Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 46751 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 46751 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 20/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
Tedesco NOMECOGNOME nato a San Giovanni Rotondo (Fg) il 7/12/1950
avverso la ordinanza sentenza del 17/4/2024 della Corte di appello di Milano; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiarare inammissibile il ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 17/4/2024, la Corte di appello di Milano confermava la pronuncia emessa il 22/3/2023 dal locale Tribunale, con la quale NOME COGNOME era stato giudicato colpevole dei delitti di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 4, 10, d Igs. 10 marzo 2000, n. 74, e condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione.
Propone ricorso per cassazione l’imputato, deducendo i seguenti motivi:
inosservanza degli artt. 406 e 407 cod. proc. pen. La sentenza di appello, così come quella di primo grado, avrebbe rigettato con motivazione errata
l’eccezione di nullità del provvedimento di proroga del termine delle indagini preliminari, con riferimento alla individuazione di una giusta causa: questa, infatti, non potrebbe essere individuata – come invece affermato nelle due pronunce – in una delega rilasciata alla polizia giudiziaria il 15 luglio 2020, a fronte di un termin che andava a scadere il 24 luglio 2020. Il Pubblico Ministero, peraltro, non avrebbe indicato le ragioni per le quali sino a quella data non sarebbe stato compiuto alcun atto di indagine, così che la proroga concessa dal G.i.p. sarebbe erronea e dovrebbe esser dichiarata nulla, con conseguente inutilizzabilità degli atti compiuti oltre il termine di legge;
inosservanza dell’art. 468, comma 1, cod. proc. pen. Analogo vizio motivazionale riguarderebbe l’eccezione di inammissibilità della lista testimoniale del Pubblico Ministero per tardività di presentazione. La sentenza non avrebbe adeguatamente valutato l’assenza di un timbro di deposito apposto dalla cancelleria, e la motivazione redatta sul punto risulterebbe viziata, non emergendo alcun dato certo quanto alla tempestività dell’incombente;
inosservanza dell’art. 4, d. Igs. n. 74 del 2000 in punto di elemento oggettivo del reato. L’istruttoria avrebbe provato che le dichiarazioni fiscali non sarebbero state presentate dal ricorrente ma dal commercialista, e che il primo non le avrebbe neppure sottoscritte, né depositate;
inosservanza dell’art. 4, comma 1-ter, d. Igs. n. 74 del 2000. Il motivo di gravame con il quale sarebbe stata eccepita l’inosservanza di questa norma non sarebbe stato esaminato dalla Corte d’appello;
inosservanza degli artt. 157 cod. pen., 10, d. Igs. n. 74 del 2000. Premesso che la Guardia di finanza avrebbe agevolmente ricostruito il volume d’affari della ditta di cui il ricorrente era il titolare, si eccepisce l’intervenuta prescrizione reato, che dovrebbe necessariamente essersi consumato prima dell’accertamento e, in particolare, negli anni di imposta contestati;
si censura, infine, il mancato riconoscimento della non menzione della condanna. La Corte di appello avrebbe motivato sul punto richiamando una dichiarazione di fallimento pronunciata a carico del Tedesco, che, tuttavia, dal 1° gennaio 2008, non deve più essere iscritta nel certificato del casellario giudiziale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso risulta manifestamente infondato.
La prima censura, che contesta la motivazione della sentenza con riguardo alla eccezione di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo il 24 lugl 2020, è inammissibile per genericità.
4.1. In particolare, occorre muovere dal testo dell’art. 406, comma 1, cod. proc. pen., vigente ratione temporis, in forza del quale “Il pubblico ministero, prima della scadenza, può richiedere al giudice, per giusta causa, la proroga del termine previsto dall’articolo 405. La richiesta contiene l’indicazione della notizia di reato e l’esposizione dei motivi che la giustificano” (il primo periodo, nell’attual versione, non richiama più la “giusta causa”, ma “le indagini complesse”).
4.2. Tanto premesso, la Corte di appello, richiamando l’ordinanza pronunciata al riguardo dal G.i.p., ha evidenziato che la proroga in esame si giustificava con l’avvenuto conferimento di una delega alla polizia giudiziaria per lo svolgimento di ulteriori indagini, ritenute necessarie; ebbene, questa motivazione risulta del tutto adeguata e priva di illogicità manifesta, dunque non censurabile. In senso contrario, peraltro, non possono valere le considerazioni di cui al motivo di ricorso, fondate su elementi di fatto generici e meramente asseriti (la totale assenza di indagini fino al 15 luglio 2020) e, come tali, inammissibili. Questa conclusione, peraltro, coinvolge anche l’ultima parte della stessa doglianza, con la quale sono (altrettanto genericamente) indicati gli atti di indagine che si vorrebbero dichiarati inutilizzabili (esiti del 14 ottobre 2020 e sommarie informazioni di tale COGNOME dell’8 ottobre 2020), senza che, però, degli stessi sia riportata la valenza eventualmente assunta nell’affermazione di responsabilità, che, invece, avrebbe dovuto esser espressa dal ricorrente in modo chiaro e fatta oggetto di una argomentata prova di resistenza.
Anche il secondo motivo di impugnazione è manifestamente infondato.
5.1. La Corte di appello, misurandosi con la stessa eccezione di tardività della lista testimoniale del Pubblico Ministero, si è pronunciata con un argomento del tutto solido e qui non censurabile. In particolare, è stato sottolineato che tale lista risultava inserita nel fascicolo dello stesso Pubblico Ministero, depositato in cancelleria il 4 agosto 2020 (come attestato dal timbro apposto sulla copertina); ancora, la sentenza ha evidenziato che, qualora il deposito della lista fosse stato successivo, sulla stessa sarebbe stato apposto un timbro con altra data.
5.2. Ebbene, di fronte a tale adeguata e rigorosa motivazione, il ricorso si sviluppa su mere illazioni prive di qualunque sostegno istruttorio, sul presupposto che la lista testimoniale “è un atto a parte che non sempre viene trasmesso unitamente al fascicolo” (con l’effetto che “la lista testi può essere stata depositata in qualunque momento… anche in violazione dei termini”). L’evidente congettura che sostiene il motivo, pertanto, ne impone il giudizio di inammissibilità.
Alle stesse conclusioni, poi, la Corte giunge quanto alla terza censura, che contesta il profilo oggettivo del delitto di cui all’art. 4, d. Igs. n. 74 del 20 motivo, infatti, è sviluppato in termini di puro merito, non consentiti in questa sede di legittimità, con i quali si chiede una differente valutazione del medesimo
compendio dibattimentale già esaminato in primo e secondo grado: è ribadita, infatti, la tesi secondo cui il ricorrente non avrebbe sottoscritto né depositato alcuna dichiarazione fiscale, dovendosi pertanto riferire ogni responsabilità al commercialista.
6.1. La censura, peraltro, non si confronta affatto con la motivazione stesa dalla Corte di appello sul punto, che risulta ancora priva di illogicità manifesta e coerente con gli esiti istruttori. In particolare, è stata richiamata la costan giurisprudenza con riguardo ai doveri incombenti sull’amministratore di diritto di un ente; ancora, ed in ordine al merito, la sentenza ha evidenziato il contratto di fornitura di servizio stipulato tra lo stesso ricorrente e la “RAGIONE_SOCIALE“, con il quale il primo si impegnava all’elaborazione dei dati e delle scritture obbligatorie “sulla base della documentazione ricevuta dal cliente e per conto dello stesso”. Non da ultimo, la Corte ha infine richiamato il costante principio in forza del quale l’interessato, anche in caso di delega ad un professionista, rimane obbligato a verificarne il corretto adempimento degli obblighi contabili e fiscali, in quanto relativi ad un ente del quale lo stesso interessato è legale rappresentante, con ogni obbligo di legge in punto di adempimenti fiscali.
Con riguardo, poi, al quarto motivo di ricorso, che censura l’omessa motivazione circa la violazione dell’art. 4, comma 1-ter, d. Igs. n. 74 del 2000, quanto all’anno di imposta 2015, si osserva che la Corte di appello non era tenuta a rispondere ad un rilievo manifestamente infondato; per costante indirizzo, infatti, è inammissibile, per carenza d’interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado che non abbia preso in considerazione un motivo di appello inammissibile “ah origine” per manifesta infondatezza, in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (tra le molte, Sez. 3, n. 46588 del 3/10/2019, COGNOME, Rv. 277281).
7.1. L’appellante, in particolare, aveva sostenuto che la maggior imposta identificata in 153.104,18 euro avrebbe dovuto scontare una riduzione del 10% ai sensi della norma citata, così giungendo all’ammontare di 137.793,77 euro, dunque inferiore alla soglia di punibilità vigente. Ebbene, questa lettura dell’art. 4, comma 1-ter citato non risulta corretta, in quanto la norma – lungi dal prevedere una sorta di soglia di tollerabilità pari al 10% dell’imposta – stabilisce che, fuo dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che complessivamente considerate differiscono in misura inferiore al 10% da quelle corrette. L’ordinamento, dunque, afferma soltanto che una difforme valutazione entro tale limitata misura non integra il delitto di dichiarazione infedele, non anche che, individuata l’entità dell’imposta evasa, questa debba beneficiare di una
riduzione del 10%, solo a seguito della quale si verificherebbe l’eventuale superamento della soglia di punibilità.
Manifestamente infondato, di seguito, è anche il quinto motivo di ricorso, che concerne il delitto di cui all’art. 10, d. Igs. n. 74 del 2000.
8.1. La prima parte, in punto di responsabilità, è redatta su inammissibili termini di merito, sul presupposto che il mancato ritrovamento della documentazione non avrebbe comunque impedito alla Guardia di finanza la ricostruzione della contabilità. Questo argomento, inoltre, è privo di ogni confronto con la sentenza di appello, che ha evidenziato che il Tedesco – consapevole della non veridicità dei dati riportati nella contabilità e nelle dichiarazioni fiscali (co dallo stesso ammesso in uno scritto depositato in dibattimento) – aveva omesso di consegnare ai militari le fatture non annotate (o annotate solo per importi parziali), “in modo da non consentire la ricostruzione del volume di affari della ditta individuale, che infatti poté essere correttamente quantificato solo grazie all’interrogazione dei clienti della ditta stessa.”
8.2. Inammissibile per genericità, ancora, è la seconda parte dello stesso quinto motivo, che eccepisce la prescrizione del reato. Lungi dall’individuare un affidabile dies a quo, diverso dalla data di accertamento riportata in contestazione, la censura si esprime infatti in termini del tutto privi di specificità, affermando ch il reato “deve necessariamente essersi consumato prima, e nello specifico negli anni di imposta contestati”, senza alcuna precisazione ulteriore.
Con riferimento, infine, al sesto motivo di ricorso, in punto di non menzione della condanna, la sentenza risulta ancora immeritevole di censura: in particolare, ribadito il potere discrezionale riconosciuto al giudice quanto al beneficio di cui all’art. 175 cod. pen. (tra le altre, Sez. 2, n. 16366 del 28/3/2019, COGNOME, Rv. 275813), la sentenza ha evidenziato che il Tribunale – con argomento non censurabile – aveva ritenuto il Tedesco non meritevole dello stesso beneficio in ragione di una precedente dichiarazione di fallimento.
9.1. Ebbene, questa motivazione resiste all’argomento speso nel ricorso, in quanto la mancata annotazione delle sentenze dichiarative di fallimento nel certificato del casellario giudiziale non impedisce comunque al giudice di tenerne conto ai fini della decisione ai sensi dell’art. 175 cod. pen., in assenza di qualunque previsione di segno contrario.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del
versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 20 novembre 2024
Depositata in Cancelleria