Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 15140 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 15140 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 06/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nato a BITONTO il 11/02/1970
COGNOME NOME nato a BITONTO il 19/09/1990
COGNOME NOME nato a BARI il 12/06/1980
avverso la sentenza del 08/04/2024 della Corte d’assise d’appello di Bari
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore, NOME COGNOME che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per le posizioni di NOME COGNOME e NOME COGNOME e per il rigetto del ricorso di NOME COGNOME.
uditi i difensori:
l’Avvocato NOME COGNOME per la parte civile Comune di Bitonto, ha chiesto il rigetto dei ricorsi, depositando conclusioni scritte e nota spese delle quali ha chiesto la liquidazione;
l’Avvocato NOME COGNOME per l’imputato NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
l’Avvocato NOME COGNOME per l’imputato NOME COGNOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso;
l’Avvocato NOME COGNOME per l’imputato NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La sentenza impugnata è stata deliberata 1’8 aprile 2024 dalla Corte di Assise di appello di Bari che, giudicando in sede di rinvio dopo annullamento della prima sezione penale di questa Corte, ha riformato parzialmente la decisione del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari che, in sede di rito abbreviato, aveva condannato NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME per concorso nell’omicidio di NOME COGNOME e nel tentato omicidio di NOME COGNOME, nonché nella detenzione e nel porto delle armi utilizzate, il tutto aggravato ex art. 7 I. 203 del 1991 sia quanto all’agevolazione che al metodo.
1.1. Il fatto di sangue è accaduto alle ore 8.26 del 30 dicembre 2017 e secondo la ricostruzione che si deve alle sentenze di merito – si inseriva in un contrasto tra due associazioni criminali del Comune di Bitonto, i clan COGNOME e COGNOME, dissidio teso a conseguire il predominio nella gestione delle piazze di spaccio di stupefacenti; l’agguato era stato eseguito da due appartenenti alla cosca facente capo a NOME COGNOME, oggi collaboratori di giustizia, NOME COGNOME e NOME COGNOME, che, sparando almeno diciassette colpi di pistola ad altezza uomo, avevano ferito COGNOME, esponente del clan COGNOME, ed avevano ucciso la COGNOME, che passava lì per caso.
1.2. Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari, in sede di rito abbreviato, aveva condannato COGNOME e COGNOME a venti anni di reclusione e COGNOME a quattordici di reclusione, pena quest’ultima riformata con la prima sentenza di appello, che aveva invece integralmente confermato il giudizio di responsabilità dei tre imputati.
La prima sezione penale aveva annullato quest’ultima decisione perché:
quanto alle posizioni di COGNOME e COGNOME, aveva rilevato diversi vizi motivazionali nel ragionamento probatorio circa la paternità in capo ai predetti del comando dato ai killer di uccidere qualcuno del fronte contrapposto;
quanto a COGNOME aveva reputato viziata l’argomentazione che la Corte distrettuale aveva riservato alla giustificazione della minima diminuzione di pena per la circostanza attenuante della collaborazione.
La Corte di Assise di appello, nella sentenza impugnata, ha confermato la decisione di prime cure quanto alla condanna di COGNOME e COGNOME, mentre ha
riformato in bonam partem il trattamento sanzionatorio per COGNOME portandolo ad anni dieci di reclusione.
Il quarto imputato cui erano addebitati il tentato omicidio di Casadibari, l’uccisione della Tarantino e la detenzione e il porto delle armi adoperate NOME COGNOME ha avuto la stessa sorte processuale di COGNOME e oggi non è ricorrente.
La sentenza della Corte di Assise di appello è stata impugnata da NOME COGNOME da NOME COGNOME e da NOME COGNOME a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia.
Il ricorso a firma dell’Avv. NOME COGNOME per COGNOME si compone di sette motivi.
4.1. Il primo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e vizio di motivazione e passa in rassegna le valutazioni della sentenza impugnata quanto al contributo ricostruttivo dei collaboratori di giustizia.
4.1.1. Riportando alcuni passaggi dell’atto di appello, il ricorrente lamenta innanzitutto il vaglio positivo circa la portata accusatoria delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME NOME COGNOME che aveva riferito delle confidenze ricevute da COGNOME nei giorni che vanno dal 12 al 16 gennaio 2018, in cui erano stati detenuti insieme. Il ricorrente contesta, in particolare, il valore di riscontr alle dichiarazioni di COGNOME che proverrebbe da quelle di COGNOME, perché la Corte di merito avrebbe trascurato che NOME aveva tutto l’interesse a ridimensionare la propria responsabilità anche nel dialogo con NOME, attribuendo il comando di morte a Conte, dato l’errore commesso nell’individuazione della vittima; errore che lo aveva certamente reso inviso anche agli occhi dei suoi stessi compagni di malaffare, sia per il disvalore del fatto in sé, sia per la – inevitabile – risposta investigativa che ne era scaturita.
Il ricorso prosegue evidenziando alcuni travisamenti avvenuti in tutti igradi del giudizio di merito circa le dichiarazioni di COGNOME, tra cui spicca quello secondo cui questi avrebbe affermato che NOME aveva dato telefonicamente a COGNOME l’ordine di uccidere, mentre sembrerebbe proprio che il racconto di COGNOME vada nel senso che COGNOME avesse riferito a COGNOME, COGNOME e COGNOME di un incontro di persona con NOME nel corso del quale questi gli aveva impartito il comando di morte.
Ne consegue l’illogicità della motivazione quando la Corte di merito ha affermato che il riferito di COGNOME riscontrerebbe quello di Sabba.
4.1.2. Venendo allo scrutinio delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME il ricorrente assume che la Corte di Assise di appello si sarebbe
limitata a riportare le sue propalazioni, aggiungendo sparuti commenti, ma senza avvedersi delle divergenze con il narrato di COGNOME, che l’impugnativa rievoca. Il ricorrente prosegue assumendo che la Corte distrettuale avrebbe superato semplicisticamente le difformità tra il racconto di COGNOME e quello di COGNOME, finendo per ritenere sufficiente la dimostrazione che il quartetto si era trovato sul terrazzino. Ugualmente non sarebbe rispettosa del vincolo di rinvio la notazione della decisione avversata secondo cui il contatto tra COGNOME e COGNOME era coerente con la necessità di rispettare la gerarchia, posto che quest’ultimo argomento era stato già ritenuto scarsamente probante dalla prima sezione penale. Il ricorso prosegue criticando l’interpretazione della Corte distrettuale secondo la quale era certo che la notizia della sparatoria (verosimilmente di INDIRIZZOe.) era stata data a COGNOME da NOME “il silenzioso” e censurando altresì la spiegazione data all’assenza di riscontro, sui tabulati, alla telefonata da COGNOME a Sabba; giustificazione secondo la quale COGNOME aveva passato il telefono a Sabba mentre parlava con COGNOME, che non collimerebbe con una serie di dati di fatto emergenti dalla stesse dichiarazioni di Sabba.
4.1.3. In ordine alle dichiarazioni di COGNOME, la Corte distrettuale avrebbe errato limitandosi a riportare, con qualche commento, il contenuto dei verbali della collaborazione, per poi superare le perplessità manifestate dalla prima sezione penale giustificando le discrasie con il contesto in cui COGNOME era stato ascoltato e con un problema di percezione dei movimenti di COGNOME‘COGNOME.
In definitiva, le dichiarazioni dei propalanti, anche all’esito del giudizio di rinvio, continuano a non riscontrarsi reciprocamente e a non essere confortate da riscontri esterni.
Poiché il coinvolgimento di COGNOME deriva da dichiarazioni de relato di COGNOME, sarebbe stato necessario applicare i principi di Sezioni Unite Aquilina.
4.2. Il secondo motivo di ricorso deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al versante della sentenza impugnata che riguarda i tabulati del traffico telefonico.
Nonostante la scelta del ricorrente di definire la propria posizione con rito abbreviato, la Corte territoriale aveva ampliato la base probatoria (che, ritiene il ricorrente, doveva rimanere “congelata”) e, dopo la conclusione delle parti e all’esito della camera di consiglio, aveva disposto d’ufficio l’assunzione di due nuove prove, ossia l’audizione a chiarimenti del Sovr. COGNOME sull’annotazione di p.g. del 26 marzo 2018 e sull’informativa del 9 luglio 2018 e l’incarico di perizia all’Ing. Reale affinché riferisse sulle modalità di aggancio delle celle telefoniche da parte dell’utenza con finale “252” attribuita a COGNOME, alla luce delle considerazioni della Procura della Repubblica e della consulenza tecnica della difesa. Nello svolgimento dell’incarico peritale, l’Ing. COGNOME aveva acquisito
ulteriore materiale probatorio sia presso la segreteria del pubblico ministero che presso la TIM. L’attività integrativa era consistita sia nella rilettura dei dati già i atti, sia nel recupero di atti non depositati ma presenti presso la segreteria del pubblico ministero.
4.3. Il terzo motivo di ricorso denunzia violazione di legge e vizio di motivazione ancora quanto al vaglio del materiale probatorio concernente i tabulati telefonici, l’attribuzione ai singoli utilizzatori delle utenze del circu interno e la loro localizzazione.
Ancorché la sentenza rescindente avesse indicato alla Corte del rinvio la necessità di motivare sui risultati dei tabulati e sulla prima consulenza della difesa, la decisione avversata sarebbe andata ultra petitum. Dopo aver riportato un passo della sentenza impugnata, il ricorrente dubita della validità del criterio di attribuzione a Conte dell’utenza avente finale “252” e del criterio di individuazione della telefonata tra COGNOME e COGNOME in cui sarebbe stato conferito il mandato di morte, anche perché era rimasto non accertato il veicolo informativo che aveva reso edotto Conte dell’attentato alla piazza di spaccio che avrebbe provocato la sua reazione. Quello della Corte territoriale non era altro che il tentativo di trovare un punto di incontro tra le accuse di COGNOME e COGNOME e di dimostrare che Conte avesse in uso l’utenza “252”-
Il ricorrente, a seguire, oltre a ribadire le riserve sull’accertamento compiuto dal perito nominato dalla Corte di Assise di appello, lamenta travisamento della prova per omissione per avere la Corte medesima completamente ignorato il secondo elaborato tecnico della difesa, a firma dell’Ing. COGNOME
4.4. Il quarto motivo di ricorso lamenta vizio di motivazione e violazione di legge circa la qualificazione giuridica dei fatti, rispettivamente, come omicidio e tentato omicidio, tema – affrontato nel terzo motivo dei ricorsi dell’Avv. COGNOME e dell’Avv. COGNOME e oggetto del secondo motivo di appello di quest’ultimo avvocato – dichiarato assorbito dalla Corte di cassazione in sede di annullamento con rinvio.
La risposta della sentenza impugnata sul punto – secondo la quale le condizioni del comando impartito da NOME evidenziavano il suo concorso nei reati così come contestati – sarebbe apodittica e manifestamente illogica perché presupporrebbe la certezza sul contenuto di detto comando e sul fatto che quest’ultimo dovesse essere attuato da due persone e con armi micidiali, come ritenuto dalla Corte distrettuale. COGNOME, al contrario, si era limitato ad affermare che, a detta di NOME, avrebbero dovuto uccidere «qualsiasi persona che noi trovavamo davanti», mentre COGNOME aveva riferito che COGNOME aveva ordinato genericamente di «sparare». La Corte territoriale avrebbe altresì omesso di motivare circa le ragioni del mancato conferimento di incarico per una perizia
balistica onde accertare se il proiettile che aveva attinto la COGNOME fosse stato sparato non già da COGNOME e COGNOME, ma da un esponente del clan COGNOME.
4.5. Il quinto motivo di ricorso lamenta vizio di motivazione e violazione di legge quanto alla circostanza aggravante del metodo mafioso, tema che sarebbe stato affrontato dalla Corte di Assise di appello con il mero richiamo a un’informativa di ben tredici anni antecedente rispetto ai fatti. Quanto al metodo, non sarebbe stata dimostrata la riconducibilità a Conte della scelta di realizzare un’azione pubblica ed eclatante; riguardo all’agevolazione, non era emersa la natura mafiosa del sodalizio (trattandosi solo di un gruppo di persone che commerciavano in stupefacenti), né il dolo intenzionale in capo a COGNOME, non potendosi ritenere che quest’ultimo fosse consapevole dello scopo di COGNOME e COGNOME di dominare la piazza di spaccio.
4.6. Il sesto motivo di ricorso denunzia violazione di legge e vizio di motivazione quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche, la cui richiesta è stata completamente trascurata dalla Corte distrettuale.
4.7. Il settimo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio, perché la Corte di Assise di appello non ha spiegato le ragioni dell’aumento ex art. 82, comma 2, cod. pen., dei singoli aumenti per continuazione e dell’applicazione dell’art. 99, comma 3, cod. pen. Quanto a quest’ultimo aspetto, la sentenza impugnata non conterrebbe una motivazione adeguata, benché sollecitata dall’appello.
Il ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME è a firma dell’Avv. NOME COGNOME e conta tre motivi
5.1. Il primo motivo di ricorso lamenta vizio di motivazione e violazione di legge in quanto la Corte distrettuale si sarebbe discostata dal dictum della sentenza rescindente ed avrebbe “riabilitato” i contributi dichiarativi di COGNOME, Sabba e COGNOME, senza emendare i vizi all’interno di ciascun riferito. La stessa Corte di merito – prosegue il ricorrente – è stata costretta ad ammettere che vi è una contraddizione tra le dichiarazioni di COGNOME e quelle di Sabba. A differenza di quest’ultimo, infatti, COGNOME ha collocato COGNOME sul teatro del raid di INDIRIZZO e non all’interno del terrazzo di INDIRIZZO e non ha menzionato la telefonata di COGNOME, ma ha sostenuto che COGNOME si sarebbe recato personalmente ad avvisare quest’ultimo e che, solo dopo questo incontro, COGNOME avrebbe annunciato il programma ritorsivo ai danni dei componenti della fazione antagonista. Sarebbe illogica la motivazione della Corte di merito secondo la quale, se il racconto fosse stato calunnioso, i dichiaranti si sarebbero adeguati alla versione di COGNOME riportata nell’ordinanza cautelare emessa nei loro confronti. A seguire il ricorrente sostiene che la genesi inquinata del percorso
collaborativo di COGNOME e COGNOME, pentitisi dopo COGNOME, avrebbe dovuto imporre una particolare cautela valutativa, soprattutto al fine di sciogliere il nodo delle divergenze delle loro dichiarazioni con quelle di quest’ultimo. COGNOME – assume il ricorrente – aveva compreso che la dilatazione dei tempi dettata dalla ricostruzione di COGNOME non era credibile, sicché aveva concentrato tutto in pochi momenti, collocando COGNOME sul terrazzo di INDIRIZZO e materializzando l’intervento di COGNOME mediante la telefonata. La Corte di merito – prosegue il ricorso – avrebbe omesso di adeguarsi al mandato della sentenza rescindente, cercando di sanare le incongruenze mediante una lettura atomistica e parziale del dato probatorio. Il ricorrente aggiunge che, dall’esame dei tabulati, non emergerebbe la sequenza di contatti prima tra NOME “il silenzioso” e COGNOME e poi tra Conte a COGNOME. Inoltre i tempi delle due telefonate, comparati a quelli descritti da COGNOME, non sarebbero compatibili con l’orario in cui si era verificata la sparatoria. Peraltro lo stesso COGNOME aveva negato di avere ascoltato la telefonata tra COGNOME e COGNOME ed aveva affermato che quest’ultimo era stato convocato da COGNOME a casa sua e che era poi tornato sul terrazzo dopo 10-15 minuti, quindi dopo le 8.26, orario della sparatoria. La Corte di merito affronta il tema asserendo che non sarebbe stato certo che COGNOME avesse raggiunto casa di COGNOME, ma allora – opina il ricorrente – non si spiegherebbe perché si era allontanato dal terrazzo (i filmati della videosorveglianza di casa COGNOME avevano escluso che COGNOME fosse ivi giunto), peraltro dando luogo a una condotta imprudente, dato lo scontro in atto. Il racconto di COGNOME sarebbe del tutto diverso, perché questi aveva riferito che COGNOME aveva ricevuto una prima telefonata, sull’utenza dedicata, in cui aveva saputo del raid a INDIRIZZO e poi una seconda telefonata, che COGNOME aveva riferito provenire da COGNOME, in cui gli sarebbe stato ordinato di sparare a chiunque avessero incontrato del clan avverso. E comunque anche questa telefonata sarebbe giunta dopo l’orario della sparatoria mortale. Per risolvere il contrasto, la Corte di merito avrebbe adottato una motivazione manifestamente illogica, sostenendo che non si sapeva se COGNOME avesse effettivamente raggiunto l’abitazione di Conte. E allora non si spiegherebbe perché sarebbe stato necessario detto allontanamento, visto che il mandato di morte era stato già conferito, e perché COGNOME avrebbe dovuto allontanarsi di poco dal gruppo per parlare al telefono con COGNOME Consapevole della discrasia, COGNOME aveva introdotto un altro elemento, vale a dire quello della telefonata a lui di COGNOME, nel corso della quale il ricorrente gli avrebbe ribadito il mandato già conferito a COGNOME. Tale dato sarebbe sconfessato da vari elementi: 1) dalla perizia Reale, ove non vi sarebbe riscontro di questa telefonata sul telefono di COGNOME, 2) non vi sarebbero state ragioni per ribadire il comando già dato a COGNOME, 3) COGNOME non sapeva nulla di questa ulteriore telefonata. Per Corte di Cassazione – copia non ufficiale
contrastare la discrasia con i tabulati, la Corte territoriale formula un’ipotesi del tutto congetturale, vale a dire che NOME non avesse chiamato anche COGNOME, ma che COGNOME gli avesse passato il suo telefono. Il ricorrente passa, quindi, a denunziare un’altra anomalia, cioè il silenzio di COGNOME sulle telefonate precedenti che la sua utenza aveva intrattenuto con la “252” attribuita a Conte prima delle ore 8. Sarebbe manifestamente illogico – aggiunge, ancora, il ricorrente – il tentativo della Corte di ricucire lo strappo tra le dichiarazioni dei collaboratori sulla base del tempo passato, elemento che già la Corte di cassazione aveva svalutato come giustificazione. Neanche sarebbe valido il ragionamento secondo cui il comando di COGNOME si atteggerebbe quale reazione immediata all’attacco alla roccaforte di INDIRIZZO da parte dei Cipriano, posto che non risulta che Conte ne avesse avuto conoscenza prima che avvenissero l’uccisione della COGNOME e il ferimento di Casadibari.
Il ricorrente prosegue affermando che la Corte territoriale non si sarebbe confrontata con tutte le prove che smentiscono l’esistenza di un’organizzazione gerarchica alla cui sommità vi erano COGNOME e COGNOME. In particolare, la Corte di Assise di appello avrebbe trascurato la sentenza di assoluzione di COGNOME per un’aggressione armata ai danni di un avversario per la quale pure era stato accusato da COGNOME e COGNOME, sentenza prodotta ex art. 238-bis cod. proc. peri. Inoltre né COGNOME né COGNOME compaiono quali ideatori degli episodi cruenti anteriori alla sparatoria delle 8.26. Non costituirebbe valido riscontro l’intercettazione ambientale a casa di NOME COGNOME del 2 gennaio 2018, allorché COGNOME era andato ad informarsi della sua convocazione in Questura e si era mostrato a conoscenza degli accadimenti, giacché già la prima sezione penale aveva svalutato la portata accusatoria di tale elemento in quanto, a quella data, la notizia della sparatoria e dell’identità dei protagonisti era stata già diffusa dai mass media. Secondo il ricorrente, piuttosto, gli elementi di prova depongono per un’iniziativa autonoma di Sabba e COGNOME, da poco accolti nel gruppo e desiderosi di accreditarsi con i sodali.
Altre incongruenze – eloquenti del tentativo di ridimensionare la propria responsabilità e dell’iniziativa autonoma di Sabba e COGNOME – sarebbero costituite: 1) dal ruolo descritto da ciascuno dei due nella fase della sparatoria, 2) dall’allontanamento di COGNOME e COGNOME dal terrazzo senza attendere il rientro dei killer, 3) dal mancato resoconto a Conte circa l’esito della sortita e 4) dal mancato aiuto da parte di altri esponenti del gruppo dopo l’agguato, quando i due killer si erano gestiti da soli. In ordine al suggerimento di COGNOME di bruciare le pistole, i racconti dei due collaboratori divergerebbero quanto alla presenza di COGNOME al colloquio, peraltro poco credibile se si pensa alla cautela che Conte normalmente usava nel parlare in ambienti chiusi per paura di microspie, al fatto
che questi non si era comunque attivato per concretizzare lo scioglimento delle pistole, alla circostanza che non era stato informato del buon esito di questa operazione e, infine, al silenzio registrato sul punto nelle intercettazioni di Sabba. Ancora: nell’intercettazione del 2 gennaio 2018, Conte aveva chiesto alcune informazioni che avrebbero dovuto già essere in suo possesso se si ritiene che avesse già parlato con i sodali delle pistole.
Il ricorso ricorda, quindi, che, la mattina del 30 dicembre 2017, si era già verificata una serie di scontri tra i due clan e che il terrazzo dove si erano riuniti gli appartenenti al clan COGNOME era circondato dagli avversari, il che aveva sicuramente generato un clima di grande fibrillazione, che aveva potuto condurre all’adozione, da parte di COGNOME e COGNOME, della scelta autonoma di attuare il raid armato, le cui modalità evidenziano lo stato emotivo dei due protagonisti.
5.3. Il terzo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e vizio di motivazione.
5.3.1. La Corte distrettuale non avrebbe risposto alle censure concernenti la richiesta di ritenere il concorso anomalo a carico di COGNOME.
Innanzitutto mancherebbe la prova che COGNOME avesse dato mandato di colpire mortalmente un esponente del clan COGNOME. In secondo luogo, sarebbe certo che COGNOME e COGNOME non si fossero mossi con questo intento in quanto lo stesso COGNOME aveva affermato che la loro voleva essere solo un’azione
dimostrativa. Il ricorso indulge, quindi, su una serie di riflessioni teoriche sull’istituto del concorso anomalo e sulle differenze con quello pieno, per poi concludere che a COGNOME e COGNOME non può essere mosso un addebito nel senso di sicura e incondizionata accettazione preventiva dei quanto poi sarebbe successo.
Nello stesso motivo vi è anche un accenno alla necessità di operare una riqualificazione del tentato omicidio ai danni di Casadibari in lesioni aggravate.
5.3.2. In ordine alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., laddove si giungesse alla conclusione che l’accaduto sia stato il frutto di un’iniziativa estemporanea di Papaleo e Sabba, verrebbe meno il substrato necessario per un addebito soggettivo. La ragione di ricorso sul punto si conclude con una riflessione teorica sui presupposti dell’aggravante.
5.3.3. Venendo, infine al trattamento sanzionatorio, secondo il ricorrente la Corte di merito non avrebbe dato conto dei criteri adottati.
6. Il ricorso per NOME COGNOME è a firma dell’Avv. NOME COGNOME.
L’unico motivo di ricorso deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio, perché la Corte di merito non avrebbe espunto dal calcolo della pena l’aumento per l’aggravante mafiosa, nonostante l’incompatibilità di quest’ultima con l’attenuante della collaborazione, che gli era stata riconosciuta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME sono fondati nei termini di seguito precisati. Il ricorso di NOME COGNOME, invece, è infondato e va, quindi, respinto.
L’esame dei ricorsi di COGNOME e COGNOME può essere congiunto, dal momento che le riflessioni che hanno condotto anche questo Collegio di legittimità – così come era stato per la prima sezione penale – a reputare viziata la sentenza di appello riguardano profili di rilievo comune, che pregiudicano la tenuta della pronunzia quanto ad entrambe le posizioni.
E’ possibile riservare solo qualche accenno alla sequenza degli antefatti alla sortita omicida di Papaleo e Sabba, dal momento che si tratta di un tema adeguatamente ricostruito processualmente e sul quale non vi sono questioni.
Come già accennato al § 1.1 del ritenuto in fatto, il fatto di sangue è accaduto alle ore 8.26 del 30 dicembre 2017 a Bitonto e – secondo la ricostruzione che si deve alle sentenze di merito – si inseriva in un contrasto tra
due associazioni criminali di quella località, i clan COGNOME e COGNOME, dissidio teso a conseguire il predominio nella gestione delle piazze di spaccio di stupefacenti.
L’agguato era stato preceduto da una serie di azioni violente e dimostrative tra esponenti delle due cosche, sia nei giorni immediatamente precedenti il 30 dicembre 2017 che quella mattina stessa. In particolare, alle ore 6.30, NOME COGNOME, del clan COGNOME, aveva sparato dei colpi di arma da fuoco contro il portone di NOME COGNOME, soggetto riconducibile ai COGNOME; alle ore 6.50, era stata sfondata la porta dell’abitazione di COGNOME e, alle ore 8.16, appartenenti al clan COGNOME avevano effettuato un raid presso uno stabile di INDIRIZZO – ove avevano abitato esponenti del clan Conte e dove aveva sede una delle loro piazze di spaccio – sparando trenta colpi di arma da fuoco.
In quegli stessi frangenti, alcuni appartenenti al clan COGNOME (NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) si erano riuniti sul terrazzo di un’abitazione alla INDIRIZZO Secondo le conclusioni cui sono giunti i Giudici di merito, era stato in quel luogo che era giunto l’ordine di NOME di sparare a chiunque appartenesse al clan avverso, quale reazione alla sparatoria di INDIRIZZO; ordine veicolato da COGNOME ai presenti e confermato telefonicamente da NOME a COGNOME e che aveva indotto quest’ultimo e NOME COGNOME ad intraprendere la spedizione punitiva, che si era conclusa tragicamente. I due si erano imbattuti in alcuni accoliti del clan COGNOME, tra cui NOME COGNOME ed avevano sparato diciassette colpi di arma da fuoco ad altezza uomo, che però non avevano attinto solo l’obiettivo avuto di mira, che pure era rimasto gravemente ferito, ma anche NOME COGNOME una donna che si trovava lì per caso e che era stata colpita a morte.
Nel corso delle indagini, sia COGNOME che COGNOME avevano intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia ed avevano reso dichiarazioni sia auto che eteroaccusatorie quanto ai delitti per cui si procede e alla paternità del comando omicida in capo a COGNOME e a COGNOME. Alle loro dichiarazioni, si affiancano quelle del collaboratore di giustizia NOME Antonio COGNOME che aveva raccolto le confidenze di COGNOME prima che questi si pentisse, nei quattro giorni in cui erano stati detenuti insieme, dal 12 al 16 gennaio 2018.
Un altro flusso di informazioni utilizzate per la decisione della Corte di Assise di appello oggi al vaglio del Collegio proviene dall’analisi dei tabulati telefonici, valorizzata nella sentenza di appello bis; tale analisi ha consentito – si legge nella sentenza impugnata – di accertare l’esistenza di un sistema di utenze a circuito chiuso che comunicavano solo tra loro e di cui erano muniti alcuni tra gli accoliti del gruppo Conte e di attribuire alcune utenze “dedicate” ad altrettanti protagonisti dei fatti, di localizzarle e di individuarne i contatti reciproci nelle fa dell’agguato.
Tanto premesso, il fulcro della decisione odierna è la ricostruzione dei Giudici di merito quanto alle fasi – indiscutibilmente cruciali – in cui il gruppo degli associati al clan COGNOME si era riunito sul terrazzino di INDIRIZZO ed in cui era maturata la decisione di COGNOME e COGNOME di andare a sparare contro gli avversari.
Assodata la responsabilità dei due killer COGNOME e COGNOME – entrambi rei confessi e condannati – il nodo da sciogliere era e resta quello di stabilire se e chi diede loro l’ordine di effettuare la sortita armata contro gli appartenenti al clan COGNOME a cui è seguita, oltre che il ferimento di Casadibari, anche la tragica fine della signora COGNOME. E non vi è dubbio che la soluzione di questo interrogativo passa attraverso la ricostruzione probatoria di quanto accadde su quel terrazzino nei minuti immediatamente precedenti le ore 8.26 del 30 dicembre 2017, tema rispetto al quale sono assolutamente centrali le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
Su questo aspetto si era concentrata particolarmente la prima sezione penale allorché aveva individuato, nella sentenza di appello allora al vaglio della Corte di cassazione, anomalie argomentative per quanto concerne il riverbero delle discrasie tra il narrato dei tre collaboratori di giustizia che avevano riferito sul fatto – COGNOME COGNOME e COGNOME – sulla prova del coinvolgimento, quali concorrenti morali, anche di COGNOME e COGNOME, che alla sortita non parteciparono personalmente.
La prima sezione penale, in particolare, aveva valutato negativamente il tentativo di semplificazione e schematizzazione attuato dalla prima Corte di appello, che aveva condotto a un travisamento delle dichiarazioni rese da ciascuno degli accusatori, anche viste in una prospettiva diacronica lungo tutto il corso delle loro ripetute audizioni. La sentenza rescindente, inoltre, aveva reputato «assai poco convincente» il riferimento all’agitazione del momento e al tempo intercorso tra i fatti e la raccolta delle dichiarazioni – reputato non significativo ad inquinare il ricordo – quali argomenti per spiegare le discrasie rilevate.
Non era chiaro, più precisamente, il momento in cui COGNOME e COGNOME erano giunti sul terrazzino ma, soprattutto, le versioni dei dichiaranti divergevano quanto alle telefonate di Conte ricevute da COGNOME attraverso le quali era stato convocato ovvero era stato impartito il comando di morte e su «quando le avrebbe ricevute, quante ne avrebbe ricevute, dove si trovava quando le aveva ricevute».
La versione di COGNOME – aveva osservato la sentenza rescindente – era incompatibile con i tempi del raid di INDIRIZZO prima e di quello mortale dopo ed
era confliggente con quella di Sabba, perché il primo aveva affermato che COGNOME non si era mosso dal sito e aveva ricevuto le telefonate mentre si trovava con gli altri, COGNOME aveva, invece, affermato che COGNOME era stato convocato da COGNOME, si era allontanato ed era poi tornato per riferire dell’ordine del capo di andare a sparare a chiunque dei Cipriano avessero trovato; COGNOME, dal canto suo, aveva affermato – per averlo saputo da Sabba – che COGNOME era giunto sul terrazzo provenendo dalla zona della sparatoria di INDIRIZZO e dopo aver già ricevuto l’ordine di COGNOME.
Di fronte a queste anomalie – scriveva la prima sezione penale – non reggeva innanzitutto l’argomento logico secondo il quale le discrasie sarebbero state sintomatiche della genuinità del narrato dei collaboratori, ed era, anzi, incombente il pericolo di una tesi preconfezionata, visto che sia COGNOME che COGNOME avevano potuto apprendere quale fosse il costrutto accusatorio dall’ordinanza cautelare emessa nei loro confronti, dove era tratteggiato il ruolo anche di COGNOME e COGNOME, all’epoca non interessati dall’iniziativa restrittiva per mancanza di riscontri alle dichiarazioni di COGNOME unico già collaborante.
Non costituiva un riscontro neanche l’intercettazione del 2 gennaio 2018 tra NOME COGNOME e COGNOME in cui questi si mostrava a conoscenza dei ruoli rivestiti da ciascuno nell’agguato, il che – si legge nella sentenza di annullamento con rinvio – non doveva ritenersi sorprendente per chi era il capo della compagine ed era stato certamente al centro del flusso informativo che era conseguito al fatto; lo stesso dicasi per le indicazioni di COGNOME sulla distruzione delle pistole.
Secondo la prima sezione penale, infine, non era sufficiente a riscontrare il narrato dei collaboratori di giustizia neanche l’argomento logico secondo cui la struttura verticistica della cosca, facente capo a Conte, non avrebbe consentito iniziative estemporanee dei singoli, dato che questa regola era stata violata due volte in relazione ad alcune iniziative assunte proprio in occasione dello scontro con i COGNOME.
Ora, pur prendendo atto di un più che apprezzabile sforzo argomentativo della Corte di Assise di appello e dello sviluppo delle potenzialità probatorie dei tabulati sulle utenze del sistema di comunicazione a circuito chiuso ideato da Conte (cfr. infra § 6), la nuova sentenza non ha superato le crepe logiche e argomentative già segnalate nella prima pronunzia di annullamento quanto alla ricostruzione di ciò che accadde nei minuti che precedettero l’agguato mortale, con particolare riferimento al ruolo rivestito in quella fase da COGNOME e da Conte.
La loro responsabilità fonda, infatti, sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia COGNOME e COGNOME in ordine a quel limitato lasso di tempo, nell’ambito del quale – come anche affermato dal Procuratore generale in sede quando ha
illustrato le ragioni per cui ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata – hanno un grandissimo rilievo discrepanze temporali e ricostruttive che possono apparire minime, ma che diventano assolutamente cruciali quando tutto si gioca proprio sul filo dei minuti.
Da questo punto di vista, va ricordato che gli insegnamenti di questa Corte sulla convergenza del molteplice quando si tratta di valutare il reciproco riscontro tra dichiarazioni di diversi accusatori tengono conto della necessità di dare rilievo, oltre che al nucleo essenziale del racconto, anche ad aspetti circostanziali, laddove essi appaiano centrali nell’economia del giudizio di responsabilità.
In questo senso si ricorda che la giurisprudenza di questa Corte è concorde nel sostenere che di riscontro reciproco tra dichiarazioni di più accusatori si può parlare quando esse convergano sul nucleo essenziale del narrato, rimanendo quindi indifferenti eventuali divergenze o discrasie che investano soltanto elementi circostanziali del fatto, a meno però che tali discordanze non siano sintomatiche di un’insufficiente attendibilità dei chiamanti stessi (Sez. U., n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, COGNOME e altri, Rv. 255145; Sez. 1, n. 17370 del 12/09/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 286327 – 01; Sez. 1, n. 7643 del 28/11/2014, dep. 2015, COGNOME e altro, Rv. 262309; Sez. 1, n. 34102 del 14/07/2015, COGNOME e altro, Rv. 264368). In tali pronunce si è affermato che il “nucleo essenziale” della propalazione deve essere individuato e apprezzato non già in termini astratti dal contesto delle rappresentazioni, con esclusivo e limitato riferimento all’azione tipizzata dalla norma incriminatrice, bensì in rapporto allo specifico fatto materiale oggetto dalla narrazione nella sua interezza e alla stregua del rilievo assegnato dal dichiarante, nell’impianto narrativo, agli accadimenti, ai fatti, alle circostanze evocate.
Ciò posto, occorre domandarsi quale sia, nel percorso ricostruttivo del ruolo avuto da COGNOME e da COGNOME nella genesi dei delitti per cui si procede, il nucleo centrale del racconto e quali elementi possano essere classificati come circostanziali per poi vagliarne il “peso” nel vaglio di attendibilità delle accuse.
In questa direzione, il Collegio ritiene che se, indubbiamente, il cuore della ricostruzione sia l’ordine impartito da COGNOME, tramite COGNOME, di andare a sparare – tema su cui tutti e tre i collaboratori di giustizia convergono – il dato circostanziale di quando e come questi comandi siano stati impartiti assume tuttavia anch’esso un rilievo cruciale nel tratteggiare le responsabilità dei due ricorrenti, in quanto le differenze – ove non razionalmente giustificate possono essere sintomatiche di un mendacio, che va necessariamente e
decisamente escluso prima di poter fondare un giudizio di responsabilità, oltre ogni ragionevole dubbio, del soggetto accusato.
Ebbene, le discrasie già rilevate dalla prima sezione penale non sono state superate neanche nel secondo giudizio di appello e la decisione avversata non offre una motivazione non manifestamente illogica che le spieghi e le neutralizzi, in ciò sottraendosi al vincolo di rinvio rinveniente dalla sentenza di annullamento, che imponeva di non ripetere i medesimi errori argomentativi della prima sentenza della Corte di Assise di appello.
5.1. Innanzitutto non si comprende quale sia il peso attribuito dalla Corte distrettuale alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia COGNOME rispetto alle quali la stessa sentenza impugnata non tace elementi di divergenza anche con le dichiarazioni di COGNOME, ossia proprio il soggetto da cui COGNOME, in occasione della comune detenzione, aveva ascoltato il racconto; divergenze concernenti l’allontanamento di COGNOME dal terrazzo di INDIRIZZO e la sparatoria ad opera di “NOME il silenzioso” e NOME contro i COGNOME e che la Corte di merito liquida sbrigativamente come frutto di una «verosimile confusione».
In secondo luogo l’argomentazione secondo la quale COGNOME non avrebbe avuto interesse a mentire al compagno di cella e sodale COGNOME – adoperata dalla Corte territoriale per escludere che la confidenza di COGNOME a quest’ultimo potesse non essere genuina – perde di concludenza laddove sembrerebbe processualmente accertato che l’uccisione della COGNOME aveva generato ampi malumori nel clan, non foss’altro che per il conseguente, particolare attivismo degli inquirenti. Il che avrebbe potuto determinare, in capo al killer, la volontà di descriversi agli occhi del sodale come mero esecutore di un ordine impartito dall’alto.
5.2. Passando, poi, ai contributi dei due principali accusatori degli odierni ricorrenti, cioè i collaboratori di giustizia e autori materiali dei fatti NOME COGNOME è rimasta insuperata la divergenza circa il percorso seguito dal mandato omicidiario prima di giungere loro.
COGNOME, infatti, ha sempre affermato e ribadito che COGNOME fu chiamato al telefono da COGNOME dopo la sparatoria di INDIRIZZO – di cui COGNOME aveva già saputo da NOME “il silenzioso” – e fu convocato al suo cospetto, che si allontanò effettivamente anche se per poco e che, al suo ritorno, affermò che il boss aveva ordinato di sparare a qualsiasi avversario avessero trovato.
COGNOME, invece, ha sempre dichiarato che COGNOME aveva riferito loro di quanto accaduto a INDIRIZZO (per averlo appreso grazie ad una telefonata di cui il collaboratore non aveva saputo indicare la provenienza) e che, dopo 10/15 minuti, COGNOME lo aveva contattato telefonicamente e, come COGNOME aveva poi
immediatamente riportato ai presenti, aveva ordinato di uccidere; COGNOME – ha sempre affermato e ribadito COGNOME – non si era mai allontanato dal terrazzo.
Ebbene, la decisione avversata non resiste alle critiche dei ricorrenti quando liquida, con l’esistenza di un «via vai» sul terrazzo di INDIRIZZO la divergenza tra le due narrazioni circa la presenza o l’allontanamento di COGNOME da quel luogo, giudicando come «possibile» una percezione diversa dei movimenti di quest’ultimo, visto che COGNOME aveva parlato di un allontanamento non prolungato. La risposta, infatti, è assertiva e affida a un ragionamento semplicistico e meramente ipotetico una spiegazione che, invece, avrebbe dovuto trovare una chiave di lettura razionale ed oggettiva della divaricazione ricostruttiva su un dato tanto significativo quale quello dei movimenti del soggetto che si sarebbe fatto latore proprio del comando da cui – secondo la tesi esposta – tutto aveva preso l’abbrivio.
Ugualmente irrisolta è rimasta l’incongruenza interna alla rievocazione di COGNOME, pure già segnalata dalla prima sezione penale, a proposito del lasso di tempo intercorso tra la telefonata con cui COGNOME fu informato della sparatoria di INDIRIZZO e la telefonata in cui ricevette l’ordine di sparare da parte di COGNOME, incompatibile con i dieci minuti che sono trascorsi tra la prima (ore 8.16) e la sparatoria contro Casadibari e la Tarantino (ore 8.26); a questo riguardo è di immediata evidenza il fatto che detto intervallo temporale deve tenere conto anche dei tempi di conoscenza del primo avvenimento da parte di COGNOME e COGNOME e di quelli occorrenti ai killer COGNOME e COGNOME per allontanarsi dal terrazzino di INDIRIZZO e giungere sul luogo dove si trovava Casadibari.
La Corte di merito l’ha neutralizzata con una duplice argomentazione.
Da una parte, ha sibillinamente affermato che si tratta di «incongruenze di minuti», così però trascurando di considerare che, come si è accennato in premessa, il giudizio sulla responsabilità concorsuale di COGNOME e COGNOME si gioca proprio sul filo dei minuti e dell’esatta ricostruzione di come e quando l’ordine di uccidere arrivò ai killer; dall’altra ha reputato che i tre mesi trascorsi tra i fatti le dichiarazioni del collaboratore di giustizia non sarebbero stati «proprio irrilevanti» nell’ottica della precisione della dichiarazione, così adoperando un argomento logico/valutativo che la prima sezione penale aveva reputato non corretto.
Insoddisfacente è anche la prospettiva della Corte di appello quanto alla telefonata che COGNOME ha riferito di avere ricevuto da NOME COGNOME con la quale questi gli avrebbe confermato il mandato ad uccidere già veicolato tramite COGNOME pochi istanti prima.
La Corte territoriale, a questo riguardo, ha infatti svalutato la rilevanza difensiva della mancata conferma della telefonata da parte di COGNOME e del mancato riscontro, nei tabulati sulle utenze “citofono” (cfr. infra), della telefonata predetta. Orbene, a questo proposito, sono le stesse espressioni adoperate dalla Corte distrettuale che tradiscono l’ipoteticità del ragionamento svolto. I Giudici di appello, infatti, hanno ritenuto logicamente sostenibile l’ipotesi degli investigatori secondo la quale COGNOME «dopo aver parlato con Conte, potrebbe aver passato il telefono a COGNOME NOME» ed hanno sostenuto che «non è inimmaginabile che un’utenza passasse dalle mani di uno a quelle dell’altro» sulla scorta del legame associativo che li univa. Queste affermazioni, tuttavia, si risolvono in una spiegazione apodittica ed ipotetica di un dato di fatto oggettivamente smentito da altri dati processuali, primo fra tutti la stessa narrazione di COGNOME, che aveva affermato e ribadito che quella telefonata era giunta sulla sua utenza, peraltro tacendo di altre due telefonate ricevute da COGNOME poco prima.
5.3. Quanto al compendio diverso da quello dichiarativo, infine, appare violativo del vincolo di rinvio l’avere “ripescato”, quale dato a carico, un elemento che già la prima sezione penale svalutato; si tratta della conversazione intercettata in ambientale il 2 gennaio 2018 allorché COGNOME si era recato da NOME COGNOME per conoscere i dettagli della sua convocazione da parte degli inquirenti, conversazione che la Corte di merito ha nuovamente valorizzato, ritenendo che gli esiti della rinnovazione istruttoria, avendo “riabilitato” i contributi dei collaboratori, fornendo loro riscontro, ne consentissero una rivalutazione. La Corte territoriale ha però trascurato di considerare che la prima sezione penale aveva reputato manifestamente illogico il ragionamento probatorio che fondava su tale captazione, giacché la conoscenza dei fatti in capo a Conte poteva avere un’altra, ragionevole spiegazione, vale a dire che il boss aveva appreso dei fatti grazie al flusso informativo generatosi dopo il fatto e alla sua primazia nel clan.
6. Il Collegio non ha trascurato, nel vagliare i ricorsi, che la Corte di Assise di appello, raccogliendo uno degli input della sentenza rescindente, ha dato luogo ad una rinnovazione istruttoria, anche attraverso il conferimento di incarico peritale, onde approfondire il tema dei tabulati e dell’analisi del traffico telefonico. Da questo punto di vista, la sentenza impugnata si sottrae alle critiche dei ricorrenti per due ragioni.
La prima è che la doglianza di NOME COGNOME secondo la quale la rinnovazione non sarebbe stata possibile perché, in primo grado, il procedimento era stato definito con rito abbreviato, postula un’applicazione errata delle norme
del codice di rito, laddove la rinnovazione è ben possibile, alle condizioni di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., anche nel caso di rito alternativo.
Neanche possono avere seguito le censure che il ricorso di Conte indirizza verso l’attività del perito – perché questi avrebbe acquisito documentazione presso la segreteria del pubblico ministero e presso i gestori telefonici – giacché l’ausiliario del giudice può utilizzare, per l’espletamento del proprio mandato, anche documentazione non inserita nel fascicolo del dibattimento.
E’, quindi, pienamente utilizzabile il risultato dell’attività svolta ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen., attività che ha fatto emergere l’esistenza di un circuito “dedicato” di telefoni e utenze in uso esclusivo di alcuni dei sodali, i quali le utilizzavano solo per comunicare tra loro, a mò di citofoni, onde sfuggire alle intercettazioni. Ed è innegabile che la Corte di merito, con un percorso argomentativo completo e immune da falle logiche, ha spiegato perché la telefonata giunta sul telefono di COGNOME alle ore 8.19 dall’utenza “dedicata” con finale “252” provenisse da NOME e, più a monte, le ragioni per cui l’utenza predetta potesse essere abbinata a quest’ultimo. Tale scrutinio è avvenuto con dovizia di particolari e tenendo conto delle obiezioni tecniche degli esperti delle parti, anche con riferimento al punto indubbiamente critico, vale a dire quello di un apparente allontanamento tra l’utenza ufficiale e quella fantasma di NOME, aspetto che ha ricevuto, però, nella sentenza impugnata, un’adeguata chiarificazione (quanto alla sovrapposizione parziale tra le celle cui erano agganciate le due utenze, al possibile slittamento tra le celle e all’arrivo del messaggio SMS subito dopo l’apparente allontanamento mediante utilizzo della stessa cella del telefono ufficiale). A questo riguardo, entrambi i ricorsi, pur densi di considerazioni critiche, finiscono per non portare alla sentenza impugnata una censura specifica, in quanto omettono di confrontarsi con il complesso del ragionamento sviluppato sul punto dai Giudici di appello Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Tanto, però, non esclude la necessità di annullare nuovamente la decisione avversata, in quanto la sola prova che vi era stata una telefonata da COGNOME a COGNOME a quell’ora, se pure milita nella direzione dell’ipotesi accusatoria, non è un elemento in grado di chiarire le anomalie rilevate nel racconto dei collaboratori e di rassicurare circa l’attuazione di uno scrutinio completo della loro credibilità e dell’affidabilità dei loro racconti, cui non può sostituirsi il dato tecnico accertato, idoneo solo a fungere da riscontro rispetto ad un narrato che sia però già verificato e validato.
Viste le ragioni dell’annullamento, la Corte di assise di appello dovrà riesaminare per intero la regiudicanda con pieni poteri di cognizione e senza la necessità di soffermarsi sui soli punti oggetto della pronunzia rescindente,
rispetto ai quali, tuttavia, dovrà evitare di incorrere nuovamente nei vizi rilevati, fornendo in sentenza adeguata motivazione in ordine all’iter logico-giuridico seguito (Sez. 5, n. 33847 del 19/04/2018, COGNOME e altri, Rv. 273628; Sez. 5, n. 34016 del 22/06/2010, COGNOME, Rv. 248413).
Gli altri motivi di ricorso di COGNOME e COGNOME sono assorbiti. In particolare, quanto a quelli sulla qualificazione giuridica del fatto, alla luce del contributo concorsuale fornito, essi presuppongono la soluzione sul se tale contributo vi sia effettivamente stato.
8. E’, invece, infondato il ricorso di NOME COGNOME che lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio, assumendo che la Corte di merito non avrebbe espunto dal calcolo della pena l’aumento per l’aggravante mafiosa, nonostante l’incompatibilità di quest’ultima con l’attenuante della collaborazione, che gli era stata riconosciuta.
Per chiarire perché la doglianza sia priva di fondamento, occorre ricordare che il Giudice dell’abbreviato operò, sulla pena di anni sedici di reclusione (cui era giunto a seguito della diminuzione per la circostanza attenuante della collaborazione), un aumento di pena omnibus di anni cinque di reclusione in cui erano ricompresi sia l’aumento ex art. 81, comma 2, cod. pen. per la continuazione con i reati in materia di armi, sia gli aumenti per la circostanza aggravante mafiosa e per la recidiva. La Corte di merito, nel giudizio di appello bis, nell’incrementare il quantum di diminuzione per la circostanza attenuante della collaborazione (facendo seguito al mandato della sentenza rescindente) e nel ribadire l’esclusione della circostanza aggravante mafiosa già stabilita nel primo giudizio di appello (data l’incompatibilità prevista ex lege con l’attenuante della collaborazione) ha individuato in anni due di reclusione l’aumento per la continuazione con i reati in materia di armi e in anni uno di reclusione l’aumento per la recidiva.
Ciò posto, il ricorrente pare sostenere – il ricorso non è particolarmente chiaro – che l’esclusione dell’aggravante mafiosa avrebbe dovuto comportare una diminuzione di pena almeno di un terzo di quella base, perché la norma prevede, appunto, che l’aggravante debba comportare un incremento sanzionatorio almeno di quella misura e, quindi, se ne dovrebbe dedurre che tale fosse stata l’incidenza dell’aggravante sulla pena del primo grado.
Ebbene, il ricorso non coglie nel segno perché trascura quale era stata la misura in cui la circostanza aggravante erroneamente ritenuta dal Giudice di prime cure aveva inciso sulla pena, che non era stata certamente quella predicata dalla parte; la circostanza aggravante, infatti, aveva semplicemente concorso all’aumento complessivo di cinque anni di reclusione di cui si è detto –
insieme con la recidiva e con la continuazione con i due reati in materia di armi
– aumento che, come correttamente annotato dalla Corte distrettuale, non rispettava neanche gli incrementi minimi per la recidiva e per l’aggravante
ex art. 416.bis.1 cod. pen. (e, aggiunge il Collegio, anche quelli minimi
ex art. 81,
u.c. cod. pen.).
Ne consegue che è un assunto di parte quello secondo cui il Giudice del rito abbreviato avesse aumentato di un terzo la pena a causa dell’aggravante
mafiosa, donde è una pretesa senza fondamento quella secondo cui la diminuzione della pena da parte della Corte di merito avrebbe dovuto avere pari
misura.
Il rigetto del ricorso di COGNOME impone di condannarlo al pagamento delle spese processuali.
9. Quanto alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, esse andranno rimesse alla definizione del procedimento quanto a COGNOME e COGNOME,
mentre non vanno imputate a COGNOME – nonostante il procedimento a suo carico si concluda oggi con un rigetto del ricorso – in quanto il suo ricorso verte
solo sul trattamento sanzionatorio, sicché la parte civile non ha interesse a partecipare al relativo giudizio (Sez. 1, n. 51166 del 11/06/2018, COGNOME, Rv. 274935 – 01).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME ed NOME COGNOME con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Bari. Rigetta il ricorso di NOME COGNOME e lo condanna al pagamento delle spese processuali. Spese di parte civile al definitivo nei confronti di COGNOME e COGNOME; nulla per le spese di parte civile nei confronti di COGNOME. Così è deciso, 6/3/2025