Determinazione della pena: quando la decisione del giudice è definitiva?
La corretta determinazione della pena è uno dei momenti più delicati del processo penale. Ma fino a che punto un imputato può contestare la quantificazione della sanzione decisa dal giudice? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce sui limiti del ricorso in sede di legittimità, ribadendo un principio consolidato: la valutazione del giudice di merito è ampiamente discrezionale e, salvo casi eccezionali, insindacabile.
Il Caso in Analisi
Il caso trae origine da una condanna per un reato concernente sostanze stupefacenti, qualificato come di lieve entità ai sensi dell’art. 73, comma 5, del D.P.R. 309/1990. La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva rideterminato la pena in dieci mesi e venti giorni di reclusione, oltre a una multa di 1.600,00 euro.
L’imputato, ritenendo la sanzione ancora eccessiva, ha proposto ricorso per cassazione. L’unico motivo di doglianza riguardava la presunta violazione dell’art. 133 del codice penale, norma che elenca i criteri (gravità del reato, capacità a delinquere del reo) che il giudice deve seguire per la determinazione della pena. In sostanza, la difesa lamentava che la pena applicata fosse sproporzionata.
I limiti al sindacato sulla determinazione della pena
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, chiarendo che il motivo proposto non era deducibile in quella sede. La decisione impugnata, secondo gli Ermellini, era supportata da un apparato argomentativo coerente e rispettoso delle norme sulla commisurazione della pena.
Il Collegio ha ribadito un principio fondamentale: il giudice non è tenuto a fornire una motivazione analitica e dettagliata per ogni singolo criterio dell’art. 133 c.p. quando applica una pena contenuta entro limiti medi o vicini al minimo edittale. Una motivazione specifica e puntuale si rende necessaria solo in due situazioni:
1. Quando la pena si attesta su livelli prossimi al massimo previsto dalla legge.
2. Quando la pena è significativamente superiore alla media edittale.
In assenza di queste condizioni, la scelta del giudice di merito è considerata insindacabile, poiché si presume che sia il frutto di un’implicita valutazione di tutti gli elementi previsti dalla legge. Tentare di contestarla in Cassazione equivarrebbe a chiedere un nuovo giudizio sui fatti, compito che non spetta alla Suprema Corte, quale giudice di legittimità e non di merito.
Le Motivazioni della Decisione
La ragione di questo orientamento risiede nella distinzione dei ruoli tra i diversi gradi di giudizio. I giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello) hanno il compito di ricostruire i fatti e valutare le prove. La determinazione della pena rientra in questa sfera di valutazione discrezionale, guidata dai criteri di legge. La Corte di Cassazione, invece, ha il compito di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge. Non può, quindi, sostituire la propria valutazione a quella del giudice di merito sulla congruità della pena, a meno che quest’ultima non sia palesemente illegittima, arbitraria o del tutto priva di motivazione nei casi in cui essa è specificamente richiesta.
Nel caso di specie, la pena inflitta era ben lontana dal massimo edittale, rientrando in una fascia considerata media o prossima al minimo. Pertanto, la scelta della Corte d’Appello è stata ritenuta espressione di un corretto esercizio del potere discrezionale, non censurabile in sede di legittimità.
Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche
Questa ordinanza conferma che i ricorsi per cassazione basati unicamente sulla presunta eccessività della pena hanno scarse probabilità di successo se non sono supportati dalla denuncia di una palese violazione di legge o da un vizio logico manifesto della motivazione. Per i difensori, ciò significa che l’appello contro la quantificazione della pena deve concentrarsi sulla dimostrazione di un’errata applicazione dei criteri legali o di un’irragionevolezza della decisione, piuttosto che su una generica richiesta di riduzione. Per l’imputato, la decisione di ricorrere in Cassazione deve essere ponderata attentamente, poiché l’inammissibilità comporta, come in questo caso, la condanna al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle ammende.
È possibile ricorrere in Cassazione lamentando solo che la pena inflitta sia troppo alta?
Generalmente no. Secondo la Corte, un ricorso è inammissibile se si limita a contestare l’entità della pena senza denunciare una specifica violazione di legge o un vizio di motivazione. La valutazione della congruità della pena è riservata al giudice di merito.
Quando il giudice deve motivare in modo specifico la misura della pena?
La sentenza chiarisce che una motivazione specifica e dettagliata sulla pena è richiesta solo quando questa è quantificata in una misura prossima al massimo previsto dalla legge (massimo edittale) o comunque superiore alla media. Per pene medie o vicine al minimo, la motivazione può essere anche implicita.
Cosa succede se un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile?
Se il ricorso è dichiarato inammissibile, il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di denaro in favore della Cassa delle ammende. Nel caso specifico, la somma è stata fissata in 3.000,00 euro.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 30843 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 30843 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 03/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a SIRACUSA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 24/05/2023 della CORTE APPELLO di CATANIA
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Con sentenza del 24 maggio 2023 la Corte di appello di Catania, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale di Siracusa del 24 novembre 2021, ha ridotto la pena inflitta a COGNOME NOME nella misura di mesi dieci, giorni venti di reclusione ed euro 1.600,00 di multa in ordine al reato di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore, deducendo, con un unico motivo, violazione di legge in materia della valutazione della gravità del reato agli effetti della pena ex art. 133 cod. pen., lamentando l’eccessiva entità della sanzione applicatagli.
Il ricorso dève essere dichiarato inammissibile, in quanto proposto con motivo non deducibile in questa sede di legittimità.
Il Collegio rileva, infatti, come la decisione impugnata risulti sorretta da conferente apparato argomentativo, di pieno rispetto della previsione normativa quanto all’effettuata determinazione del trattamento sanzionatorio.
Una specifica e dettagliata motivazione in merito ai criteri seguiti dal giudice nella determinazione della pena, infatti, si richiede solo nel caso in cui la sanzione sia quantificata in misura prossima al massimo edittale o comunque superiore alla media, risultando insindacabile, in quanto riservata al giudice di merito, la scelta implicitamente basata sui criteri di cui all’art. 133 cod. pen. d irrogare – come disposto nel caso di specie – una pena in misura media o prossima al minimo edittale (così, tra le altre: Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243-01; Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013, COGNOME, Rv. 25835601; Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, COGNOME, Rv. 256464-01; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, COGNOME, Rv. 256197-01).
All’inammissibilità del ricorso segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi ragioni di esonero (Corte Cost., sent. n. 186/2000).
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 3 aprile 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente