Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 8977 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 8977 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di NOME, nato in Romania il DATA_NASCITA, contro la sentenza della Corte d’appello di Torino del 7.7.2023;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Generale NOME COGNOME, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 21.2.2020 il Tribunale di Verbania aveva riconosciuto NOME NOME responsabile dei fatti di estorsione continuata e porto ingiustificato di oggetti atti alla offesa alla persona e, ritenuto il vincolo dell continuazione tra le diverse violazioni di legge, lo aveva condannato alla pena complessiva e finale di anni 6 e mesi 4 di reclusione ed euro 2.100 di multa, oltre al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali, applicandogli altresì le pene accessorie conseguenti alla entità di quella principale;
la Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermata per il resto, ha preso atto della intervenuta prescrizione del reato di cui al capo b) della rubrica elidendo perciò l’aumento di pena operato dal primo giudice che ha di conseguenza rideterminato in anni 6 di reclusione ed euro 1.100 di multa;
ricorre per cassazione NOME tramite il difensore che deduce:
3.1 violazione di legge in ordine alla veste processuale attribuita a NOME COGNOME e conseguente illegittimo utilizzo RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni rese in violazione del disposto di cui all’art. 63 cod. proc. pen.: rileva che il capo 1 dell’imputazione riposa sulle dichiarazioni, rese prima in sede di indagini e poi in sede dibattimentale, della persona offesa sulla cui veste la difesa aveva sollevato l’eccezione qui reiterata e disattesa dalla Corte d’appello; segnala che, in tal modo, i giudici torinesi hanno tradito il principio affermato dalle SS.UU. nella sentenza “Mills” sulla prevalenza del dato sostanziale sul dato formale della iscrizione della notizia di reato; segnala che la Corte d’appello ha ritenuto che, pur non potendo essere utilizzate contra se, le dichiarazioni rese dal COGNOME potevano tuttavia essere utilizzate nei confronti dei terzi sottolineando come, nel caso di specie, i fatti sui quali egli aveva riferito quanto a sé stesso, erano indubbiamente e per ammissione della stessa Corte d’appello, connessi con quelli ascritti a carico del ricorrente;
3.2 travisamento della prova e difetto di motivazione: rileva che proprio il pacifico coinvolgimento del COGNOME nell’attività di spaccio da cui era scaturita la imputazione a carico del ricorrente comportava la necessità di applicare la regola contenuta nel comma terzo dell’art. 192 cod. proc. pen., aggiungendo che la Corte ha apoditticamente giudicato riscontrate le dichiarazioni del COGNOME senza tuttavia dar conto RAGIONE_SOCIALE plurime discrasie che erano state evidenziate dalla difesa con l’atto di gravame, a partire dall’entità della somma di cui la persona offesa si era dichiarata debitrice nei confronti del ricorrente prima nella denuncia e poi in aula per passare poi all’episodio della pistola su cui la difesa aveva insistito anche in sede di controesame; aggiunge che gli ulteriori riscontri avevano dato esito
negativo richiamando, a tal fine, l’esito della perquisizione effettuata presso la abitazione del COGNOME;
3. la Procura Generale ha trasmesso la requisitoria scritta ai sensi dell’art. 23, comma 8, del DL 137 del 2020 concludendo per l’inammissibilità del ricorso: rileva la legittima utilizzazione RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni del COGNOME, in quanto fornite spontaneamente in una denuncia-querela, e l’infondatezza RAGIONE_SOCIALE doglianze articolate in punto di attendibilità RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni, sulla quale le sentenze, in conformità, offrono adeguata motivazione, nonché riscontri.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché articolato su censure manifestamente infondate ovvero non consentite in questa sede.
Il primo motivo, in particolare, è manifestamente infondato.
NOME è stato tratto a giudizio e giudicato responsabile, nei due gradi di merito, e sulla scorta di un conforme apprezzamento RAGIONE_SOCIALE medesime emergenze istruttorie, del delitto di estorsione continuata perché “… mediante minacce di morte rivolte a COGNOME NOME ed alla di lui moglie e fidanzata, costringendo lo stesso a consegnargli le somme in contanti di euro 2.500 e di euro 1.800, e ad effettuare versamenti, per un totale di 910 euro e di euro 6.730 su due carte postepay intestate a COGNOME NOME ma nella sua disponibilità, e di euro 9.130 su una carta postapay intestata allo stesso COGNOME NOME ma dal medesimo fattasi consegnare, si procurava un ingiusto profitto pari danno per la persona offesa”.
La ricostruzione concordemente operata dai giudici di merito è nel senso che il COGNOME, tratto in arresto nel novembre del novembre del 2015, perché trovato in possesso dl 300 gr. di marijuana, era stato posto agli arresti domiciliari e, pertanto, non aveva potuto pagare lo stupefacente al COGNOME, suo fornitore, il quale, di conseguenza, glia. aveva fatto presente che il debito non era più di 3.000 euro ma di 9.500 perché il mancato pagamento della somma originaria gli aveva fatto sfumare un altro affare.
Il COGNOME si era allora proposto di smerciare stupefacente (anche tramite altri suoi amici) per saldare il debito.
Secondo la tesi della difesa, le dichiarazioni del COGNOME non sarebbero utilizzabili in quanto costui aveva finito per autoaccusare sé stesse del delitto di spaccio senza, tuttavia, che l’interrogatorio prima e l’esame dibattimentale poi
fossero stati interrotti onde procedere con le previste garanzie difensive a tutela del dichiarante.
Tanto premesso, ritiene il collegio di dover ribadire il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, correttamente richiamato nella motivazione dell’impugnata sentenza, secondo cui: le dichiarazioni rese innanzi alla polizia giudiziaria o all’autorità giudiziaria da una persona non sottoposta ad indagini, ed aventi carattere autoindiziante, non sono utilizzabili, per violazione dell’art. 63, comma I, cod. proc. pen., solo contro chi le ha rese, ma sono pienamente utilizzabili contro i terzi, in relazione ai quali non opera la sanzione processuale della inutilizzabilità, prevista dall’art. 63, comma I, cod. proc. pen. (cfr., Sez. 2 – , n. 28583 del 18/06/2021, COGNOME, Rv. 281807 – 01; Sez. 2, Ordinanza n. 30965 del 14/07/2016, COGNOME, Rv. 267571); le dichiarazioni rese innanzi alla polizia giudiziaria da una persona non sottoposta ad indagini, ed aventi carattere autoindiziante, non sono utilizzabili contro chi le ha rese, ma sono pienamente utilizzabili contro i terzi, prevalendo la qualità di teste-parte offesa del reato in relazione al quale si indaga rispetto a quella di possibile coindagato in reato connesso (cfr., Sez. 2 – , n. 5823 del 26/11/2020 (dep. 15/02/2021), COGNOME, Rv. 280640 – 01; Sez. 2 Sent. n. 283 del 01/10/2013, Ud., dep. 08/01/2014, Rv. 258105), né di tali dichiarazioni si può eccepire l’inutilizzabilità “erga omnes” sulla base del fatto che le stesse provengono da un soggetto indagato in reato connesso, non ascoltato con le garanzie previste per la persona sottoposta ad indagini. (Sez. 5, Sentenza n. 43508 del 28/05/2014 Cc., dep. 17/10/2014, Rv. 261078).
D’altra parte, è lo stesso testo dell’art. 64 comma 3-bis cod. proc. pen. che, a ben guardare, suppone l’esistenza di un regime differenziato di utilizzabilità tra le dichiarazioni autoindizianti e quelle eteroaccusatorie nel senso che l’inosservanza degli avvertimenti di cui al comma 2 dell”art. 64 cod. proc. pen. comporta conseguenze diverse con riguardo, da un lato, agli avvisi relativi alle dichiarazioni autoaccusatorie (lett. a) e, dall’altro, a quelle di natura eteroaccusatoria (lett. c).
2. Altrettanto manifestamente infondato è il secondo motivo.
Va rilevato, in primo luogo, che, come si rileva dalla sentenza di primo grado (cfr., pag. 2 della sentenza), la denuncia sporta dal COGNOME è stata acquisita al fascicolo del dibattimento sull’accordo RAGIONE_SOCIALE parti
La Corte territoriale, in ogni caso, vagliando l’omologo motivo di censura articolato con l’atto d’appello, non ha omesso di motivare in ordine alla attendibilità della persona offesa e sui riscontri esterni alle dichiarazioni rese, confortate dall’esito della perquisizione veicolare e domiciliare eseguita nei confronti
dell’imputato nonché dalla acquisizione della carta Postepay intestata al COGNOME su cui erano state accreditate le somme pretese dal COGNOME; altrettanto significativa, sul piano dei riscontri, è stata valutata la registrazione del messaggio con cui il COGNOME aveva chiesto al COGNOME somme di denaro minacciandolo (cfr., pag. 6 della sentenza impugnata).
Ed è, allora, proprio in considerazione di siffatti elementi di riscontro che, con valutazione non manifestamente illogica o contraddittoria, ma tipicamente di merito, la Corte territoriale ha potuto concludere nel senso della irrilevanza del mancato rinvenimento dell’arma in sede di perquisizione.
L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., della somma – che si stima equa – di euro 3.000 in favore della RAGIONE_SOCIALE, non ravvisandosi ragione alcuna d’esonero.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e della somma di euro tremila in favore della RAGIONE_SOCIALE.
Così deciso in Roma, il 14.2.2024