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Detenzione materiale pedopornografico: il cloud è reato

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33869/2025, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato agli arresti domiciliari per detenzione e diffusione di materiale pedopornografico. La Corte ha ribadito un principio fondamentale: la disponibilità di file illegali su servizi di cloud storage, come chat o archivi virtuali, integra pienamente il reato di detenzione materiale pedopornografico. Anche l’aggravante dell’ingente quantitativo è stata confermata, basandosi sul numero assoluto di file rinvenuti, superiore al migliaio.

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Pubblicato il 25 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Detenzione materiale pedopornografico: anche i file su cloud e chat sono reato

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione affronta un tema cruciale nell’era digitale: la configurabilità del reato di detenzione materiale pedopornografico (art. 600-quater c.p.) quando i file non si trovano fisicamente su un dispositivo, ma sono archiviati su servizi cloud o accessibili tramite applicazioni di messaggistica. La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato, confermando la misura cautelare e consolidando un principio di diritto fondamentale: la disponibilità virtuale equivale a detenzione reale.

I Fatti: La scoperta del materiale illecito

Il caso ha origine da un’indagine su un vasto fenomeno di detenzione e condivisione di materiale pedopornografico tramite piattaforme online. Le attività investigative hanno condotto all’identificazione e all’arresto in flagranza di un soggetto. La perquisizione del suo domicilio e l’analisi del suo smartphone hanno rivelato una quantità enorme di materiale illecito.

Nello specifico, sono stati rinvenuti:
* Oltre 590 video nella cache di un’applicazione di messaggistica.
* Quasi 1.900 file tra video e foto nella sezione “messaggi salvati” della stessa app.
* Più di 490 file in un servizio di cloud storage, raffiguranti minori, anche neonati, in atti sessuali e scene di particolare crudeltà.

Le indagini hanno inoltre accertato che l’imputato aveva attivamente condiviso alcuni di questi file attraverso due chat private.

Le argomentazioni della difesa

La difesa aveva impugnato l’ordinanza di arresti domiciliari lamentando diversi vizi. In sintesi, sosteneva che la mera archiviazione su cloud non potesse configurare una “detenzione” penalmente rilevante, che mancasse la prova del dolo e che non fosse stata accertata l’età minore dei soggetti ritratti. Contestava inoltre l’aggravante dell’ingente quantitativo e la sussistenza delle esigenze cautelari.

Detenzione materiale pedopornografico: l’analisi della Corte

La Cassazione ha respinto tutte le censure, ritenendo il ricorso manifestamente infondato e, quindi, inammissibile. Le motivazioni della Corte offrono chiarimenti importanti su come il diritto penale si adatta alle nuove tecnologie.

La detenzione nell’era digitale: file su cloud e chat

Il punto centrale della decisione riguarda la nozione di “detenzione”. La Corte ribadisce con forza che la disponibilità di file fruibili, senza limiti di tempo e di luogo, mediante accesso a un archivio virtuale con credenziali personali, integra pienamente il reato. Non è necessario che i file siano scaricati e salvati sulla memoria fisica di un computer o di uno smartphone.

Secondo la Suprema Corte, integra la detenzione penalmente rilevante la disponibilità di file archiviati sul cloud di una chat di gruppo, accessibili tramite le proprie credenziali. Questo perché l’utente ha il pieno controllo e la facoltà di accedere a quel materiale in qualsiasi momento. La Corte precisa anche che la semplice cancellazione, spostando i file nel “cestino” virtuale, non esclude il reato, poiché restano facilmente recuperabili. Il reato cessa solo con la cancellazione definitiva e irreversibile.

L’aggravante dell’ingente quantitativo

Anche riguardo all’aggravante della “ingente quantità”, la Corte fornisce una lettura rigorosa. Il dato quantitativo, spiega la sentenza, deve essere inteso in senso “assoluto”, cioè basato sul numero oggettivo di supporti e file detenuti. Non va relativizzato o messo in rapporto con altri file di natura lecita. La giurisprudenza ha da tempo indicato che il superamento del centinaio di immagini è già un indice sufficiente per configurare l’aggravante. Nel caso di specie, con migliaia di file, ogni dubbio è stato fugato.

Le esigenze cautelari e la presunzione di pericolosità

Infine, la Corte ha confermato la correttezza della valutazione sulle esigenze cautelari. Per reati come la detenzione materiale pedopornografico, la legge prevede una presunzione di pericolosità, che impone la custodia cautelare (in questo caso mitigata negli arresti domiciliari) a meno che non emergano prove concrete della sua insussistenza. L’imputato non aveva mostrato alcun segno di resipiscenza e non aveva eliminato il materiale, potendo accedervi in ogni momento. Il Tribunale del riesame ha quindi correttamente ritenuto che un presidio non custodiale avrebbe permesso al soggetto di rientrare facilmente in contatto con “il perverso ambiente della pedopornografia”.

le motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su un’interpretazione della legge penale adeguata alla realtà tecnologica. Riconoscere la detenzione anche nella disponibilità virtuale su cloud è essenziale per contrastare efficacemente la circolazione di materiale abominevole. La Corte sottolinea che ciò che conta è il dominio e la possibilità di accesso al file, non la sua collocazione fisica. La gravità del reato, aggravato dall’ingente quantità, e la presunzione di pericolosità sociale dell’autore giustificano pienamente il mantenimento della misura cautelare, ritenendo che il contesto familiare potesse vigilare e supportare un percorso di recupero, evitando il rischio di recidiva che una libertà non controllata avrebbe comportato.

le conclusioni

Questa sentenza rappresenta un’importante conferma della linea dura della giurisprudenza contro i reati di pedopornografia online. Stabilisce in modo inequivocabile che nascondere file illegali su piattaforme cloud o chat non mette al riparo da responsabilità penali. La “detenzione” è un concetto che si estende al dominio virtuale, e la quantità di materiale, valutata in termini assoluti, rimane un fattore decisivo per determinare la gravità del reato. È un monito chiaro: la disponibilità e l’accesso a materiale pedopornografico, a prescindere dal supporto, costituisce un reato grave, perseguito con fermezza dall’ordinamento.

Avere file pedopornografici su un servizio cloud o in una chat è considerato reato di detenzione?
Sì. La Corte di Cassazione ha stabilito che la disponibilità di file di tale natura in un archivio virtuale (come un cloud storage o la sezione ‘messaggi salvati’ di una chat), accessibile tramite le proprie credenziali personali, integra pienamente il reato di detenzione, poiché l’utente ne ha il pieno controllo e la facoltà di accesso in qualsiasi momento.

Cosa si intende per ‘ingente quantitativo’ di materiale pedopornografico?
Si riferisce al numero assoluto e oggettivo di file (immagini o video) detenuti. Non è un concetto relativo, ma basato sulla mera quantità. La giurisprudenza ha chiarito che già il possesso di un centinaio di immagini può essere sufficiente a configurare questa circostanza aggravante. Nel caso di specie, il rinvenimento di oltre mille file è stato considerato ampiamente sufficiente.

La semplice cancellazione dei file, spostandoli nel ‘cestino’, è sufficiente a escludere il reato?
No. La Corte ha affermato che l’allocazione dei file nel ‘cestino’ di un sistema operativo non equivale alla cessazione della detenzione, poiché essi restano comunque disponibili e recuperabili con una semplice operazione. Il reato cessa solo nel momento in cui i file vengono cancellati in modo definitivo e irreversibile.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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