Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 2060 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 2060 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 11/12/2024
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nata a Albi il 21/01/1960
avverso la sentenza emessa il 02/05/2024 dalla Corte d’Appello di Torino visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
letta la memoria del difensore della ricorrente, avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, ed insistendo comunque per l’accoglimento dei motivi di ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 02/05/2024, la Corte d’Appello di Torino ha parzialmente riformato (mitigando il trattamento sanzionatorio previa concessione delle attenuanti generiche, e confermando nel resto) la sentenza emessa dal Tribunale di Ivrea, in data 05/07/2023, con la quale NOME COGNOME era stata condannata alla pena di giustizia in relazione al reato di cui all’art. 2 d.l.vo n. 7
del 2000, a lei ascritto in qualità di titolare dell’impresa individuale COGNOME di NOME COGNOME.
Ricorre per cassazione la COGNOME a mezzo del proprio difensore, deducendo:
2.1. Violazione di legge con riferimento alla genericità del capo di imputazio contenente solo un mero richiamo privo di indicazioni dei numeri, degli impor delle fatture, ecc.: lacune ritenute non colmabili con il riferimento alla elenc dei fornitori.
2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla riten sussistenza del reato, alla valutazione del quadro probatorio e alla man assunzione di una prova decisiva. Si censura la sentenza per aver fonda l’affermazione di responsabilità sulle sole risultanze dell’indagine amministra senza alcun autonomo accertamento in sede penale (accessi, ispezioni, escussion dei fornitori), ritenuto necessario dal momento che due fornitori avevano rispo al questionario, e che non poteva conferirsi rilievo, in tale sede, alla compil del cd. spesometro. Si contesta poi la valorizzazione della comune veste graf delle fatture, il silenzio sulla deposizione del teste COGNOME nonché la violazi dei principi in tema di valutazione della prova indiziaria.
Con requisitoria ritualmente trasmessa, il Procuratore Generale solleci una declaratoria di inammissibilità del ricorso, per la manifesta infondatezza primo motivo e la genericità delle residue doglianze.
Con memoria tempestivamente trasmessa, il difensore della ricorrente richiama i motivi svolti e sollecita una declaratoria di intervenuta prescrizio reato, essendo trascorso oltre un decennio dal 29/09/2014.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Occorre preliminarmente evidenziare la totale infondatezza della richies di annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione, formulata con memoria conclusiva dalla difesa della ricorrente in forza del prospett superamento, alla data odierna, del termine massimo decennale decorrente dalla data di consumazione del reato ascritto alla COGNOME.
Deve da un lato osservarsi che l’inammissibilità del ricorso, alla luce di qu verrà qui di seguito esposto, ha impedito una valida costituzione del rapp processuale, con conseguente irrilevanza del tempo trascorso dopo la pronunci di secondo grado, avvenuta ben prima della scadenza del termine decennale.
Solo per completezza, d’altro lato, si evidenzia l’erroneità del calcolo prescrizione prospettato dalla difesa, che evita di far riferimento ai peri sospensione di dieci e di sessantaquattro giorni, rispettivamente determinati rinvii del procedimento alle udienze del 02/12/2019 e del 25/03/2020: tenend
conto dei periodi predetti, il reato di dichiarazione fraudolenta ascritto alla COGNOME risulterebbe, comunque, alla data odierna, non ancora prescritto.
Le censure concernenti la formulazione dell’accusa risultano reiterative, e comunque manifestamente infondate.
Come fondatamente osservato nella requisitoria del Procuratore Generale, questa Suprema Corte ha avuto modo di chiarire, in una fattispecie del tutto analoga, che «in tema di reati tributari, la mancanza nel capo di imputazione di una specifica e analitica indicazione di tutte le fatture ritenute falsificate contraffatte non comporta alcuna genericità o indeterminatezza della contestazione del reato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, allorché tali documenti siano agevolmente identificabili attraverso il richiamo ad una categoria omogenea che ne renda comunque possibile la individuazione» (Sez. 3, n. 6102 del 15/01/2014, Lai, Rv. 258905 – 01. In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto sufficiente il rinvio a tutte le fatture emesse da specifici fornitori e indica dall’imputato nella dichiarazione dei redditi).
Nella specie, il capo di imputazione reca indicazioni del tutto sufficienti per l’esercizio del diritto di difesa, dal momento che le fatture sono state ripartite secondo il soggetto emittente, indicando per ciascun gruppo la somma complessiva degli importi riportati, e con l’ulteriore precisazione per cui la valutazione di oggettiva inesistenza delle operazioni sottese alle fatture era stata desunta, quanto ai primi sei fornitori indicati, dalla totale assenza di rapporti con la ricorrente e, per gli altri due, dalla mancanza di documentazione attestante l’avvenuta effettiva esecuzione delle prestazioni indicate in fattura.
Ogni residua perplessità è comunque destinata a cadere ove si consideri la valorizzazione, operata dalla Corte territoriale, del contenuto dell’avviso di accertamento notificato alla COGNOME, nel quale era stato ben specificato il perimetro della contestazione (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata): con ciò consentendo di fare piana applicazione dell’ulteriore insegnamento di questa Suprema Corte, secondo cui «in tema di citazione a giudizio, il fatto deve ritenersi enunciato in forma chiara e precisa quando i suoi elementi strutturali e sostanziali sono descritti in modo tale da consentire un completo contraddittorio e il pieno esercizio del diritto di difesa da parte dell’imputato, che viene a conoscenza della contestazione non solo per il tramite del capo d’imputazione, ma anche attraverso gli atti che fanno parte del fascicolo processuale» (Sez. 3, n. 9314 del 16/11/2023, dep. 2024, P., Rv. 286023 – 01).
Ad analoghe conclusioni di inammissibilità deve pervenirsi quanto alle residue censure, risultando anch’esse manifestamente infondate, oltre che reiterative di una prospettazione già compiutamente esaminata dalla Corte d’Appello.
Deve invero osservarsi che la sentenza impugnata, lungi dall’accontentarsi di una prospettiva fondata su presunzioni di ambito tributario, ha diffusamente esposto (pag. 4 segg.) le convergenti risultanze a carico della COGNOME
valorizzando in particolare: la eclatante differenza tra i costi contabilizzati e dichiarati dalla ricorrente (Euro 241.491) e i costi riscontrati dagli operanti (Euro 4.312); l’attivazione del contraddittorio con la COGNOME, il cui studio professionale non aveva fornito “alcuna risposta al doppio quesito circa la documentazione delle modalità di pagamento e di trasporto della merce di cui alle fatture passive utilizzate dalla ditta individuale RAGIONE_SOCIALE della COGNOME“; il silenzio mantenuto dalla ricorrente anche in sede penale su tali aspetti, all’evidenza decisivi nell’apprezzamento della fondatezza dell’ipotesi accusatoria; il carattere “anomalo e fortemente indiziante” dell’utilizzo di fatture identiche quanto a veste grafica, pur se riferibili a fornitori diversi (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).
Si tratta di un percorso argomentativo del tutto immune da illogicità e contraddittorietà qui deducibili, che rende palesemente irrilevante il mancato riferimento al teste COGNOME il quale aveva riferito di aver ripetutamente accompagnato la COGNOME in Toscana per gli acquisti delle merci di cui alle fatture: essendo agevolmente applicabile, nell’univoco contesto delineato dalle sentenze di primo e di secondo grado (valutabili congiuntamente secondo i noti principi in tema di “doppia conforme”), l’insegnamento ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo il quale «nella motivazione della sentenza il giudice del gravame non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, sicché debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, COGNOME, Rv. 281935 – 01.).
Altrettanto puntuale, oltre che giuridicamente corretta, appare la distinzione operata dalla Corte territoriale tra l’ovvia ed indiscussa legittimità dell’esercizio del diritto al silenzio anche in sede penale, da parte della COGNOME, e l’altrettanto legittima valorizzazione del principio della c.d. vicinanza della prova, richiamato in sentenza a proposito delle “modalità di pagamento e di trasporto della merce che avrebbero dovuto essere indicate nelle fatture”, con riferimento ad un reato “che si consuma mediante la dichiarazione in autocertificazione compilata e trasmessa dal contribuente” (pag. 6, cit.). Sul punto, cfr. tra le altre Sez. 2, n. 6734 de 30/01/2020, Bruzzese, Rv. 278373 – 01, secondo la quale «nell’ordinamento processuale penale, a fronte dell’onere probatorio assolto dalla pubblica accusa, anche sulla base di presunzioni o massime di esperienza, spetta all’imputato allegare il contrario sulla base di concreti ed oggettivi elementi fattuali, poiché è l’imputato che, in considerazione del principio della c.d. “vicinanza della prova”, può acquisire o quanto meno fornire, tramite l’allegazione, tutti gli elementi per provare il fondamento della tesi difensiva». In senso conforme, cfr. da ultimo Sez.
7, ord. n. 46381 del 18/10/2024, COGNOME; Sez. 4, n. 35719 del 13/06/2024, Patricola).
Le considerazioni fin qui svolte impongono una declaratoria di inammissibilità del ricorso, e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende che, tenuto conto della causa di inammissibilità, appare equo quantificare in Euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 11 dicembre 2024 (