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Diffamazione a mezzo stampa: verità del fatto essenziale

Una giornalista viene condannata per diffamazione a mezzo stampa per aver accusato una persona di vincere un concorso pubblico tramite favoritismi. La Corte di Cassazione conferma la condanna, affermando che il diritto di cronaca presuppone la verità oggettiva dei fatti, requisito assente nel caso di specie. La difesa della giornalista, basata sulla non partecipazione della vittima a quel concorso, ha paradossalmente confermato la falsità della notizia pubblicata.

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Pubblicato il 24 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Diffamazione a mezzo stampa: quando la notizia non è vera, il diritto di cronaca non giustifica

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, ribadisce un principio fondamentale in materia di diffamazione a mezzo stampa: l’esercizio del diritto di cronaca non può prescindere dalla verità oggettiva del fatto narrato. Questo caso offre uno spunto di riflessione cruciale sul delicato equilibrio tra libertà di informazione e tutela della reputazione individuale, specialmente nell’era digitale.

I Fatti del Caso

Una giornalista, direttrice di una testata online, pubblicava un articolo in cui si affermava che un soggetto sarebbe stato il “futuro” vincitore di un concorso pubblico per assistenti amministrativi presso un’azienda ospedaliera. L’articolo insinuava che tale vittoria non sarebbe derivata da meriti, ma da “raccomandazioni interne ed esterne” e illecite interferenze politiche. A seguito di ciò, la giornalista veniva condannata in primo e secondo grado per il reato di diffamazione, aggravata dall’uso del mezzo telematico e dalla recidiva.
La giornalista proponeva ricorso in Cassazione, sostenendo un vizio di motivazione e un travisamento della prova. La sua difesa si basava su un punto apparentemente a suo favore: la persona offesa, infatti, non aveva mai presentato domanda per quel specifico concorso. Aveva, invece, inviato una PEC a un’altra azienda sanitaria territoriale per mettere a disposizione la sua professionalità. Secondo la ricorrente, questo dimostrava la veridicità della notizia (intesa come non partecipazione al concorso), invalidando l’accusa.

La Cassazione e la diffamazione a mezzo stampa

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, giudicandolo infondato. I giudici hanno sottolineato come la stessa linea difensiva della giornalista finisse per ammettere la “falsità oggettiva dei fatti filtrati attraverso la pubblicazione giornalistica”. Il nucleo centrale e diffamatorio della notizia non era la semplice partecipazione al concorso, ma l’attribuzione al soggetto di un comportamento illecito, ovvero l’ottenimento di un posto di lavoro pubblico tramite favoritismi e collusioni politiche.
L’articolo, corredato da una vignetta esplicativa, evocava in un lettore medio l’idea di intrighi e indebite pressioni, ledendo gravemente la reputazione del destinatario.

Le motivazioni

La Corte ha ribadito che il diritto di cronaca, sancito dall’art. 21 della Costituzione, non è assoluto, ma incontra un limite invalicabile nel rispetto della dignità e della reputazione altrui. Per poter invocare la scriminante del diritto di cronaca (art. 51 c.p.), il giornalista deve rispettare tre condizioni fondamentali:

1. Verità della notizia: La corrispondenza tra i fatti narrati e quelli realmente accaduti. Questo è il presupposto fondamentale, senza il quale le altre condizioni non possono nemmeno essere prese in considerazione.
2. Interesse pubblico: La rilevanza sociale della notizia.
3. Continenza espressiva: L’utilizzo di un linguaggio corretto, obiettivo e non inutilmente aggressivo.

Nel caso di specie, mancava il primo e più importante requisito: la verità del fatto. Poiché la notizia centrale – la partecipazione e la vittoria truccata del concorso – era falsa, l’intera impalcatura del diritto di cronaca crollava. La Corte ha precisato che attribuire a una persona comportamenti mai tenuti per poi sottoporli a critica è una condotta inaccettabile. Anche l’ipotesi di una scriminante “putativa”, cioè basata su un errore del giornalista, è stata esclusa. Per invocarla, il cronista deve dimostrare di aver compiuto un serio e rigoroso lavoro di verifica delle fonti, onere che non risulta assolto in questa vicenda. L’onere della prova sulla verità della notizia ricade sempre su chi la pubblica.

Le conclusioni

La sentenza conferma un orientamento consolidato: non si può costruire una narrazione denigratoria su un presupposto di fatto falso e poi pretendere di essere protetti dal diritto di cronaca. La libertà di stampa è un pilastro della democrazia, ma comporta la responsabilità di verificare le notizie prima di darle in pasto al pubblico, specialmente quando queste sono idonee a ledere l’onore e la reputazione delle persone. La diffamazione a mezzo stampa si configura non solo con l’attribuzione di un fatto illecito specifico, ma anche tramite allusioni e informazioni generiche che inducano nel lettore la convinzione di una condotta disonorevole. La condanna della giornalista è stata, quindi, definitivamente confermata.

Cosa si intende per diffamazione a mezzo stampa?
È il reato commesso da chi, comunicando con più persone tramite la stampa (anche telematica), offende la reputazione altrui. La sentenza specifica che anche informazioni allusive a comportamenti illeciti, pur se non dettagliate, possono integrare questo reato se idonee a generare nel lettore la convinzione di una condotta disonorevole.

Quali sono le condizioni per esercitare legittimamente il diritto di cronaca?
Secondo la Corte, il diritto di cronaca è legittimo solo se rispetta tre condizioni: 1) la verità oggettiva della notizia pubblicata; 2) l’interesse pubblico alla sua conoscenza; 3) l’obiettività e la continenza nella forma espositiva.

La pubblicazione di una notizia basata su un fatto falso è sempre diffamazione?
Sì, perché la verità del fatto narrato è il presupposto essenziale per poter invocare la scriminante del diritto di cronaca. Se il fatto è falso, come nel caso esaminato, viene meno la causa di giustificazione e la condotta offensiva è punibile come diffamazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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