Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 22602 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 22602 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 20/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nata a Bari il 22/10/1969
avverso la sentenza del 03/05/2024 della Corte d’appello di Napoli Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 5 maggio 2024, la Corte d’appello di Napoli confermava la sentenza del 17 febbraio 2021 del Tribunale di Napoli, appellata da NOME COGNOME che l’aveva riconosciuta colpevole del reato di dichiarazione infedele ex art. 4, d. lgs. n. 74 del 2000, relativamente a tre periodi di imposta, commesso secondo le modalità esecutive e spazio -temporali meglio descritte nell’imputazione, condannandola alla pena principale di 1 anno e 4 mesi di reclusione, in esito al rito abbreviato richiesto, oltre alle pene accessorie di legge, ambedue condizionalmente sospese.
Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME a mezzo del difensore di fiducia, articolando due distinti motivi, di seguito sommariamente enunciati ex art. 173, disp. att. cod. proc. pen. nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge ed il correlato vizio di motivazione in relazione agli artt. 81, cod. pen. e 4, lett. a) e b), d. lgs. n. 74 del 2000.
In sintesi, sostiene la difesa che sarebbe stata affermata la responsabilità penale della ricorrente sulla base della comunicazione notizia di reato dell’agenzia delle Dogane di Napoli che, nell’esercizio del proprio potere e dovere di controllo, aveva in un primo tempo disconosciuto l’operatività del plafond , cioè l’abbattimento dell’Iva per cessioni di beni intracomunitari, ovvero con il solo riferimento all’originaria iniziale contestazione, ma non già a tutto quanto emerso e chiarito in sede di attività conclusiva d’ indagine. La copiosa documentazione con fatture e lettere di viaggio delle singole spedizioni, notoriamente immesse in automatico nel circuito telematico, sarebbe stata completamente ignorata dai giudici del merito, con conseguente omissione motivazionale. L’addebito sollevato è infondato, opinando sulla mancanza del pagamento e, di qui, sull ‘ inesistenza della negoziazione, quantunque siano intervenute modalità liquidatorie del prezzo a mezzo di specifici atti di cessione. secondo lo schema vigente previsto dagli articoli 1260 e seguenti del Codice civile. I relativi atti di cessione del credito, quale strumento di pagamento veloce e semplice, risultano affoliati alle rispettive negoziazioni e non risulta che siano state annullati o dichiarati inefficaci, sicché, continuando a spiegare effetti erga omnes possono costituire elementi idonei per superare le censure sollevate. Precisa la difesa che, per i rapporti intrattenuti con la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE , a parte le lettere di vettura compilate e firmate in ogni parte per ciascuna delle vendite, sono intervenuti atti di cessione del credito così come per RAGIONE_SOCIALE . Elementi a sostegno della insussistenza del fatto sarebbero altresì desumibili dall’esame dei documenti contabili, sia per quanto concerne l’approvvigionamento dei beni, cioè l’acquisto delle materie prime dalle più importanti aziende italiane detentrici di marchi e brevetti che ben si sarebbero guardate dal cedere prodotti col made in Italy a losche attività di cartiere, nonché dall’insieme delle strumentalità patrimoniali che reggono le attività di mercato. Sarebbe stato poi omesso ogni criterio di valutazione sul materiale probatorio prodotto dalla difesa, unitamente all’elaborato peritale con allegati del dott. COGNOME che aveva analizzato dettagliatamente tutte le singole negoziazioni. A titolo meramente indicativo, ad esempio, si sarebbe affermata la responsabilità penale per la fittizietà delle vendite per l’azienda polacca RAGIONE_SOCIALE in quanto ritenuta azienda inesistente, senza tener conto che il tribunale amministrativo della Repubblica di Polonia, su appello proposto dall’ufficio fiscale, aveva invece confermato l’effettività e l’esistenza della predetta azienda ritenuta fantasma, che aveva trasmesso dati e informative sbagliate alla Agenzia delle dogane di
Napoli. Quest’ultima, tra l’altro, sulla base delle argomentazioni e di ulteriori atti e documenti forniti dalla difesa in sede di indagini, aveva chiaramente sottolineato che non poteva disconoscere l’effettività delle operazioni commerciali inizialmente sospettate di non autenticità compiute dalla RAGIONE_SOCIALE con tutta una serie di società straniere e italiane. Sul piano logico potrebbe apparire strano inoltre che taluno, pur conscio dell’evasione di imposta, pari al 22%, in luogo ed invece di nascondere ogni traccia degli illeciti venga ad inserire delle negoziazioni nelle proprie scritture contabili esponendosi alla onerosità di tutte le imposte sul reddito per le persone giuridiche con parametri superiori quali Ires e Irpeg al 24%.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 62 -bis , cod. pen., atteso il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
In sintesi, la difesa osserva come il diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche risulta fondato essenzialmente sul valore dell’imposta evasa pari a 5 milioni di euro. Si tratterebbe tuttavia di un valore che, in considerazione di quanto argomentato anche dall’Agenzia delle Dogane di Napoli, dovrebbe essere di gran lunga attenuato o addirittura escluso, atteso che, per la gran parte delle operazioni commerciali è stata ritenuta la liceità dell’adozione del plafond , ossia l’esenzione dell’imposta. Non sarebbe tra l’altro emersa alcuna pericolosità sociale e sarebbero da escludersi strategie dilatorie tanto da aver richiesto la ricorrente il giudizio abbreviato. A ciò si aggiungerebbe un irreprensibile contegno della ricorrente non soltanto processuale ma anche preprocessuale, avendo messo a disposizione degli inquirenti tutti i documenti per facilitare le attività di controllo.
In data 08/04/2025 sono state trasmesse a questo Ufficio le conclusioni scritte del Procuratore generale, con cui ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
Secondo il P.G., è appena il caso di rilevare che ci si trova di fronte ad una sentenza che è una ‘doppia conforme’ di responsabilità e deve trovare applicazione il principio costantemente affermato da questa Corte, secondo cui ‘il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso di cosiddetta ‘doppia conforme’, sia nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti’ (così, ex multis , di recente Cass., Sez. 2, Sentenza n. 5336 del 09/01/2018). Il ricorso scende poi nel merito dei fatti e reitera in questa sede
doglianze già rappresentate in appello su cui la Corte del territorio ha esaustivamente motivato in modo logico e corretto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, trattato cartolarmente in assenza di richieste di discussione orale, è inammissibile.
Il primo motivo è inammissibile.
2.1. Anzitutto, perché generico per aspecificità, non tenendo conto delle puntuali argomentazioni sviluppate dalla Corte territoriale che, valutando quanto emerso nella sentenza di primo grado, resa in esito al giudizio abbreviato, hanno analizzato gli elementi probatori acquisiti, escludendo la fondatezza dei rilievi difensivi che vengono, sostanzialmente, replicati in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elemento di novità critica.
È sufficiente, a tal proposito, ripercorrere lo sviluppo argomentativo della sentenza d’appello (v. pagg. 4/6) per rilevare la assoluta mancanza di pregio dei motivi dedotti. I giudici territoriali, in particolare, muovendo dalla comunicazione della notizia di reato dell’Agenzia delle Dogane di Napoli evidenziano come la ricorrente, quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE avesse intrattenuto negli anni dal 2015 al 2017 rapporti commerciali con svariate società estere risultate poi inesistenti, presentando dichiarazioni iva mendaci per tali annualità allo scopo di evadere le relative imposte per un valore complessivo pari a circa 5 milioni di euro. Nel dettaglio, era emerso che la predetta RAGIONE_SOCIALE aveva emesso per il 2017, in favore della RAGIONE_SOCIALE, fatture per un importo pari ad oltre 934.000 € e , nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, fatture per un importo complessivo pari a circa 1.100.000 €, ma , in entrambi i casi, non era emersa la prova della consegna della merce al destinatario finale, essendo stata la stessa ricevuta dalla sola società logistica, facendo tale dato propendere per l’inesistenza delle società beneficiarie nonché delle annesse operazioni commerciali. Ancora, si legge in sentenza, dalla verifica condotta dall’Agenzia delle Dogane era emerso come la predetta RAGIONE_SOCIALE avesse effettuato cessioni di beni in favore di società estere, pur non avendo ricevuto il pagamento di alcune delle fatture emesse e, per quelle residue, incassando il prezzo della cessione a mezzo di cessione del credito.
La Corte d’appello si prende, altresì, carico di confutare l’identica argomentazione difensiva replicata in sede di legittimità ed inerente alla sussistenza delle lettere di lettura quale prova inconfutabile delle avvenute cessioni di beni intracomunitari compiute dalla società in quanto attestanti l’effettiva consegna della merce al destinatario. A tal proposito, i giudici di appello, dopo aver ricordato le condizioni richieste ai fini della operatività del beneficio previsto dall’art. 41 del decreto-legge n. 331 del 1993, osservano
come, dal tenore letterale della norma, uno dei requisiti essenziali richiesti al fine di beneficiare dell’esenzione fiscale è rappresentato dalla effettiva movimentazione del bene dall’Italia e dalla conseguente consegna in uno degli Stati membri, indipendentemente dal fatto che il trasporto o la spedizione sia curata dal cedente, dal cessionario o da un terzo per loro conto. Questo poiché la movimentazione fisica del bene oggetto di cessione rappresenta l’elemento materiale della previsione normativa, in assenza della quale la cessione sarà soggetta al regime di imposizione vigente nel territorio dello Stato della società cedente. Pertanto, prosegue correttamente la sentenza, la prova dell’avvenuto scambio intracomunitario deve essere fornita dal cedente che emette la fattura e non applica l’imposta nei confronti del cessionario, dichiarando che l’operazione non è imponibile, in linea con il principio generale sancito dall’art. 2697 del Codice civile. Nel caso di specie, osserva la Corte d’appello, non è emersa la prova del concreto trasferimento dei beni alle società cessionarie, dimostrando i documenti di trasporto invocati dalla difesa soltanto la presa in carico della merce da parte delle società logistiche, risultando necessario un quid pluris consistente nella firma della società destinataria della merce.
A tal proposito, con stringente rigore argomentativo anche sotto il profilo giuridico, la sentenza della Corte d’appello richiama una pronuncia della Corte di giustizia UE (CGUE, sentenza 27 settembre 2007, cause C-409/04, C-146/04 e C-184/05) in cui si afferma che, al fine di fruire del regime di non imponibilità, è sempre il cedente nazionale che deve dimostrare che i beni siano stati inviati in un altro Stato membro e che esso, in seguito a tale spedizione o trasporto, ha lasciato fisicamente il territorio dello Stato membro di cessione, fermo restando il potere dei singoli Stati membri di determinare le condizioni per assicurare la corretta applicazione dell’esenzione di imposta e prevenire eventuali abusi. Pertanto, e proprio alla luce di quanto sopra, con motivazione logico giuridica assolutamente ineccepibile, la Corte d’appello evidenzia come l’incompletezza delle lettere di vettura internazionali fornite dalla società, in una con il mancato pagamento di svariate fatture emesse dalla stessa per le presunte cessioni dei beni intracomunitari, nonché l’inesistenza della pluralità delle società estere cessionarie, deponevano incontrovertibilmente a favore della piena realizzazione del reato contestato all’imputata. Si richiama, a tal fine, puntuale giurisprudenza di questa Corte pronunciata dalle sezioni civili (Sez. 5, 27/07/2012, n. 13457, Rv. 623583 -01; Sez. 5, n. 1670 del 24/01/2013, Rv. 624934 – 01), e – proprio in applicazione del principio secondo cui in tema di I.V.A., nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria contesti, recuperando l’imposta non versata, la non imponibilità della cessione intracomunitaria di beni a titolo oneroso, per difetto del presupposto dell’introduzione dei beni ceduti nel territorio di altro Stato membro, richiesto dall’art. 41, comma primo, lett. a), del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427, grava sul cedente la prova dello stesso. A tal fine, non è sufficiente aver richiesto ed ottenuto la conferma della validità
del numero di identificazione attribuito al cessionario da altro Stato membro, trattandosi di adempimenti formali prescritti per agevolare il successivo controllo, ma è necessario che il cedente verifichi, con la diligenza dell’operatore commerciale professionale, le caratteristiche di affidabilità della controparte, sotto un profilo sostanziale e non meramente formale, ponendo in essere un comportamento apprezzabile in termini di buona fede, secondo una valutazione riservata al giudice di merito, in quanto attinente a questione inevitabilmente legata alle specifiche caratteristiche di ciascuna vicenda osserva correttamente la Corte d’appello come sia stato fugato ogni dubbio circa la consapevolezza della ricorrente della mendacità delle dichiarazioni presentate nella misura in cui l’ imputata, sfruttando il cosiddetto plafond per le operazioni commerciali aventi ad oggetto la cessione di beni in favore di società aventi sede in altri Stati europei e risultate poi, fittizie, risultava aver evaso in tal modo l’Iva e causato un danno alle casse erariali pari a 5 milioni di euro.
2.2. Perdono, infine, ogni spessore argomentativo, al cospetto delle considerazioni esposte in sentenza, le doglianze difensive circa l’asserita omessa valutazione della documentazione, ivi inclusa la relazione peritale, di cui si contesta in sostanza il travisamento probatorio per omissione, dimenticando infatti la difesa che, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, come nel caso in esame, il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado, circostanza da escludersi nel caso in esame (Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M., Rv. 283777 -01).
Anche il secondo motivo è parimenti inammissibile per manifesta infondatezza e generico per aspecificità.
3.1. Esso, infatti, non solo non si confronta con le argomentazioni esposte nella sentenza impugnata che hanno chiarito le ragioni del diniego (cospicuo numero di fatture emesse in favore della società risultate inesistenti; ingente ammontare dell’imposta evasa, pari a circa 5 milioni di euro) , ma si palesa, altresì, confliggente con la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui, da un lato, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis, disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, COGNOME, Rv. 283489 – 01) e, dall’altro, che la sussistenza di
circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purchè non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi, Rv. 242419 – 01).
Il ricorso deve conclusivamente essere dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 in favore della Cassa delle Ammende, non potendosi escludere profili di colpa nella sua proposizione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso, il 20/05/2025