Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 187 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 187 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 25/10/2023
SENTENZ:A
sul ricorso proposto da:
NOME nato a FERRARA il 22/11/1982
avverso la sentenza del 04/11/2022 della CORTE APPELLO di 130LOGNA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente alle censure formulate con il quarto motivo di ricorso, e l’inammissibilità nel resto.
udito il difensore avv. COGNOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 14 gennaio 2021 il Tribunale di Ferrara, in rito ordinario, ha condannato NOME COGNOME alla pena di 4 anni di reclusione e 9.000 euro di multa, oltre statuizioni accessorie per i seguenti reati commessi in Ferrara il 13 novembre 2017:
reato degli artt. 2 e 7 I. 2 ottobre 1967, n. 895, perché deteneva illegalmente alcune armi comuni da sparo descritte nel capo A dell’imputazione,
reato dell’articolo 221 t.u.l.p.s. e 58 regolamento t.u.l.p.s. perché aveva omesso di dare avviso all’autorità di pubblica sicurezza delle cessioni di alcune armi da sparo descritte nel capo B dell’imputazione,
reato dell’articolo 20 I. 18 aprile 1975, n. 110 perché aveva omesso di custodire con la dovuta diligenza una ulteriore pistola, descritta nel capo C dell’imputazione, già regolarmente detenuta ma non rinvenuta in suo possesso.
Con sentenza del 4 novembre 2022 la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha rideterminato la pena inflitta in 3 anni, 5 mesi, 15 giorni di reclusione e 8.000 euro di multa, e confermato nel resto la sentenza di primo grado.
In particolare, i giudici del merito hanno ritenuto accertato che nel corso del mese di ottobre 2017 COGNOME si fosse recato presso due armerie di Mirandola e di Ferrara per vendere ed acquistare ripetutamente armi da sparo, talora anche più volte nello stesso giorno; la circostanza aveva suscitato i sospetti dei titolari delle armerie che avevano riferito in giudizio di aver richiamato COGNOME sul numero complessivo di armi legalmente detenibili, uno di essi aveva riferito di aver confidato quanto stava accadendo ad un altro cliente abituale, che era ufficiale dei Carabinieri.
Era, quindi, accaduto che il 13 novembre 2017 i Carabinieri avevano perquisito l’abitazione di tale NOME COGNOME ed avevano rinvenuto una pistola, contrassegnata da numero di matricola, che risultava in realtà acquistata da COGNOME presso l’armeria di Mirandola, pistola di cui COGNOME, però, non aveva mai denunciato né la detenzione né la successiva cessione al COGNOME.
Lo stesso giorno i Carabinieri avevano perquisito anche tale NOME COGNOME rinvenendo altra pistola, contrassegnata da numero di matricola, che risultava anch’essa essere acquistata da COGNOME presso un’armeria di Ferrara.
I Carabinieri avevano poi perquisito anche l’abitazione di Grillanda, che risultava legalmente detenere due armi comuni da sparo, e ne avevano rinvenuta soltanto una (una Ruger) mentre non avevano trovato l’altra (una Colt).
I titolari delle due armerie avevano confermato in giudizio gli acquisti e le cessioni intervenute con COGNOME ed avevano riferito di averle annotate nei registri, uno di essi aveva anche riferito che le ricevute degli acquisti erano sottoscritte anche da COGNOME.
Il testimone assistito COGNOME aveva riferito di conoscere COGNOME, di essersi recato insieme a lui in un’armeria, di aver concluso con lui un accordo riguardo la
cessione di un’arma a cui non era seguita la materiale consegna della stessa, aveva negato di aver ricevuto da COGNOME una pistola Taurus e una Colt Cobra ed aveva riferito che la pistola CZ rinvenuta’ nella sua abitazione gli era stata consegnata da COGNOME il giorno prima della perquisizione.
Il testimone assistito COGNOME aveva sostenuto di non conoscere l’imputato e di aver trovato la pistola Taurus rinvenuta presso la sua abitazione in un borsone nascosto sotto una panchina del parco dove si recava a fare attività sportiva.
L’imputato COGNOME aveva, invece, dichiarato che la pistola rinvenuta presso l’abitazione di Tassi l’aveva consegnata lui a COGNOME insieme alla Colt Cobra ancora formalmente in suo possesso (in cambio di una Smith e COGNOME che, però, non gli era mai stata consegnata), e che con COGNOME c’era un rapporto di amicizia e di fiducia.
COGNOME aveva ammesso le cessioni di armi alle due armerie, aveva negato il riacquisto delle stesse, così come aveva negato di aver mai acquistato le armi che pure risultavano essergli state vendute in base ai registri delle armerie, aveva disconosciuto le firme apparentemente a lui riconducibili apposte sulle dichiarazioni di vendita dell’armeria di Ferrara.
All’esito dell’esame di questo complesso materiale probatorio, i giudici del merito avevano ritenuto COGNOME responsabile dei reati indicati all’inizio di questa sentenza.
Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso l’imputato, per il tramite del difensore, con i seguenti motivi di seguito descritti nei limit strettamente necessari ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Con il primo motivo deduce motivazione manifestamente illogica o contraddittoria con riferimento alla condanna per i capi A e B dell’imputazione, perché la Corte di appello ha ritenuto dimostrata l’effettiva disponibilità delle armi in capo agli armaioli, che è il presupposto in fatto della successiva disponibilità delle stesse in capo all’imputato, sulla base di un iter logico contraddittorio perché è stato attribuito valore di prova ai documenti di vendita delle armerie ed alle testimonianze rese in tal senso dagli armaioli, la prova è stata ricavata quindi sulla base di una valutazione indiretta ed a ritroso di documenti prodotti unilateralmente; l’istruttoria in realtà non ha fornito nessuna prova che le due armerie avessero effettiva disponibilità delle armi alle date delle cessioni, i documenti delle armerie e le dichiarazioni degli armaioli non possono esserne prova perché questi venditori hanno un interesse concreto nel processo uguale e contrario a quello dell’imputato; i registri di presa in carico delle armi da parte delle armerie e le fatture, inoltre, non sono stati acquisiti o almeno esibiti.
Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione con riferimento alla condanna per i capi A e B della imputazione, perché, anche ammessa la
sussistenza del fatto presupposto, ovvero che le armi fossero nella effettiva disponibilità degli armaioli, il giudice d’appello è giunto alla conclusione che l’agente che le ha acquistate dovesse essere proprio COGNOME; in realtà, di ciò non vi è prova in atti, perché la compilazione dei registri è avvenuta in modo unilaterale soltanto da parte delle armerie, registri che comunque non sono stati né esibiti né prodotti; d’altronde, gli armaioli avevano a disposizione la copia dei documenti di COGNOME; non vi è, peraltro, prova di pagamenti tracciabili per queste operazioni di acquisto, gli unici documenti disponibili sono le dichiarazioni di vendita delle due armerie inviate ai Carabinieri, forse addirittura tramite e-mail, cui i giudici del merito hanno attribuito una sorta di fede privilegiata.
Con il terzo motivo lamenta vizio di motivazione con riferimento alla condanna per la pistola indicata al n. 3 del capo B dell’imputazione (la Taurus) e di quella del capo C dell’imputazione (la Colt); la Corte di appello ha ritenuto provato l’elemento soggettivo del reato sulla base di due elementi di prova, la cui valutazione concreta risulta però opinabile; il primo è costituito dal maggior peso specifico che il giudice d’appello ha attribuito alla deposizione resa dal testimone assistito COGNOME rispetto alle dichiarazioni fornite dall’imputato, anche se queste ultime erano coerenti mentre le prime non lo erano; l’imputato, in particolare, ha sostenuto di aver raggiunto con COGNOME l’accordo per vendere le due pistole ed acquistare la Smith and Wesson e di aver consegnato le due armi senza ricevere in cambio l’altra; il giudice d’appello, invece, malgrado le univoche risultanze circa l’avvenuta cessione delle due armi, ha fatto proprie le dichiarazioni di COGNOME ritenendo essere le due armi ancora detenute da COGNOME.
Con il quarto motivo deduce vizio di motivazione per l’omessa applicazione della diminuente di cui all’ad 7 I. 1967 n. 895 e per l’errato cumulo tra reati puniti con pene eterogenee; in particolare, si deduce che sul punto la difesa aveva proposto motivo d’appello su cui non vi è stata alcuna risposta nella sentenza impugnata.
3. La difesa dell’imputato ha chiesto la discussione orale.
Con requisitoria orale il Procuratore generale della Cassazione, dr. NOME COGNOME ha concluso per l’accoglimento del quarto motivo di ricorso, e l’inammissibilità nel resto.
Il difensore del ricorrente, avv. NOME COGNOME ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Considerato in diritto
Il ricorso è inammissibile.
Il primo ed il secondo motivo riguardano la medesima questione, ovvero il giudizio di responsabilità dell’imputato per i reati descritti ai capi A e B.
Il primo motivo affronta il tema a monte della disponibilità, da parte delle armerie di Mirandola e Ferrara su cui si è concentrato il giudizio, delle armi citate nei capi di imputazione, il secondo motivo riguarda il tema a valle del se debba essere identificato o meno in Grillanda il cliente che ha acquistato quelle armi.
Entrambi i motivi sono inammissibili, perché si risolvono in una richiesta di rivalutazione delle prove.
Nel giudizio di legittimità il sindacato sulla correttezza della valutazione della prova è molto ristretto, perchè non può consistere nella rivalutazione della gravità, della precisione e della concordanza degli indizi, dato che ciò comporterebbe apprezzamenti riservati al giudice di merito, ma deve limitarsi al controllo logico e giuridico della struttura della motivazione, al fine di verificare se sia stata data esatta applicazione ai criteri legali ed alle regole della logica nell’interpretazione dei risultati probatori.
L’ambito di sindacato è ancora più ristretto in caso, quale quello in esame, in cui il giudizio sulla prova è oggetto di doppia conforme, atteso che nel caso in cui una statuizione della pronuncia di primo grado sia confermata in appello, ai fini del controllo di legittimità, la motivazione della sentenza di primo grado e quella della sentenza di appello si integrano vicendevolmente (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595).
Nel caso in esame, il ricorrente ritiene sia illogico aver desunto la prova della responsabilità dell’imputato da documenti formati in modo unilaterale dai titolari delle armerie, quali i registri e le ricevute di compravendita delle armi, e dalle loro deposizioni in giudizio, ma “in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito” (Sez. 6, Sentenza n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601)
Né rende illogica la motivazione della sentenza impugnata la circostanza che possano non essere stati acquisiti gli originali dei registri (Sez. 5, Sentenza n. 8736 del 16/01/2018, P.C. in proc. COGNOME, Rv. 272417), o che essi siano entrati nel processo attraverso la testimonianza degli ufficiali di polizia giudiziaria (Sez. 3, Sentenza n. 47666 del 14/07/2022, COGNOME, Rv. 283827) o che le ricevute di acquisto possano essere state disconosciute dall’imputato (Sez. 2, Sentenza n. 52017 del 21/11/2014, Lin, Rv. 261627).
Resta, invece, una ipotesi congetturale quella introdotta nel ricorso, secondo cui la disponibilità da parte degli armaioli dei documenti di Grillanda potrebbe averne permesso agli stessi l’utilizzo senza il suo consenso; il motivo formulato su elementi meramente ipotetici o congetturali è inidoneo a determinare una manifesta illogicità della motivazione (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 3817 del 09/10/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278237).
In definitiva, il ricorso censura quali profili di illogicità della motivazione quell che sono in realtà conclusioni cui è pervenuto il giudice del merito sulla base della valutazione del materiale probatorio, e le doglianze mosse dal ricorrente si risolvono in una ricostruzione alternativa delle evidenze probatorie, che di per sé non è apprezzabile in sede di legittimità (Sez. 2, Sentenza n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747; Sez. 3, Sentenza n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217; Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, COGNOME, Rv. 270519), e che conduce alla dichiarazione di inammissibilità dei primi due motivi.
Il terzo motivo deduce vizio di motivazione con riferimento alla condanna per la pistola indicata al n. 3 del capo B dell’imputazione (la Taurus) e di quella del capo C dell’imputazione (la Cote.
In particolare, il ricorrente evidenzia che la sentenza di appello ha ritenuto provato l’elemento soggettivo del reato attribuendo maggior peso specifico alla deposizione resa dal testimone assistito COGNOME rispetto alle dichiarazioni fornite dall’imputato.
Il motivo è inammissibile, anzitutto perché chiede una rivalutazione del peso da attribuire nella valutazione della prova alle deposizioni dei dichiaranti, in un contesto che è regolato dalla libera valutazione delle prove da parte del giudice del merito e con una motivazione sul punto della pronuncia di appello (“quanto al contrasto fra le dichiarazioni del teste COGNOME e dell’imputato deve rimarcarsi che, a prescindere dalla maggiore attendibilità delle dichiarazioni di un testimone obbligato a dire la verità rispetto a quelle di un imputato non soggetto al medesimo obbligo, ciò che è oggettivamente emerso è che la pistola Taurus era stata acquistata da COGNOME in data 28 ottobre presso l’armeria di Mirandola e che venne successivamente rinvenuta nella perquisizione domiciliare del 13 novembre nella disponibilità di COGNOME; ciò che è certo è che COGNOME ebbe a cedere la predetta arma o direttamente a COGNOME o a COGNOME o ad altre persone che la cedette a COGNOME; in entrambi i casi COGNOME ha omesso di effettuare l’avviso di cessione, sicché il reato è pacificamente integrato”), che è esente da profili di illogicità.
Il motivo, inoltre, è inammissibile, anche perché non specifico, atteso che esso non si confronta con la motivazione della pronuncia impugnata, secondo cui il
giudizio di responsabilità per l’omessa custodia dell’arma regolarmente detenuta da parte dell’imputato, ma non rinvenuta presso lo stesso, deriva non dal peso attribuito alle dichiarazioni del testimone assistito, ma dal semplice mancato rinvenimento in sede di perquisizione presso l’imputato (“quanto al reato di cui al capo C anche in tal caso, a prescindere dal contrasto tra le dichiarazioni di COGNOME e COGNOME, è pacifico che la pistola Colt fosse regolarmente detenuta da COGNOME ma che non venne trovata in suo possesso, da ciò discende, qualunque sorte l’arma abbia avuto, l’integrazione del reato contestato, posto che è indubbio che al momento dell’accertamento COGNOME non stesse custodendo l’arma con la dovuta diligenza”).
E’ inammissibile anche il quarto motivo, che deduce vizio di motivazione in punto di trattamento sanzionatorio.
Il motivo contiene due argomenti.
3.1. Il primo argomento deduce l’omessa applicazione della diminuente di cui all’art. 7 I. n. 895 del 1967.
L’argomento è manifestamente infondato, perché l’ipotesi che non sia stata applicata la diminuente dell’art. 7 è una mera congettura del ricorrente inidonea a viziare la motivazione della sentenza impugnata (cfr. pronuncia Mannile citata sopra).
Infatti, in primo grado la pena è stata determinata in questo modo:
pena base per il capo A: 3 anni e 4 mesi di reclusione ed 8.000 euro di multa;
aumentata per la continuazione con il capo B a 3 anni e 9 mesi di reclusione e 8.700 euro di multa
aumentata per la continuazione con il capo C alla pena finale di 4 anni di reclusione e 9.000 euro di multa.
Nella sentenza d’appello la pena viene determinata in questo modo:
pena base per il reato del capo A: 3 anni e 4 mesi di reclusione ed 8.000 euro di multa,
aumentata per la continuazione con il reato di cui al capo C di un mese di reclusione,
aumentata per la continuazione con il reato di cui al capo B di quindici giorni di reclusione,
pena finale: 3 anni 5 mesi e 15 giorni di reclusione ed 8.000 euro di multa;
La forcella edittale dell’art. 2, senza la riduzione dell’art. 7, è della reclusione da uno ad otto anni e della multa da 3.000 euro a 20.000 euro. La pena edittale
dell’art. 2, con la riduzione dell’art. 7, è, invece, la reclusione da otto mesi a cinque anni e quattro mesi e la multa da 2.000 a 13.334 euro.
La pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione ed 8.000 euro di multa individuata come pena base sia in primo che in secondo grado è, pertanto, compatibile sia con l’avvenuta applicazione della diminuente dell’art. 7 che con la non applicazione della stessa.
Nell’atto di appello, nell’articolazione del relativo motivo, si deduceva che la pena era stata determinata “evidentemente ex art. 2”, ma, in realtà, l’evidenza di ciò non si rileva, e l’ipotesi della mancata applicazione della diminuente restava una mera congettura dell’appellante.
Non vi era, d’altronde, alcuna necessità, per il giudice di primo grado di precisare espressamente che la pena inflitta era comprensiva della diminuente, perchè la circostanza che si trattasse di un fatto punito dal combinato disposto degli artt. 2 e 7 era persino indicata in imputazione; il giudice, pertanto, si è limitato a condannare per la fattispecie che era stata contestata, senza operare riqualificazioni o specificazioni.
Né si può sostenere che nella sentenza impugnata manchi la motivazione sul perché il giudice del merito si è discostato dal minimo edittale, perché, in realtà, tale motivazione nella sentenza vi è (“pena base che si discosta dal minimo edittale per la gravità del fatto per la detenzione di un numero consistente di armi da sparo e per l’intensità del dolo”) e non è attaccata in ricorso.
In definitiva, il motivo di appello era manifestamente infondato, e la manifesta infondatezza rende conseguentemente inammissibile per mancanza di interesse il motivo di ricorso che deduce la omessa risposta al motivo di appello (cfr., sul punto, Sez. 3, Sentenza n. 46588 del 03/10/2019, COGNOME, Rv. 277281), in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole al ricorrente in sede di giudizio di rinvio.
3.2. Il secondo argomento contenuto nel quarto motivo deduce l’erroneità del calcolo della pena per erroneo cumulo tra reati puniti con pene eterogenee, si deduce che sul punto la difesa aveva proposto motivo d’appello su cui non vi è stata alcuna risposta nella sentenza impugnata.
Il motivo è manifestamente infondato, perché in realtà il ricorrente non si è accorto che la pronuncia di appello ha accolto il relativo motivo emendando l’errore commesso dal giudice di primo grado.
Versiamo, infatti, in un caso in cui il reato più grave è punito con pena congiunta ed i reati satellite con pena alternativa. Nel caso in cui si debba procedere al cumulo giuridico tra le pene di reati di questo tipo la giurisprudenza di legittimità ritiene che “se il reato più grave è punito con pena congiunta e il
reato satellite con pena alternativa, il giudice può operare l’aumento di pena in relazione ad una soltanto delle pene previste per la violazione più grave motivando la scelta ex art. 133 cod. pen.” (Sez. U, Sentenza n. 40983 del 21/06/2018, COGNOME, Rv. 273751).
Il giudice di primo grado aveva erroneamente aumentato per continuazione sia la pena detentiva che la pena pecuniaria.
Il giudice di appello ha emendato l’errore aumentando soltanto pena detentiva, ed ha motivato il perché della scelta in favore della pena detentiva (“pena che pare a questa Corte del tutto congrua e proporzionata rispetto ai fatti di reato in concreto commessi dall’imputato”).
L’imputato ripropone nel ricorso il motivo che aveva formulato in appello senza rendersi conto, però, che l’errore era stato emendato dal giudice di appello. Il motivo, pertanto, è manifestamente infondato.
Ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., alla decisione consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma determinata, in via equitativa, nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 25 ottobre 2023
Il consigliere estensore
Il presidente