destinatario la qualità di membro del sodalizio criminale. Ciò è particolarmente grave se la persona in questione è stata precedentemente assolta da tale accusa.

Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile perché i motivi presentati erano generici e manifestamente infondati. L’imputata non ha sollevato censure di legittimità rituali, ma ha tentato di ridiscutere i fatti e ha presentato argomenti assertivi senza confrontarsi con le motivazioni della sentenza d’appello.

Quali sono le conseguenze di un ricorso inammissibile per colpa?
L’imputata è stata condannata al pagamento delle spese processuali, al versamento di una somma di 3.000 euro in favore della Cassa delle ammende e alla rifusione delle spese legali sostenute dalla parte civile nel giudizio, liquidate in complessivi 3.570 euro oltre accessori di legge.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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