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Detenzione stupefacenti: reato anche con basso THC

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per detenzione stupefacenti ai fini di spaccio, nonostante il basso contenuto di THC della sostanza. La sentenza chiarisce che il reato sussiste se è provata la finalità di vendita e la sostanza possiede una minima efficacia drogante, rendendo irrilevante il superamento delle soglie di legge per la cannabis light.

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Pubblicato il 20 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Detenzione Stupefacenti: Quando la Cannabis Light Diventa Reato

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ribadisce un principio cruciale in materia di detenzione stupefacenti, specificando che anche la cannabis con un basso contenuto di THC può configurare un reato. La decisione chiarisce che il fattore determinante non è solo la percentuale di principio attivo, ma la finalità della detenzione: se è provato l’intento di spaccio, la condotta assume rilevanza penale.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine dalla condanna di un individuo da parte della Corte d’Appello, che aveva confermato la decisione di primo grado. L’imputato era stato ritenuto responsabile del reato previsto dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. 309/90 per aver detenuto sostanza stupefacente ai fini di spaccio. La pena inflitta era di quattro mesi di reclusione e 800 euro di multa, con pena sospesa.

L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su diversi motivi, tra cui:
1. La violazione della legge 242/2016 (sulla canapa industriale), sostenendo che le percentuali di THC rinvenute fossero inferiori allo 0,60%, rendendo la sostanza legalmente detenibile.
2. La non configurabilità del reato, poiché il quantitativo di principio attivo era inferiore alla “quantità media detenibile”.
3. L’illogicità della motivazione, che da un lato riconosceva la bassissima percentuale di THC e dall’altro affermava la responsabilità penale.

La Decisione della Corte di Cassazione sulla Detenzione Stupefacenti

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendolo manifestamente infondato. Secondo i giudici, il ricorso ignorava completamente le argomentazioni della sentenza d’appello, la quale aveva già ampiamente dimostrato, sulla base delle prove, che la detenzione era finalizzata alla cessione a terzi e non all’uso personale. Questo mancato confronto con la motivazione della decisione impugnata ha reso il ricorso aspecifico e, quindi, inammissibile.

Le Motivazioni

La Corte ha smontato punto per punto le argomentazioni difensive, basandosi su principi giuridici consolidati. In primo luogo, ha ribadito che l’introduzione di limiti massimi di THC (legge 242/2016) non ha modificato la struttura del reato di detenzione stupefacenti. Anche quantitativi inferiori a tali soglie possono integrare il reato se una valutazione globale del contesto (modalità di confezionamento, presenza di strumenti per la pesatura, etc.) dimostra una finalità diversa dall’uso personale.

Il punto centrale della motivazione risiede nel richiamo a una fondamentale sentenza delle Sezioni Unite (n. 30475 del 2019). Tale pronuncia ha stabilito che la commercializzazione di derivati della cannabis sativa L. (foglie, inflorescenze) costituisce reato ai sensi dell’art. 73 d.P.R. 309/90, anche se il contenuto di THC è inferiore ai valori soglia, a meno che tali derivati siano concretamente “privi di ogni efficacia drogante o psicotropa”.

L'”efficacia drogante”, precisa la Corte, non significa necessariamente produrre un effetto potente, ma indica una qualsiasi attitudine a modificare, anche in modo trascurabile, l’assetto neuropsichico dell’utilizzatore. Nel caso di specie, l’imputato non aveva nemmeno allegato che la sostanza sequestrata fosse completamente priva di tale effetto. Di conseguenza, essendo presente una percentuale apprezzabile di THC e provata la destinazione allo spaccio, la condotta assumeva pieno rilievo penale.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un orientamento giurisprudenziale rigoroso. La distinzione tra la cannabis “light”, legalmente commerciabile secondo la legge 242/2016, e la sostanza stupefacente illecita non dipende unicamente dalla percentuale di THC. Il discrimine fondamentale è la finalità della condotta e l’effettiva capacità della sostanza di produrre effetti psicotropi.

In pratica, chiunque detenga derivati della canapa con l’intento di venderli al pubblico per il consumo si espone al rischio di una condanna per detenzione stupefacenti, anche se il prodotto rispetta formalmente i limiti di THC. La valutazione del giudice si baserà su un’analisi complessiva degli indizi per determinare se la detenzione sia riconducibile a un lecito uso previsto dalla normativa sulla canapa industriale o a un’illecita attività di spaccio.

La detenzione di cannabis con un THC inferiore allo 0,60% è sempre legale?
No. Secondo la Corte, se la detenzione è finalizzata alla cessione a terzi (vendita) e la sostanza possiede una seppur minima “efficacia drogante”, integra il reato di detenzione di stupefacenti, a prescindere dalla percentuale di principio attivo.

Cosa rende un ricorso in Cassazione inammissibile in questo caso?
Un ricorso è inammissibile quando è manifestamente infondato o aspecifico. In questo caso, l’imputato non si è confrontato puntualmente con le motivazioni della sentenza che stava impugnando, le quali avevano già accertato la finalità di spaccio, ma si è limitato a riproporre argomenti generici sulla percentuale di THC.

Qual è il criterio decisivo per distinguere la detenzione lecita da quella illecita di cannabis a basso THC?
Il criterio decisivo non è solo la percentuale di THC, ma la finalità della detenzione. Se, sulla base di una valutazione globale degli elementi, emerge che la sostanza è destinata alla vendita e non all’uso meramente personale, e ha un qualsiasi effetto psicotropo, la condotta assume rilevanza penale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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