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Dichiarazioni coimputati: il silenzio vale consenso?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18995/2025, ha dichiarato inammissibili i ricorsi di due imputati condannati per ricettazione e tentata truffa. Il caso verteva sull’utilizzabilità delle dichiarazioni dei coimputati e sulla prova del dolo nella ricettazione. La Corte ha ribadito un principio cruciale: per utilizzare le dichiarazioni accusatorie rese da coimputati in fase predibattimentale, non è necessario un consenso esplicito, ma è sufficiente la mancata opposizione dell’imputato e del suo difensore. Questo orientamento consolida l’idea di un consenso implicito nel processo penale.

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Pubblicato il 3 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Dichiarazioni dei Coimputati: il Silenzio in Aula Vale come Consenso?

Nel processo penale, l’utilizzo delle dichiarazioni coimputati come prova a carico di un altro soggetto è una questione delicata, che bilancia le esigenze di accertamento della verità con il diritto di difesa. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 18995/2025, ha affrontato un caso di ricettazione e tentata truffa, ribadendo un principio fondamentale: il consenso all’acquisizione di tali dichiarazioni può essere anche implicito, desumendosi dalla semplice assenza di opposizione da parte della difesa. Analizziamo questa importante decisione.

I Fatti del Processo

La vicenda giudiziaria ha origine da una serie di reati di ricettazione e tentata truffa. La Corte di Appello di Napoli aveva confermato la responsabilità penale di un imputato basandosi, in larga parte, sulle dichiarazioni rese da altri coimputati nel corso delle indagini. Questi ultimi avevano indicato il soggetto in questione come colui che li aveva ingaggiati per monetizzare assegni di provenienza illecita, in cambio di un compenso.

Contro tale decisione, l’imputato ha proposto ricorso in Cassazione, sollevando due questioni principali:
1. La violazione delle regole procedurali sull’acquisizione della prova (art. 513 c.p.p.), sostenendo che le dichiarazioni dei coimputati erano state utilizzate contro di lui senza un suo consenso esplicito, ma solo sulla base di un mancato dissenso.
2. La mancanza di motivazione sulla reale attendibilità di tali dichiarazioni, ritenute dal ricorrente non supportate da adeguati riscontri.

Anche un secondo imputato, condannato per ricettazione per aver ricevuto alcuni di questi assegni, ha fatto ricorso, contestando la prova della sua consapevolezza circa l’origine illecita dei titoli.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato entrambi i ricorsi inammissibili, confermando le condanne e fornendo chiarimenti cruciali su come devono essere gestite e valutate le dichiarazioni coimputati.

Utilizzo delle dichiarazioni coimputati e consenso implicito

Il cuore della pronuncia riguarda il primo motivo di ricorso. La difesa sosteneva che, per poter utilizzare le dichiarazioni rese da un coimputato in fase predibattimentale contro un altro (contra alios), fosse necessario un consenso espresso e formale di quest’ultimo.

La Cassazione ha respinto questa interpretazione. Ha chiarito che l’art. 513 del codice di procedura penale non richiede forme specifiche per manifestare il consenso. Pertanto, esso può essere desunto in via implicita dalla mancanza di una specifica opposizione da parte dell’imputato o del suo difensore al momento dell’acquisizione dei verbali. In altre parole, il silenzio della difesa in quella fase processuale viene interpretato come un’accettazione all’utilizzo di tali atti. Questa decisione si allinea a un orientamento giurisprudenziale consolidato, che valorizza un approccio pragmatico alla gestione della prova.

La valutazione della chiamata in correità e il reato di ricettazione

Per quanto riguarda la credibilità delle accuse, la Corte ha giudicato il secondo motivo di ricorso generico. Ha evidenziato che la Corte di Appello aveva correttamente motivato la propria decisione, basandosi su una valutazione logica e completa. Le dichiarazioni coimputati sono state ritenute attendibili perché:
* Autoaccusatorie: I dichiaranti ammettevano le proprie responsabilità.
* Convergenti: Le versioni dei diversi coimputati coincidevano sui punti essenziali.
* Individualizzanti: Ciascun dichiarante aveva riconosciuto l’imputato tramite fotografie, identificandolo senza ombra di dubbio come la persona che aveva consegnato loro gli assegni.

Questi elementi, nel loro insieme, costituiscono quei riscontri reciproci che la legge richiede per fondare un giudizio di colpevolezza sulla base di una chiamata in correità.

Relativamente al secondo ricorrente, la Corte ha ribadito che il possesso di un bene di provenienza illecita, unito alla mancanza di una giustificazione attendibile, è un elemento sufficiente a integrare il dolo (anche solo eventuale) del reato di ricettazione.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su un’interpretazione consolidata delle norme processuali e sostanziali. La decisione di considerare sufficiente il consenso implicito per l’acquisizione delle dichiarazioni contra alios risponde a un’esigenza di economia processuale, evitando che tattiche ostruzionistiche possano paralizzare l’accertamento dei fatti. Tuttavia, ciò non indebolisce le garanzie difensive, poiché la valutazione sull’attendibilità di tali dichiarazioni resta un passaggio obbligato e rigoroso per il giudice. Il giudice deve sempre verificare la credibilità intrinseca del dichiarante, la coerenza del suo racconto e la presenza di riscontri esterni, anche reciproci tra più dichiarazioni. Sul fronte della ricettazione, la motivazione si allinea all’indirizzo secondo cui l’onere di fornire una spiegazione plausibile sul possesso di beni di provenienza delittuosa ricade su chi li detiene, e la sua assenza è un forte indicatore della consapevolezza dell’illecito.

Le Conclusioni

In conclusione, la sentenza n. 18995/2025 offre due importanti insegnamenti. Sul piano processuale, consolida il principio del “silenzio-assenso” per l’uso delle dichiarazioni coimputati, semplificando l’iter probatorio ma senza sacrificare il vaglio critico del giudice. Sul piano sostanziale, conferma che, nel reato di ricettazione, il possesso ingiustificato di beni illeciti costituisce una prova logica fondamentale per dimostrare l’elemento soggettivo del reato, ovvero la consapevolezza della loro origine.

È necessario il consenso esplicito di un imputato per usare contro di lui le dichiarazioni rese da un coimputato in fase predibattimentale?
No. Secondo la Corte di Cassazione, l’art. 513, comma 1, c.p.p. non richiede un consenso espresso e formale. Il consenso all’utilizzazione può essere desunto implicitamente dalla mancanza di una specifica opposizione da parte dell’imputato o del suo difensore.

Quando le dichiarazioni accusatorie di un coimputato possono costituire una prova valida?
Le dichiarazioni di un coimputato possono essere usate come prova se sono dotate di intrinseca attendibilità (sia soggettiva che oggettiva) e trovano riscontro in altri elementi. Tali riscontri possono anche derivare da altre dichiarazioni accusatorie, purché siano convergenti, autonome e non vi sia sospetto di accordi fraudolenti tra i dichiaranti.

Cosa è sufficiente per provare il dolo nel reato di ricettazione?
Per provare l’elemento soggettivo della ricettazione (la consapevolezza dell’origine illecita del bene) è sufficiente la circostanza che l’imputato sia stato trovato in possesso di un bene di provenienza delittuosa e non abbia fornito alcuna giustificazione attendibile e plausibile in merito a tale possesso. Questa situazione è considerata rivelatrice di un acquisto in mala fede.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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