Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 5950 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 5950 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 13/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da: PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI TRIESTE E dalla parte civile COGNOME NOME nato a BUONABITACOLO il DATA_NASCITA nel procedimento a carico di: COGNOME NOME nato a CANEVA il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a RIESI il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 23/05/2023 della CORTE APPELLO di TRIESTE visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore COGNOME, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata; udito l’AVV_NOTAIO, per la parte civile, che ha concluso per l’annullamento della sentenza impugnata e ha depositato conclusioni scritte unitamente alla nota spese; udito l’AVV_NOTAIO COGNOME, per i ricorrenti, ha concluso per la conferma della sentenza.
RITENUTO IN FATTO
1. La sentenza impugnata è stata deliberata il 23 maggio 2023 dalla Corte di appello di Trieste, che ha ribaltato la sentenza di condanna pronunziata dal
Tribunale di Gorizia nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME per il reato di diffamazione a mezzo stampa commesso ai danni di NOME COGNOME.
I due imputati erano stati condannati in primo grado, anche agli effetti civili, per quanto scritto da COGNOME a proposito di COGNOME in un articolo pubblicato il 15 dicembre 2016 sul quotidiano “Il Piccolo”, diretto da COGNOME. In particolare l’articolo riguardava COGNOME e il suo duplice incarico di Sovrintendente della RAGIONE_SOCIALE e di direttore del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE del RAGIONE_SOCIALE e gli si attribuiva «un doppio incarico costato caro in tutti i sensi alla città e ai suoi teatri. Tanto che nel novembre 2011, per riparare ai danni di COGNOME, arriva al RAGIONE_SOCIALE come commissario straordinario proprio COGNOME».
La Corte di appello ha assolto gli imputati, con la formula ‘perché il fatto non sussiste’, ritenendo che le frasi di cui al capo di imputazione, contestualizzate nell’ambito delle altre informazioni ricavate dal resto dell’articolo, restituissero l’immagine di una situazione reale, sia perché il doppio incarico era retribuito, sia perché effettivamente, durante la gestione COGNOME della RAGIONE_SOCIALE, la riduzione dei costi era avvenuta a discapito dell’offerta teatrale, tanto che vi era stato un calo di settecento unità degli abbonamenti, il che aveva costituito un danno per il RAGIONE_SOCIALE.
Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione sia il Procuratore generale presso la Corte di appello di Trieste che la parte civile.
Il Procuratore generale ha condensato le proprie doglianze in un unico motivo di ricorso, che lamenta mancanza di motivazione e violazione del dovere di motivazione rafforzata.
Sostiene la parte pubblica impugnante che la frase di cui al capo di imputazione e l’affermazione che si legge poco più avanti – secondo cui il commissario COGNOME aveva salvato il RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE dal fallimento – restituisce l’idea che il doppio incarico avesse fruttato a COGNOME un «cospicuo appannaggio economico» e che ciò fosse all’origine del tracollo dell’istituzione. Al contrario, COGNOME non era minimamente responsabile della crisi finanziaria del RAGIONE_SOCIALE, poiché, all’atto di assumerne la gestione, egli si era trovato di fronte ad un ammontare di passività intorno ai 23 milioni di euro che, dopo un tentativo di messa in sicurezza economica, aveva imposto il ricorso alla gestione commissariale, invocata dallo stesso COGNOME (vicenda descritta nella sentenza di primo grado).
Non avrebbe alcun rilievo liberatorio la circostanza che, nel prosieguo dell’articolo, siano contenute legittime critiche alla gestione artistica attuata
dall’imputato, giacché egli è stato nel contempo dipinto come una persona attaccata al denaro, rievocando ad arte una vicenda di carattere privato che aveva visto la parte civile intentare una causa per ottenere la somma di un milione e ottocentomila euro da una ballerina americana di cui era stato innamorato. La sentenza impugnata ha smontato il verdetto di colpevolezza dei due imputati valorizzando due circostanze vere, vale a dire che gli incarichi di Sovrintendente erano entrambi retribuiti e che la gestione NOME era stata caratterizzata da sacrifici nella programmazione, ma non avrebbe colto l’essenza della diffamazione, che risiederebbe nel fatto che il messaggio che l’articolo lanciava era che il dissesto del RAGIONE_SOCIALE verdi fosse dovuto allo strapagato COGNOME.
Il ricorso a firma dell’AVV_NOTAIO per la parte civile consta di due motivi.
4.1. Il primo motivo di ricorso denunzia violazione degli artt. 595, comma 3 cod. pen. e 13 I. 47 del 1948.
Sostiene la parte civile ricorrente che, nel caso di specie, difetterebbero tutti i presupposti per il riconoscimento della scriminante del diritto di critica, cioè l’interesse generale alla conoscenza della notizia, la correttezza nell’esposizione dei fatti e la verità di quanto narrato.
Contrariamente a quanto suggerito dall’articolo, quando, a ottobre 2010, NOME accettò la proposta del Sindaco di Trieste di fare il Sovrintendente, la RAGIONE_SOCIALE aveva un debito di 23 milioni di euro accumulato nei dieci anni precedenti, mentre l’anno dopo il bilancio chiuse con un piccolo attivo. Il commissariamento non fu deciso per ovviare ad errori gestionali di COGNOME, ma fu attuato proprio su sua richiesta per fronteggiare il peso dei debiti arretrati. Per di più COGNOME si accollò anche l’incarico di direttore artistico senza chiedere alcun compenso aggiuntivo, per cui affermare che egli avesse causato danni economici all’Ente sarebbe falso e gravemente diffamatorio. L’autore dell’articolo aveva abilmente accostato fatti veri, imprecisioni e falsità, sì da dare un’immagine negativa di COGNOME.
4.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Il riferimento dell’articolo al “danno” causato anche da COGNOME induceva il lettore a ritenere che l’incarico affidato alla parte civile avesse talmente danneggiato i bilanci dell’Ente da portarlo al commissariamento. La frase per cui l’incarico a COGNOME sarebbe «costato caro in tutti sensi alla città e ai suoi teatri» non era stata menzionata dalla Corte territoriale, che aveva solo ragionato sul calo del numero degli abbonati. L’articolo ha un evidente intento diffamatorio se si valuta anche l’inserimento, del tutto fuori luogo, della contesa
giudiziaria della parte civile con NOME COGNOME. Lo stesso dicasi per il contenzioso stragiudiziale con il RAGIONE_SOCIALE, menzionato in maniera imprecisa e tendenziosa, allo scopo in indurre il lettore a pensare che esista una causa pendente in Tribunale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi del Procuratore generale e della parte civile sono fondati, sicché la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE.
Le impugnative colgono nel segno allorché lamentano la carenza motivazionale della sentenza impugnata che – con poche, laconiche battute ha capovolto il giudizio di condanna di prime cure, corredato, al contrario, da un’ampia e circostanziata motivazione, che aveva riguardato tutti gli aspetti della vicenda e che aveva chiaramente isolato i profili diffamatori della condotta.
Come emerge dalla lettura del capo di imputazione e come rimarcato nella sentenza di primo grado, infatti, la frase diffamatoria era la seguente: «Un doppio incarico costato caro in tutti i sensi alla città e ai suoi teatri. Tanto che nel novembre 2011, per riparare ai danni di COGNOME, arriva al RAGIONE_SOCIALE come commissario straordinario proprio COGNOME». Ebbene, la sentenza di primo grado aveva spiegato come tale frase, dotata di un’obiettiva portata diffamatoria, contenesse un’informazione falsa, vale a dire che il dissesto finanziario del RAGIONE_SOCIALE di Trieste che aveva condotto al commissariamento fosse dovuto alla gestione di COGNOME, mentre costui aveva accettato l’incarico di Sovrintendente offertogli dal Sindaco di Trieste (oltre che quello di direttore artistico, quest’ultimo gratuito) proprio per cercare di porre rimedio alla grave situazione economica in cui già versava l’ente, per debiti precedentemente accumulatisi che superavano il 30 % del patrimonio disponibile. La notizia era tanto più falsa – si legge altresì nella sentenza di primo grado – laddove COGNOME era riuscito, pur con sacrifici nella programmazione, a chiudere il bilancio successivo con un piccolo utile. A corredo delle riflessioni sulla falsità della notizia, il Giudice di prime cure aveva segnalato come la volontà di gettare discredito sulla persona offesa si ricavasse anche dall’accenno, del tutto pretestuoso, alla controversia civile che COGNOME aveva intentato con una sua ex fidanzata, vicenda del tutto inconferente rispetto all’argomento dell’articolo.
Ebbene, la sentenza impugnata, con motivazione decisamente stringata, ha reputato che l’articolo riportasse due notizie vere: da una parte, quella che gli incarichi di Sovrintendente del RAGIONE_SOCIALE e del RAGIONE_SOCIALE di
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Trieste fossero entrambi remunerati e, dall’altra, che l’addebito mosso a COGNOME dal giornalista fosse quello di avere attuato un’errata campagna di abbonamenti, che aveva determinato un decremento delle sottoscrizioni. L’informazione veicolata dall’articolo, dunque, sarebbe solo quella di avere ottenuto una riduzione dei costi a discapito dell’offerta teatrale e che ciò aveva contribuito al dissesto dell’ente.
Prima di chiarire le ragioni dell’annullamento, occorre ricordare che il dovere motivazionale del Giudice di appello in caso di overturning della sentenza di condanna resa in primo grado è stato tracciato da Sez. U Troise (sentenza n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Rv. 272430), secondo cui il giudice d’appello, che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado, deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva; non è imposto, invece, un obbligo di motivazione rafforzata quale si impone nel ribaltamento in malam partem della pronunzia liberatoria di primo grado.
Ciò posto, è evidente che quella della Corte di merito non è una motivazione “puntuale e adeguata” del ribaltamento, giacché vi è uno scollamento tra i giudizi di primo e secondo grado; scollamento che si coglie non solo – come è ovvio in caso di ribaltamento – nel diverso epilogo, ma anche nel percorso motivazionale che contraddistingue le due pronunzie, giacché la sentenza di appello non “dialoga” con quella di primo grado per smentirne le considerazioni che avevano condotto alla condanna dell’articolista e del direttore del giornale.
Di fronte alla precisa individuazione, da parte del Tribunale, della frase diffamatoria in quella riportata nel capo di imputazione e della altrettanto precisa individuazione del significato da attribuirvi – quello, cioè, che il commissariamento era dovuto alla gestione COGNOME – la Corte distrettuale ha concentrato la propria attenzione su un diverso aspetto dell’articolo, ritenendo che lo scopo del suo redattore fosse solo quello di criticare i tagli alla campagna abbonamenti e le conseguenze cui essi avevano condotto. Ciò ha determinato un’elusione della ratio decidendi della sentenza di primo grado che, appunto, aveva focalizzato l’attenzione sul significato della frase riportata testualmente nel capo di imputazione, considerata falsa e, pertanto, estranea al legittimo esercizio del diritto di critica allorché aveva ricondotto al solo COGNOME i danni economici che il commissario doveva “riparare” e che, invece, erano già stati prodotti dalle gestioni precedenti. Aggiunge il Collegio che, concentrare l’attenzione, come ha fatto la Corte di appello, sulla critica alla campagna abbonamenti costituisce un’altra testimonianza dell’elusione del confronto con la sentenza di primo grado che, affrontando la tesi difensiva a riguardo, aveva escluso che la sequenza delle
informazioni veicolate nell’articolo consentisse di ritenere che l’addebito che il giornalista aveva mosso a COGNOME potesse essere circoscritto alla sola scelta dell’offerta teatrale.
La sentenza impugnata manca, altresì, di affrontare il tema della contestualizzazione della frase di cui al capo di imputazione nell’intero articolo, laddove la sentenza di prime cure aveva anche individuato la matrice volutamente denigratoria dello scritto nell’accostamento, reputato gratuito, della vicenda del RAGIONE_SOCIALE con quella personale del COGNOME con la ex compagna, peraltro deformata in senso peggiorativo.
La decisione avversata, infine, è oscura anche laddove non si comprende quale sia la ragione dell’assoluzione, in quanto il giudizio di verità della rappresentazione dei fatti che si coglie nella sentenza dovrebbe rimandare al tema della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca, il che, però, avrebbe imposto il ricorso ad altra formula assolutoria.
Alla luce di queste considerazioni, la sentenza impugnata va annullata, con rinvio alla Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE, che dovrà riesaminare per intero la regiudicanda, evitando di incorrere nuovamente nei medesimi vizi motivazionali, fornendo in sentenza adeguata motivazione in ordine all’iter logico-giuridico seguito (Sez. 5, n. 33847 del 19/04/2018, COGNOME e altri, Rv. 273628; Sez. 5, n. 34016 del 22/06/2010, COGNOME, Rv. 248413).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE.
Così deciso il 13/11/2023.