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Detenzione inumana: quando si ha diritto al risarcimento?

Un detenuto ha richiesto un risarcimento per detenzione inumana a causa della carenza di acqua potabile e della vicinanza di un carcere a una discarica. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, distinguendo tra ‘mero disagio’ e trattamento inumano e degradante. Poiché al detenuto era garantito spazio sufficiente e fornitura di acqua in bottiglia, le condizioni non sono state ritenute abbastanza gravi da giustificare un indennizzo.

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Pubblicato il 10 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Detenzione inumana: la Cassazione traccia il confine tra disagio e violazione dei diritti

Il tema delle condizioni carcerarie e del rispetto della dignità dei detenuti è centrale nel nostro ordinamento giuridico. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 13027/2024) offre importanti chiarimenti su quando le condizioni di restrizione possano configurare una detenzione inumana, tale da giustificare un risarcimento ai sensi dell’art. 35-ter dell’ordinamento penitenziario. Questo articolo analizza la decisione, spiegando la distinzione fondamentale tra un ‘mero disagio’ e un trattamento lesivo dei diritti fondamentali.

Il caso: reclamo per condizioni di detenzione inumana

La vicenda nasce dal ricorso di un detenuto contro la decisione del Tribunale di Sorveglianza, che aveva respinto la sua richiesta di risarcimento per le condizioni patite in due diversi istituti penitenziari tra il 2017 e il 2020.

I motivi del ricorso

Il ricorrente lamentava due principali violazioni:
1. Una questione procedurale: sosteneva che il Tribunale avesse erroneamente escluso dal calcolo un periodo di detenzione, nonostante un provvedimento della Corte di Appello avesse successivamente riconosciuto la continuazione tra i reati, unificando di fatto l’esecuzione della pena. A suo avviso, questa unificazione avrebbe dovuto estendere automaticamente l’ambito della sua richiesta di risarcimento.
2. Una questione di merito: denunciava le condizioni di vita in uno degli istituti, sottolineando la prolungata carenza di acqua potabile e la presenza di odori molesti dovuti alla vicinanza dell’istituto a un impianto di trattamento dei rifiuti, fattori che avrebbero arrecato un danno alla sua salute e igiene.

L’analisi della Cassazione sulla detenzione inumana

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato su entrambi i fronti. L’analisi dei giudici fornisce una guida preziosa per interpretare i requisiti della detenzione inumana.

La gestione della domanda risarcitoria

Sul primo punto, la Corte ha chiarito che il provvedimento di unificazione della pena era stato emesso quasi tre mesi dopo l’avvio del procedimento di reclamo. Pertanto, il Magistrato di Sorveglianza aveva correttamente limitato la sua valutazione al periodo oggetto della domanda originaria. La Corte ha sottolineato che il ricorrente avrebbe potuto (e dovuto) presentare una nuova e autonoma istanza per il periodo di detenzione aggiuntivo, senza poter pretendere un’estensione automatica del procedimento già in corso.

La valutazione delle condizioni di vita e la soglia della detenzione inumana

Sul secondo e più sostanziale motivo, la Cassazione ha confermato la valutazione del Tribunale di Sorveglianza. Pur riconoscendo le problematiche esistenti nell’istituto (difficoltà di approvvigionamento idrico e odori sgradevoli), i giudici hanno ritenuto che tali circostanze non raggiungessero la soglia di gravità necessaria per configurare un trattamento inumano e degradante.

La Corte ha basato questa conclusione su un principio fondamentale: quando al detenuto è garantito uno spazio individuale superiore ai quattro metri quadrati (come nel caso di specie), si presume che la detenzione sia conforme al senso di umanità. Per superare questa presunzione, il detenuto deve dimostrare la presenza di altre condizioni negative gravi e cumulative.

Le motivazioni della decisione

Nelle motivazioni, la Corte ha spiegato che, nonostante il mancato allaccio alla rete idrica comunale, l’amministrazione penitenziaria aveva adottato misure compensative efficaci. In particolare, era sempre stata assicurata la fornitura di acqua in bottiglia in quantità adeguata, oltre al riempimento dei serbatoi con acqua controllata dalle autorità sanitarie. Questa misura, secondo i giudici, è sufficiente a garantire il diritto fondamentale all’acqua.

Per quanto riguarda gli odori provenienti dall’impianto di trattamento rifiuti, la Corte ha rilevato che le attività ispettive non avevano evidenziato ‘esalazioni nocive per la salute o particolari criticità’. Di conseguenza, la situazione è stata qualificata come ‘mero disagio’, collegato a un contesto di vita poco confortevole ma non così grave da tradursi in un trattamento inumano. La Corte ha anche distinto questo caso da precedenti sentenze favorevoli ad altri detenuti dello stesso istituto, i quali, a differenza del ricorrente, disponevano di uno spazio individuale inferiore ai quattro metri quadrati.

Le conclusioni della Corte

Con questa sentenza, la Cassazione ribadisce che non ogni disagio o difficoltà patita in carcere costituisce automaticamente una violazione dei diritti fondamentali. Per ottenere un risarcimento per detenzione inumana, è necessario dimostrare un pregiudizio grave che superi una soglia di tollerabilità. La disponibilità di uno spazio vitale adeguato crea una presunzione di legittimità delle condizioni detentive, che può essere vinta solo provando la presenza di ulteriori fattori negativi cumulativi e di particolare gravità, cosa che nel caso specifico non è avvenuta. La decisione sottolinea l’importanza di un’analisi caso per caso, basata su prove concrete e non su generiche lamentele.

Quando le condizioni carcerarie giustificano un risarcimento per detenzione inumana?
Secondo la Corte, è necessario che il pregiudizio patito dal detenuto sia grave e superi la soglia del ‘mero disagio’. Se lo spazio individuale è superiore a 4 mq, il detenuto deve dimostrare la presenza di ulteriori fattori negativi significativi e cumulativi che rendano la detenzione un trattamento inumano o degradante.

La mancanza di acqua potabile corrente in carcere è sufficiente per ottenere un risarcimento?
No, non necessariamente. Se l’amministrazione penitenziaria sopperisce alla mancanza di acqua potabile corrente fornendo acqua in bottiglia in quantità adeguate e garantendo l’igiene tramite serbatoi di acqua controllata, questa misura è considerata sufficiente a tutelare i diritti del detenuto. La condizione diventa risarcibile solo se tale fornitura alternativa manca o è insufficiente.

È possibile estendere una richiesta di risarcimento già in corso per includere un nuovo periodo di detenzione unificato da un provvedimento di continuazione?
No. La Corte ha chiarito che se il provvedimento che unifica le pene (riconoscendo la continuazione) interviene quando il procedimento di reclamo è già stato avviato, esso non può estendere automaticamente l’oggetto della domanda. Il detenuto deve presentare una nuova e autonoma istanza per il periodo di detenzione non incluso nella richiesta originaria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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