Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 37629 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 37629 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 02/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto dal
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Teramo
avverso la sentenza emessa il 23/05/2024 dal Tribunale di Teramo nel procedimento penale nei confronti di COGNOME NOME, nato a Mosciano Sant’AVV_NOTAIO il DATA_NASCITA;
udita la relazione svolta dal Consigliere, NOME COGNOME udito il Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata; udito l’AVV_NOTAIO, in sostituzione dell’AVV_NOTAIO, difensore di fiducia dell’imputato, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Teramo ha assolto, per non avere commesso il fatto, NOME COGNOME dai reati di corruzione propria, favoreggiamento e tentativo di falso ideologico.
A COGNOME, infermiere addetto al servizio di Pronto soccorso dell’Ospedale di Giulianova, si contesta di avere ricevuto da COGNOME NOME, che era stato sottoposto ad accertamenti ematici al fine di verificare se, al momento in cui era stato fermato all
guida di una determinata autovettura, si trovasse o meno sotto l’effetto di sostanza stupefacente, una somma di denaro imprecisata – oscillante tra i 100 e i 200 euro – per effettuare abusivamente un prelievo di sangue a COGNOME NOME COGNOME e per sostituire le provette contenenti il sangue di COGNOME con quelle contenenti sangue di COGNOME.
Con la condotta in questione l’imputato avrebbe favorito COGNOME ad eludere le investigazioni nei suoi confronti e compiuto atti idonei a falsificare le provette di sang costituenti fonti di prova.
Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Teramo articolando due motivi.
2.1. Con il primo motivo si deduce violazione dell’art. 63, comma 2, cod. proc. pen.; il tema attiene alla ritenuta inutilizzabilità delle dichiarazioni rese all’u dibattimentale del 14.1.2021 da COGNOME NOME: l’inutilizzabilità discenderebbe, secondo il Tribunale, dalla circostanza, da una parte, che il dichiarante aveva già riferito – senza l’assistenza del difensore – nel corso delle indagini prelimin del prelievo abusivo compiuto nei suoi riguardi da un infermiere di nome NOME NOME NOME indicazione di COGNOME, e, dall’altra, che, nonostante tale quadro di riferimento, dichiarante sarebbe stato escusso in giudizio come testimone e non come indagato in procedimento di reato connesso o collegato.
Il dichiarante, si aggiunge, successivamente, assistito da un difensore, aveva riconosciuto, sempre nel corso delle indagini preliminari, COGNOME persona dell’imputato l’infermiere che aveva compiuto il prelievo.
Secondo il Procuratore ricorrente, invece, le dichiarazioni in questione sarebbero state erroneamente ritenute inutilizzabili perché il teste era stato convocato nel cors delle indagini preliminari – a distanza di cinque mesi dal fatto – sulla base del so contenuto dei tabulati telefonici che avevano fatto emergere, nel giorno del prelievo, dei meri contatti tra COGNOME e il COGNOME; si aggiunge che, al momento in cui f sentito la prima volta nel corso delle indagini – secondo il racconto del teste di pol giudiziaria, COGNOME era solo sospettato di aver “fornito il sangue”.
Sulla base di tali presupposti, il Tribunale avrebbe erronamente ritenuto inutilizzabi le dichiarazioni del COGNOME rese in dibattimento quale teste perché:
questi sarebbe correo nei reati di falso e favoreggiamento e indagato di reato probatoriamente collegato quanto al reato di corruzione;
sarebbe stato erroneamente indicato COGNOME lista come teste e assunto in detta veste;
non sarebbe stata possibile la ripetizione dell’audizione dibattimentale del dichiarante con la corretta veste processuale, perché si sarebbe trattato di una inutilizzabilità assoluta e insanabile;
d) COGNOME avrebbe dovuto essere sentito sin dall’inizio con le garanzie di legge e, comunque, gli inquirenti avrebbero dovuto interrompere l’esame a seguito delle dichiarazioni indizianti del teste.
Sostiene invece il Procuratore ricorrente che il Tribunale non avrebbe compiuto una rituale verifica della posizione del dichiarante al momento in cui le dichiarazioni furo rese nel corso delle indagini, atteso che, in quel momento, secondo le stesse dichiarazioni del teste COGNOME, vi erano solo sospetti del coinvolgimento nel fat concretizzatisi in senso accusatorio solo successivamente, a seguito delle dichiarazioni rese dallo stesso e degli ulteriori accertamenti investigativi.
Né, si aggiunge, sarebbe rituale il richiamo all’art. 63, comma 1, cod. proc. pen. non avendo il dichiarante riferito fatti con valenza auto accusatoria; né ancora sarebbe rituale l’affermazione relativa alla impossibilità di riassume le dichiarazioni.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione dell’art. 195, comma 4, cod. proc. pen.; il tema attiene alla affermata inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’uffic polizia giudiziaria RAGIONE_SOCIALE ed aventi ad oggetto le dichiarazioni ricevute da COGNOME, moglie di COGNOME, che aveva riferito circostanze estremamente rilevanti sui fatti oggetto del processo, e che, tuttavia, non erano state verbalizzate.
COGNOME COGNOME occasione non aveva verbalizzato nulla e si era limitato ad invitare la dichiarante a recarsi presso l’ispettore COGNOME, presso il comando di Polizia, che stav procedendo in relazione agli accertamenti conseguenti al controllo nei riguardi dello stesso COGNOME nei cui confronti, come detto, erano stati disposti esami ematici.
Assume il Procuratore ricorrente che l’ufficiale di polizia giudiziara avrebbe rifer in dibattimento dichiarazioni utilizzabili e non rientranti nel divieto di cui all’a comma 4, cod. proc. pen., perché assunte “al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione delle medesime” e in una situazione di “operatività eccezionale o di straordinaria urgenza”: ciò avrebbe dovuto indurre il Tribunale a ritenere utilizzabili le dichiarazioni.
COGNOME, si aggiunge, avrebbe fatto una annotazione che aveva portato nel corso del procedimento al sequestro delle provette di sangue.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso è parzialmente fondato.
In particolare, è fondato, in parte, il primo motivo di ricorso.
Le direttive generali, cui la legge n. 63 del 21 aprile 2001 si è ispirata, han portato, come è noto, ad una ridefinizione dei rapporti fra le figure di imputato di re connesso o collegato accusatore, testimone e imputato accusato.
L’esigenza di fondo era quella di evitare quei fenomeni distorsivi, diffusi COGNOME del regime normativo previgente, in cui un soggetto indagato o imputato, consapevole di non essere gravato da obblighi di verità, potesse, nello stesso o in separato procedimento, lanciare accuse nei confronti di soggetti coinvolti COGNOME comune vicenda processuale, e, poi, non assumendo l’ufficio di testimone, in dibattimento, decidere di rimanere silente e di sottrarsi al confronto con l’accusato.
Con la legge n. 63 del 2001 si è inciso profondamente in tale contesto attraverso una riduzione dell’area del diritto al silenzio e delle ipotesi di incompatibilità a testim per i soggetti imputati di reato connesso o collegato che abbiano definito la propri posizione processuale con sentenza irrevocabile di condanna, di proscioglimento, o di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., nonché ammettendo la possibilità, per determinati soggetti non ancora giudicati, di assumere la veste di testimone in presenza di determinate condizioni.
Il risultato derivato da tale opera di risistemazione è stata la configurazione, aggiunta ai tradizionali soggetti del testimone e dell’imputato in procedimento connesso o collegato, di ulteriori figure soggettive in relazione alle quali il diritto al si facoltà di astensione dal rispondere in relazione al privilegio contro la autoincriminazio e la possibilità di assumere l’ufficio di testimone, con conseguente obbligo di rispondere secondo verità, viene, di volta in volta, ad atteggiarsi in misura diversa per effetto de intervenuta o meno definizione della propria posizione processuale e del rapporto fra contenuto delle domande rivolte, tema di prova ed effetti derivabili sulla posizione de dichiarante.
È stato spiegato, in modo condivisibile, come qualificare il dichiarante come teste assistito, piuttosto che testimone “puro”, significa incidere in maniera profonda sul modalità di assunzione della prova e, soprattutto, sul regime di valutazione della dichiarazione, assoggettata, in un caso, al meccanismo di cui all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., e, nell’altro, al solo libero convincimento del giudice della attendib della dichiarazione.
Sul tema, la dottrina ha lucidamente evidenziato come le tradizionali nozioni di testimone o di persona ex art. 210 cod. proc. pen/abbiano perso ogni valore definitorio perché, appunto, non designano essenze percepibili oltre e prima del processo, ma rimandano, invece, a posizioni soggettive dai confini mobili, dinamici ed instabili perché destinati a mutare “in corsa”, nell’ambito e durante il processo.
In tale articolato quadro di riferimento, emerge un primo rilevante profilo; quell cioè, del se la qualificazione del dichiarante, che sia stato escusso nel corso delle indagi preliminari in qualità di persona informata sui fatti e che non sia mai stato iscritto registro delle notizie di reato, possa poi essere rivista, ed eventualmente mutata, dal giudice del dibattimento, sul presupposto che per quella persona, al momento in cui le dichiarazioni furono rese nel corso delle indagini ovvero al momento in cui fu escussa
in giudizio, esistevano indizi che imponevano di attribuirle la posizione sostanziale d soggetto indagato per un reato connesso o collegato probatoriamente a quello per il quale si procede.
La questione, in particolare, consiste nel verificare se vi sia e quale sia il rime quando il giudice dibattimentale si trovi di fronte a un soggetto citato come testimone a carico del quale emergano indizi di reità, che possono integrarsi in due modi: possono affiorare dalle dichiarazioni stesse del testimone nel corso dell’esame, oppure possono essere rilevabili già prima, in base ad altre e diverse risultanze probatorie.
Nel primo caso, il giudice deve attivarsi per far coincidere la situazione formale de dichiarante-testimone con quella sostanziale venutasi a creare al suo cospetto, per cui il dichiarante diviene di fatto passibile di indagini a proprio carico.
Nel secondo, il giudicante si trova in condizione di poter considerare il dichiarant come indagabile già prima che questi si sieda sul banco dei testimoni per sottoporsi ad esame e l’adeguamento del suo status a tale circostanza può e deve essere fatto subito da chi governa l’udienza ed assicura il valido svolgimento dell’istruzione.
4. La Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 210 cod. proc. pen., censurato, in riferimento agl 3 e 111 Cost., COGNOME parte in cui non consente al giudice del dibattimento di decidere l forme con cui assumere il dichiarante, se, cioè, nelle forme dell’esame di persona imputata in un procedimento connesso o di un reato collegato anziché come testimone.
Il rimettente, secondo la Corte, aveva posto a fondamento del dubbio di costituzionalità premesse interpretative intrinsecamente contraddittorie, in quanto aveva basato la supposta violazione, tanto del diritto dell’imputato di interrogare persone a sua difesa (art. 111, comma 2, Cost.), quanto dell’art. 3 Cost., sull’assunto secondo cui – sentendo come testi persone raggiunte da indizi di reità, ma non formalmente indagate – il giudice sarebbe stato poi costretto, in sede di decisione, a ritenere inutilizzabili le loro dichiarazioni, e aveva sollevato la questione sul presuppo che, per “diritto vivente”, la disciplina dell’art. 210 cod. proc. pen. – a differenza di dell’art. 63, comma 2, dello stesso codice – troverebbe applicazione solo ove la persona da esaminare abbia formalmente assunto la qualità di imputato o di indagato.
In tal modo, ha continuato la Corte, il remittente non aveva tenuto conto del collegamento sistematico tra l’art. 63, comma 2, e gli art. 197, comma 1, lettere a) e b), e 210 cod. proc. pen., in forza del quale o si ritiene che l’inutilizzabilità ex a comma 2, cod. proc. pen. colpisca anche le dichiarazioni rese da chi non è mai stato formalmente indagato, ma in tal caso il giudice ha il potere-dovere di sentire tal soggetto nelle forme dell’art. 210 cod. proc. pen., oppure si nega al giudice tale poter -dovere, ma allora si dovrebbe ritenere che anche la inutilizzabilità non possa prescindere dalla formale assunzione della qualità di indagato, il che farebbe cadere uno
dei presupposti delle censure, COGNOME specie sollevate, laddove la combinazione dei due assunti renderebbe contraddittorie le premesse interpretative (ordd. n. 218 e 427 del 2008, 127 del 2009).
Secondo la Corte, il Giudice a quo avrebbe posto la questione in termini inesatti e perciò contraddittori, perchè avrebbe dovuto valorizzare il «collegamento sistematico esistente tra l’art. 63, comma 2, e gli artt. 197, comma 1 lettere a) e b), e 210 c.p.p
Adottando tale prospettiva di analisi, si è aggiunto, si sarebbe avveduto del fatto ch l’art. 63, comma 2, cod. proc. pen. può essere interpretato come applicabile a prescindere da qualsivoglia iscrizione (anche tardiva) del dichiarante nel registro degl indagati e che chi versi in simile situazione di sottoposto sostanzialmentee alle indagin «non potrebbe essere sentito altrimenti che nelle forme dell’art. 210 c.p.p.».
5. In tale contesto sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione, chiarendo che, allorché venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, e, quindi, al di là del ris indici formali – come l’eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro del notizie di reato- l’attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in c dichiarazioni stesse vengano rese, e il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità (Sez. U., n. 15208 del 25/02/2010, Mills, R 246581).
Dunque, una conversione della fisionomia del dichiarante COGNOME stessa sede dell’esame dibattimentale, secondo una prospettiva, si è notato in dottrina, che il codice già conosce e considera possibile, stando al disposto dell’art. 210, comma 6, cod. proc. pen., che prevede il caso dell’imputato in procedimento connesso o collegato che, iniziato l’esame sotto l’egida dell’art. 210 cod. proc. pen., diventi testimone assisti seguito del rituale avvertimento ex art. 64, comma 3, lettera c) cod. proc. pen. e dell scelta di rendere dichiarazioni accusatorie.
Non diversamente da quello indicato, il caso in esame contempla il passaggio del dichiarante dal regime del testimone comune, evocato dalla parte che ne chiede l’esame, a quello degli imputati ex art. 210 cod. proc. pen. al cospetto del giudice dibattimentale ed in base alla valutazione di quest’ultimo.
Evidentemente, si è aggiunto, il sistema conosce e tollera la figura del “testimone mutante”, prevedendo meccanismi adeguati a far slittare un dichiarante da una categoria all’altra, in ragione dell’adattamento – anche in itinere – del regime forma che gli è dedicato alla posizione in cui effettivamente si trova nel procedimento (così, i maniera condivisibile, in dottrina).
Per tali ragioni non è condivisibile quanto pure affermato da una parte della giurisprudenza di legittimità – anche dopo le Sezioni unite “Mills” – secondo cui il divi di utilizzazione nei confronti di terzi delle dichiarazioni rese da persona che avrebb
dovuto essere sentita in qualità di indagato non attiene alle dichiarazioni rese al giudi da un soggetto che mai abbia assunto la qualità di imputato o di persona sottoposta ad indagini, considerato che, a differenza del pubblico ministero, il giudice non pu attribuire ad alcuno, di propria iniziativa, la qualità di imputato o di persona sottop ad indagini, dovendo solo verificare che essa non sia già stata formalmente assunta, sussistendo in tal caso l’incompatibilità con l’ufficio di testimone; pertanto il riferi alla posizione sostanziale del dichiarante non esaurisce la verifica dei presupposti di applicabilità dell’art. 63 cod. proc. pen., ma si estende alla necessità di accertare successiva formale instaurazione del procedimento a suo carico (così testualmente’ Sez. 5, n. 29357 del 22/03/2019, COGNOME., Rv. 276856, secondo cui in tal senso si sarebbero pronunciate le Sezioni Unite della Corte con la sentenza “Mills”; nello stesso senso, Sez. 5, n. 24300 del 19/03/2015, COGNOME, Rv. 276856).
La tesi è che “la qualità processuale può retroagire nei suoi effetti ad un momento precedente a quello in cui la veste formale di indagato è stata assunta, ma mai prescinderne del tutto” (così, Sez. 5, n. 29357 del 22/03/2019, B., Rv. 276856).
Dunque, secondo l’impostazione in parola, sarebbero legittimamente utilizzabili nei confronti di un imputato le dichiarazioni accusatorie rese da persona che, pur potendo assumere la veste di imputato di reato connesso o probatoriamente collegato, non sia stato mai oggetto di indagini.
In realtà, sul punto specifico le Sezioni unite così si erano espresse “ritengono queste Sezioni Unite che spetti al giudice il potere di verificare COGNOME sostanza, al di l riscontro di indici formali, quali la già intervenuta o meno iscrizione nominativa n registro delle notizie di reato, l’attribuibilità, al dichiarante, della qualità di ind momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese. Ove si subordinasse, infatti, l’applicazione della disposizione di cui all’art. 63, comma 2, cod. pen. cod. proc. pen alla iniziativa del pubblico ministero di iscrizione del dichiarante nel registro ex art cod. proc. pen., si finirebbe col fare assurgere la condotta del pubblico ministero requisito positivo di operatività della disposizione, quando sarebbe invece proprio la omissione antidoverosa di quest’ultimo ad essere oggetto del sindacato in vista della dichiarazione di inutilizzabilità”
Si è fatto correttamente notare, che dal momento in cui il giudice rileva che la veste del dichiarante non è quella di testimone ma, invece, di soggetto coinvolto nel fatto, ossequio alla stessa ratio dell’art. 63 cod. proc. pen., ci si trova di fronte ad un indag a tutti gli effetti, posto che – si deve supporre – il magistrato d’accusa dovre iscriverne immediatamente il nome nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen e comunque, indirizzare indagini nei suoi confronti, rimanendo irrilevanti eventuali ritar nell’adempimento dell’incombente formale dell’iscrizione.
L’acquisto di fatto della qualità di indagato comporta l’applicabilità al dichiara dell’insieme di previsioni dedicate all’imputato, ossia, in giudizio, lo svolgime
dell’esame ai sensi dell’art. 210 cod. proc. pen.: in questo senso, gli artt. 63 e 210 co proc. pen. costituiscono una griglia unitaria di tutela e funzionano secondo le medesime premesse.
Non si può subordinare, diversamente da quanto sembra ritenere la giurisprudenza in precedenza richiamata, l’applicabilità del comma 2 della norma in esame all’effettiva iscrizione dell’indagato, in un qualche momento precedente alla testimonianza o, forse, anche successivamente alla deposizione, nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen.
Si tratta di una impostazione che lascerebbe sullo sfondo questioni rilevanti.
Essa avrebbe la singolare conseguenza di lasciare al pubblico ministero l’operatività di una sanzione destinata proprio a stigmatizzare il suo comportamento.
L’art. 63 cod. proc. pen. configura un congegno che, al comma 2, mira a colpire il tentativo di interpellare una persona facendole credere di dover collaborare con l’autorità giudiziaria, quando, invece, potrebbe astenersi da qualsivoglia cooperazione, tacendo legittimamente ed avvalendosi dell’assistenza di un difensore.
Sarebbe singolare che il meccanismo sanzionatorio previsto dall’art. 63 cod. proc. pen., per le più rilevanti ipotesi di cui al comma 2, avesse un’operatività condiziona proprio dalla condotta discrezionale dello stesso soggetto che abbia creato tale situazione di scissione tra veste formale e veste sostanziale.
Peraltro, con la sentenza “Mills”, le Sezioni Unite hanno ancorato a precisi e stringent requisiti la possibilità di sindacato successivo; è stato infatti ribadita la necessità giudice che procede all’assunzione della prova sia a conoscenza già prima dell’esame o dell’escussione di elementi già sussistenti in quel momento qualificabili quali indizi n equivoci di reità; è stato altresì espressamente rilevato che il giudice «per pote applicare la norma di cui all’art. 210 cod. proc. pen., deve essere messo in condizione di conoscere la situazione di incapacità a testimoniare o di incompatibilità, le qua quindi, se non risultano dagli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento, devono ess dedotte dalla parte esaminata o comunque da colui che chiede l’audizione della persona imputata o indagata in un procedimento connesso o collegato» (cfr. Sez. 6, n. 25425 del 04/03/2020, COGNOME, Rv. 277856).
Diverso ma connesso è il tema relativo a quale sia la soglia minima e sufficiente affinché un soggetto sia considerato indiziato di un reato connesso, o, soprattutto, collegato probatoriamente a quello per cui si procede.
Si tratta di un tema che assume rilevante valenza prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 150 del 2022 all’art. 335 cod. proc. pen.
Sul punto si è ritenuto che l’inutilizzabilità assoluta, ai sensi dell’art. 63, com cod. proc. pen., delle dichiarazioni rese da soggetti i quali fin dall’inizio avrebbero do essere sentiti in qualità di imputati o di persone sottoposte a indagini, richieda che
carico di tali soggetti risulti l’originaria esistenza di precisi, anche se non gravi, in reità.
Ne consegue, secondo condivisibile impostazione giurisprudenziale, che tale condizione non può automaticamente farsi derivare dal solo fatto che i dichiaranti siano in qualche modo coinvolti in vicende potenzialmente suscettibili di dar luogo nei loro confronti alla formulazione di addebiti penali, occorrendo, invece, che tali vicende, pe come percepite dall’autorità inquirente, presentino connotazioni tali da non poter formare oggetto di ulteriori indagini se non postulando necessariamente l’esistenza di responsabilità penali a carico di tutti i soggetti coinvolti o di taluni di essi.
In particolare, l’iscrizione nel registro delle notizie di reato, per gli effetti derivano ai fini del computo del termine di durata delle indagini preliminari e del utilizzabilità degli atti compiuti, postula non solo la completa identificazione soggetto, ma, soprattutto, che a suo carico emergano specifici elementi indizianti e non già meri sospetti, cioè non solo intuizioni degli organi inquirenti che siano prive circostanze indizianti soggettivamente qualificate. (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, n. COGNOME, Rv. 23417).
Sulla base della ricostruzione compiuta, il motivo di ricorso è parzialmente fondato.
7.1. Il motivo è infondato, quanto alla dedotta inutilizzabilità delle prime dichiaraz rese da COGNOME nel corso delle indagini preliminari senza l’assistenza del difensore.
Dalla stessa sentenza impugnata emerge infatti come, al momento in cui fu sentito per la prima volta il dichiarante, nei confronti di questi vi fossero solo le risultanz tabulati telefonici che avevano fatto emergere contatti tra il COGNOME e COGNOME il giorno stesso del prelievo ematico – subito dal primo, il 24.5.2015 – e che so successivamente, anche per effetto delle stesse dichiarazioni rese dal COGNOME, emerse più chiaramente il suo coinvolgimento nel fatto.
Dunque le dichiarazioni rese nel corso della prima audizione nel corso delle indagini preliminari erano al più inutilizzabili, ai sensi dell’ad 63, comma 1, cod. proc. pen. confronti del dichiarante ma non anche nei confronti di altri, ai sensi dell’art. 63, comm 2, cod proc. pen., perché, come detto, al momento in cui fu sentito, COGNOME non rivestiva, anche dal punto di vista sostanziale, la veste di soggetto indagato per reat connesso o probatoriamente collegato a quelli per cui si procedeva (cfr. sul punto Sez. 1, n. 25390 del 03/04/2025, COGNOME, Rv. 288177; Sez. 3 , n. 30922 del 18/09/2020,1, Rv. 280277 secondo cui l’inutilizzabilità prevista dall’art. 63, comma 2, cod. proc. pen ricorre anche in caso di dichiarazioni rese COGNOME fase delle indagini da chi, sin dall’in dell’esame o dopo l’emersione di indizi a suo carico nel corso di tale atto, senza che l stesso sia stato interrotto, avrebbe dovuto essere sentito in qualità di indagato
imputato di reato connesso o di reato collegato a norma dell’art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen.).
Sul punto il motivo di ricorso del Pubblico Ministero è fondato.
7.2. A diverse conclusioni deve invece giungersi, seppur con alcune rilevanti precisazioni, quanto alle dichiarazioni rese nel corso del dibattimento.
Al momento in cui fu sentito in giudizio, già prima di iniziare e riferire, COGNOME era un soggetto indagabile e non indagato per reato connesso o probatoriamente collegato a quelli per cui si procedeva e, dunque, al di là della formale sua iscrizio nel registro degli indagati, avrebbe dovuto essere sentito ai sensi dell’art. 210, c conseguente avviso ai sensi dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. (sul tema, per tutti Sez. U, n. 33583 del 26/03/2015, COGNOME Presti, Rv. 264479 secondo cui in tema di prova testimoniale, il mancato avvertimento di cui all’art. 64, comma terzo, lett. c), cod. pr pen., all’imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede, che avrebbe dovuto essere esaminato in dibattimento ai sensi dell’art. 210, comma sesto, cod. proc. pen., determina la inutilizzabilità della deposizione testimoniale resa senza garanzie.
7.3. E tuttavia, ciò che non è condivisibile è la decisione del Tribunale, emerso coinvolgimento nel fatto del dichiarante, di limitarsi a dichiarare inutilizzab dichiarazioni rese nel corso del giudizio, senza tuttavia provare nuovamente ad assumere ritualmente le dichiarazioni, sentendo il dichiarante con le garanzie previste dalla legge.
Sul punto il Tribunale si è limitato ad affermare che la ripetizione dell’esame sarebbe risultata inutile “trattandosi di inutilizzabilità assoluta ed insanabile… già maturata fase delle indagini”.
Si tratta di un assunto non condivisibile perché dalla invalidità dell’atto processual in quanto inutilizzabile, non discende una preclusione processuale – obiettivamente non prevista- alla rinnovazione dell’atto secondo il modello legale.
Al di là dei casi in cui la rinnovazione dell’atto invalido sia materialment giuridicamente impossibile, non vi sono preclusioni per il giudice di rinnovare l’atto.
La Corte di cassazione ha già chiarito che il giudice può procedere alla rinnovazione della prova dichiarata inutilizzabile, allorché, come nel caso di specie, l’inutilizzab derivi dalla violazione di regole attinenti all’assunzione della prova (Sez. 2, n. 23627 d 20/06/2006, COGNOME, Rv. 234997; Sez. 5, n. 24033 del 19/05/2010 Trinca Rampelin Rv. 247303; Sez. 5, n. 2912 del 12/11/2013, dep. 2014, Sheremetov, Rv. 257956.Sez. 5, n. 43596 del 17/02/2018, P, Rv. 274013).
Dunque, se è vero, che le dichiarazioni rese in dibattimento da COGNOME sono inutilizzabili, nondimeno, non era affatto precluso al Tribunale procedere a rinnovare l’atto.
Nei limiti di cui si è detto, la sentenza deve essere annullata sui punti indicati.
è invece infondato il secondo motivo di ricorso.
Dall’espressione « contraddittorio COGNOME formazione della prova » contenuta nell’art. 111, comma 4, Cost., si è fatto discendere nel tempo il fermo convincimento della inidoneità probatoria della dichiarazioni raccolte unilateralmente nell’indagin preliminare ai fini della decisione sul merito.
Quanto all’art. 195, comma 4, cod. proc. pen., il divieto attiene solo alle informazion ottenute attraverso un determinato modulo procedimentale che la norma tipizza: gli ufficiali e gli agenti di polizia non possono testimoniare “sul contenuto delle dichiarazio acquisite da testimoni con le modalità di cui agli artt. 351 e 357 comma 2 lett. a-b”.
Il divieto è doppiamente tipizzato nei suoi presupposti oggettivi, mediante i riferimento a particolari modalità di compimento che connotano solo certi atted allo status di testimone che deve attribuirsi al soggetto da cui provengono le dichiarazioni.
Nel corso dei lavori preparatori della legge n. 63 del 2001, la norma era stata formulata alla Camera dei Deputati con il rinvio alla sola lettera b) del comma 2 dell’ar 357, mentre, solo al Senato della Repubblica, si preferì aggiungere anche il riferimento alla lett. a) della norma in questione.
Il richiamo alla lettera a) del comma 2 dell’art. 357 cod. proc. pen. impedisce all polizia giudiziaria di deporre sul contenuto delle denunce, querele o istanze presentate oralmente.
Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito come il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, che il comm dell’art. 195 cod. proc. pen. stabilisce con riguardo al contenuto delle dichiarazio acquisite da testimoni con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e stesso codice, si riferisca tanto alle dichiarazioni che siano state ritualmente assunte documentate in applicazione di dette norme, quanto ai casi nei quali la polizia giudiziaria non abbia provveduto alla redazione del relativo verbale, con ciò eludendo proprio le modalità di acquisizione prescritte dalle norme medesime.
Si è aggiunto che il comma 4 dell’art. 195 cod. proc. pen. preclude la testimonianza con riguardo al contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e b) stesso codice, mentre gli “altri casi” si riferisce l’ultima parte della disposizione, per i quali la prova è ammessa secondo l regole generali sulla testimonianza indiretta, si identificano con le ipotesi in c dichiarazioni siano state rese da terzi e percepite al di fuori di uno specifico conte procedimentale di acquisizione, in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un dialogo tra teste e ufficiale o agente di po giudiziaria, ciascuno COGNOME propria qualità (Sez. U, n. 36747 del 28/05/2003, COGNOME, Rv. 225468- 469).
Gli “altri casi” di cui alla norma in esame, per i quali la prova è ammessa secondo le regole generali sulla testimonianza indiretta, si identificano cioè con le ipotesi in c
dichiarazioni siano state rese da terzi e percepite al di fuori di uno specifico contes procedimentale di acquisizione, in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un dialogo tra teste e ufficiale o agente di po giudiziaria, ciascuno COGNOME propria qualità (per tutti, cfr., Sez. 5, n. 1094 08/02/2005, Pagliuca, Rv. 231224).
La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 305 del 2008, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 195, comma 4, cod. proc. pen., “ove interpretato senso che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono essere chiamati deporre sul contenuta delle dichiarazioni rese dai testimoni soltanto se acquisite con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e b) c.p.p. e non anche nel cas in cui, pur ricorrendone le condizioni, tali modalità non siano state osservate”.
Dunque il divieto ha ad oggetto anche le dichiarazioni verbalizzabili e non verbalizzate.
La giurisprudenza successiva della Corte di cassazione ha ritenuto non rientrare nell’ambito del divieto di testimonianza indiretta per gli ufficiali ed agenti di p giudiziaria fattispecie del tutto peculiari, come la deposizione che verta su dichiarazio di un teste, raccolte mentre è accompagnato in ospedale (Sez. 5, n. 14550 del 08/11/2004, dep. 2005, COGNOME, Rv. 231100; Sez. 1, n. 41090 del 04/07/2012, COGNOME, Rv. 253374), ovvero in relazione alle dichiarazioni sulla identità degli autori di omicidio, rese COGNOME immediatezza dalla vittima del ferimento mortale, poco prima del decesso (Sez.1, n. 5965 del 11/12/2008, dep. 2009, COGNOME, Rv. 243347; Sez. 1, n. 25295 del 27/02/2014, COGNOME, Rv. 259780) o, ancora, le dichiarazioni acquisite da telefonate ricevute a numeri di emergenza (Sez. 2, n. 4800 del 18/01/2013, COGNOME, Rv, 255203), o percepite occasionalmente dalla polizia giudiziaria (Sez. 1, n. 15760 del 20/01/2017, COGNOME, Rv. 269573), ovvero relative a dialoghi cui l’ufficiale di polizi sia stato testimone diretto (Sez. 2, n. 52539 del 03/11/2016, Venneri, Rv. 268708).
L’indirizzo interpretativo seguito dalla giurisprudenza di legittimità appa sostanzialmente simmetrico alla elaborazione della dottrina, secondo cui il riferimento agli “altri casi”, nei quali il divieto di testimonianza non opera per la polizia giudi riguarda le dichiarazioni raccolte al di fuori di qualunque rapporto dialettico interno procedimento ovvero quelle acquisite all’interno del procedimento ma al di fuori delle modalità richiamate dalla norma, sempre che non si tratti di ipotesi in cui l verbalizzazione delle dichiarazioni rese dal potenziale testimone non sia dovuta in forza di una previsione normativa espressa o implicita, ovvero non sia ragionevolmente esigibile, in relazione alle circostanze del caso concreto.
9. Il Tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi in questione.
Il contenuto delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME, moglie di COGNOME, al maresciallo COGNOME era obiettivamente quello di una denuncia orale di reato, avendo la
teste riferito, da una parte, come il marito le avesse chiesto di recarsi in ospedale pe sottoporsi a prelievo ematico, così da poter scambiare le provette, e, dall’altra, come l stesso COGNOME avesse detto di recarsi in ospedale da tale NOMENOME che si era reso disponibile ad effettuare il prelievo e a scambiare le provette per la somma di 100 euro.
Ai sensi degli artt. 195, comma 4, – 357, comma 2, lett. a) cod. proc. pen., COGNOME non poteva quindi rendere testimonianza sul contenuto di quella denuncia.
Sotto altro profilo, quelle dichiarazioni, diversamente dagli assunti del Procurator ricorrente, non furono affatto rese al di fuori di qualunque rapporto dialettico interno procedimento, né furono assunte occasionalmente o in una situazione di eccezionale urgenza ovvero al di fuori di un dialogo tra ufficiale di polizia giudiziaria e teste: NOME* ricevette personalmente quelle dichiarazioni in ufficio in ragione della sua qualific soggettiva e senza che vi fosse nessuna situazione occasionale o urgente o eccezionale.
Quelle dichiarazioni avrebbero dovuto essere documentate e quindi su di esse il teste di polizia non poteva rendere testimonianza.
Ne consegue che correttamente le dichiarazioni rese dal maresciallo COGNOME sono state ritenute probatoriamente inutilizzabili.
La sentenza impugnata deve, dunque, essere annullata limitatamente alla valutazione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da COGNOME nel corso de indagini preliminari e alla assunta impossibilità di rinnovazione delle dichiarazioni rife dallo stesso COGNOME in dibattimento, ritenute, tuttavia, correttamente inutilizzab
La Corte di appello di L’Aquila, applicherà i principi indicati e formulerà un nuov giudizio sulla responsabilità dell’imputato.
P. Q. M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di L’Aquila.
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2025.