Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 31277 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 31277 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 26/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a CAMPOSAMPIERO il 04/08/1952 avverso l’ordinanza del 19/02/2025 del TRIBUNALE di SORVEGLIANZA di Potenza visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso
f
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di sorveglianza di Potenza ha dichiarato inammissibile la domanda di concessione della detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1 legge 26 luglio 1975, n. 354, presentata da NOME COGNOME detenuto in espiazione della pena dell’ergastolo, riportata per i delitti di cui agli artt. 280 e 81, 110, 575, 577 cod. pen. e inflitta con sentenz della Corte di assise di appello di Milano del 22/07/2015, passata in giudicato il 20/06/2017.
Ricorre per cassazione NOME COGNOME a mezzo dell’avv. COGNOME deducendo due motivi, che vengono di seguito enunciati entro i limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, viene denunciata violazione ed errata applicazione dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., per difetto assoluto di motivazione, in ordine alla ritenuta inapplicabilità al caso in esame della misura alternativa della detenzione domiciliare, ai sensi del primo comma dell’art. 47-ter Ord. pen. Sostiene il ricorrente che il testo dell’art. 4-bis Ord. pen. non escluda relativamente al delitto di omicidio – la concessione delle misure alternative, consentendola a patto che non emergano elementi tali da far ritenere sussistenti collegamenti attuali del condannato con la criminalità organizzata.
2.2. Con il secondo motivo, viene denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 47-ter comma 1 Ord. pen., in relazione agli artt. 7 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e 25 della Costituzione.
La condanna in esecuzione riguarda la cd. Strage di INDIRIZZO di Brescia, risalente al 28/05/1974; ebbene, solo con la legislazione di emergenza del 1991 la repressione penale è stata fortemente inasprita, cosa che non era prevedibile da parte del ricorrente, al momento della commissione del fatto. Incidendo su diritti fondamentali dell’uomo, tale disciplina sopravvenuta subisce i limiti applicativi derivanti dagli artt. 3 Cedu e 25 Cost. e non può essere oggetto di applicazione retroattiva.
Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso, sottolineando come il condannato per uno dei delitti ostativi, indicati dall’art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, non sia legittimato a fruire della detenzione domiciliare, neanche se sia ultrasettantenne.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. Giova precisare – ad integrazione della sintesi contenuta in parte espositiva – che NOME COGNOME, come detto condannato per essere uno degli autori della strage di INDIRIZZO perpetrata a Brescia, si trova in espiazione della pena dell’ergastolo e, avendo oltrepassato la soglia dei settanta anni di età, ha chiesto la concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare. L’avversata decisione reiettiva è fondata sul combinato disposto degli artt. 47-ter comma 1 e 4-bis Ord. pen., rientrando la fattispecie delittuosa ex art. 575 cod. pen. nella previsione di cui all’art. 4-bis comma 1-ter legge 26 luglio 1975, n. 354 (così come, del resto, la previsione incriminatrice ex art.280 cod. pen., pure oggetto di condanna a carico del ricorrente, da ricomprendersi nel novero dei reati commessi per finalità terroristiche o eversive, di cui all’art. 4-bis comma 1 Ord. pen.).
Con il primo motivo, dunque, la difesa sottolinea in particolare come il dettato normativo ex art. 4-bis Ord. pen. non escluda, quanto al delitto di omicidio, la concessione delle misure alternative, consentendola in caso di non emersione di fattori evocativi della persistenza di collegamenti, fra il condannato e la criminalità organizzata.
3.1. Questa Corte ha invece espresso, quanto a tale doglianza difensiva, una posizione granitica e risalente, ritenendo che il soggetto che si trovi in espiazione della pena inflitta per uno dei delitti “ostativi”, ricompresi entro l’alve previsionale dell’art. 4-bis Ord. pen., non possa essere ammesso a fruire della detenzione domiciliare, neanche laddove sia ultrasettantenne; ciò in quanto l’elenco dei divieti fissati dall’art. 47-ter, comma 01 della medesima legge procede attraverso rinvio recettizio alla suddetta disposizione, richiamata nella sua mera veste formale, ossia quale elencazione di figure incriminatrici tipizzate, così dovendosi escludere la possibilità di procedere all’applicazione delle relative deroghe (si veda Sez. 1, n. 1541 del 28/11/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 271986 – 01; negli stessi termini si sono espresse Sez. 1, n. 20278 del 06/05/2010, COGNOME, Rv. 247214 – 01 e Sez. 1, n. 13605 del 10/12/2010, dep. 2011, COGNOME, Rv. 249926 – 01).
3.2. Costituisce principio di diritto incontestato, insomma, il fatto che il richiamo al dato testuale dell’art. 4-bis Ord. pen. determini l’esclusione dell’autore, che si trovi in espiazione della corrispondente pena, dall’ambito dei soggetti
legittimati a invocare la misura alternativa della detenzione domiciliare, venendo in rilievo un rinvio escludente di natura recettizia.
Tale rapporto tra norme è rimasto inalterato, anche all’indomani dell’intervento della riforma del 2022, che non ha mutato la valenza innpeditiva stabilita dalla disposizione (occorre ancora rifarsi, pertanto, alla regola ermeneutica elaborata da Sez. 1, n. 13751 del 18/12/2019, dep. 2020, Buscia, Rv. 278976 – 01, che ha così statuito: «In tema di misure alternative alla detenzione, la condanna per taluno dei reati di cui all’art. 4-bis ord. pen. è ostativa alla concessione della detenzione domiciliare, a nulla rilevando, in senso contrario, l’insussistenza di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, atteso che il rinvio effettuato dall’art. 47 ord. pen. all’ 4-bis citato si riferisce a tutti i reati da quest’ultimo contemplati, senza recepire distinzioni di disciplina che caratterizzano le cd. “fasce” entro le quali ess separatamente si inscrivono»).
La doglianza, in definitiva, non merita accoglimento, in quanto confliggente con un consolidato principio di diritto fissato da questa Corte.
Con il secondo motivo, viene prospettata una questione ulteriore, inerente alla possibilità di applicazione retroattiva delle norme contenute nell’ordinamento penitenziario, con particolare riferimento alla operatività dello ius superveniens costituito dal decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, in tema di accesso alle misure alternative.
Evidenzia la difesa, sul punto specifico, come la condanna in esecuzione riguardi un fatto risalente al 28 maggio 1974; solo con la suddetta legislazione di emergenza del 1991, però, la repressione penale è stata resa più gravosa: ciò non era prevedibile – prosegue l’impugnazione – al momento della commissione del gesto delittuoso. Il ricorrente desume quindi che – finendo per conculcare i suoi diritti fondamentali – tale disciplina sopravvenuta subisca i limiti applicati derivanti dagli artt. 3 Cedu e 25 Cost. e non possa essere applicata retroattivamente.
4.1. Anche tale tematica, in realtà, è stata ripetutamente affrontata, dalla giurisprudenza di legittimità, con affermazioni per la verità non sempre tra loro perfettamente collimanti. Valutando le disposizioni relative al regime dei colloqui visivi e telefonici, infatti, si è precisato come le norme contenute nell’ordinamento penitenziario non presentino una natura sostanziale, non afferendo esse direttamente alla natura, qualità e quantità della pena, bensì esclusivamente alle modalità di esercizio dei diritti del detenuto; si è ritenuto che esse non possano
possono soggiacere, pertanto, al divieto di applicazione retroattiva delle norme più sfavorevoli, sancito dall’art. 25, comma secondo, Cost. (in questo senso si veda, da ultimo, Sez. 1, n. 37107 del 28/06/2024, COGNOME, Rv. 287010 – 01, che ha ribadito un orientamento che risale a Sez. 1, n. 3834 del 23/09/1994 Rossi, Rv. 199786 – 01, a mente della quale: «è manifestamente infondata, con riferimento all’art. 25 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui consente l’applicazione retroattiva del divieto di concessione di determinati benefici penitenziari, in quanto l’irretroattività della legge penale opera unicamente con riguardo alle norme incriminatrici e non anche a quelle che disciplinano la materia dell’esecuzione penale»).
Vari altri arresti giurisprudenziali hanno ribadito, poi, come le disposizioni relative all’esecuzione delle pene detentive e alle misure alternative alla detenzione non attengano all’accertamento del reato e all’irrogazione della pena, bensì alle modalità esecutive della sanzione stessa e, pertanto, non presentino la natura di norme penali sostanziali; in carenza di specifica disciplina transitoria stando a tale indirizzo giurisprudenziale – esse rimangono quindi assoggettate al principio “tempus regit actum”, piuttosto che alla disciplina inerente al fenomeno della successione di norme penali nel tempo (per questa lettura sistematica, si vedano Sez. 5, n. 30558 del 01/07/2014, COGNOME, Rv. 262489 – 01; Sez. 1, n. 11580 del 05/02/2013, COGNOME, Rv. 255310 – 01; Sez. 1, n. 32000 del 06/07/2006, COGNOME, Rv. 234381 – 01; Sez. 1, n. 24767 del 05/07/2006, Borromeo, Rv. 234295 – 01; Sez. 1, n. 999 del 11/02/2000, COGNOME, Rv. 215502 – 01).
4.2. Vi è anche – nella giurisprudenza elaborata da questa Corte, in tema di ordinamento penitenziario – una seconda interpretazione del contesto normativo ora in esame. Stando a tale diversa posizione, le modifiche legislative successive ai fatti in relazione ai quali sia intervenuta una determinata condanna, che producano l’effetto di rendere maggiormente gravoso l’accesso dell’interessato sia alle misure alternative alla detenzione, sia ai benefici penitenziari extra moenia, così inasprendo il trattamento che era ragionevolmente prevedibile al momento della commissione del fatto, non possono essere applicate retroattivamente; ciò in ossequio all’art. 25, comma secondo, Cost., nella lettura datane dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 2020 (su questa direttrice interpretativa si è recentemente posizionata Sez. 1, n. 30702 del 16/04/2024, Russo, Rv. 286809 – 01).
4.3. Oltre a tali decisioni (tutte propriamente attinenti, in via generale, alla possibilità di applicazione retroattiva delle norme dell’ordinamento penitenziario), vi è poi una recente pronuncia di questa Corte, che tiene specificamente conto
delle coordinate teoriche fissate da Corte cost. n. 32 del 2020. Il riferimento è al dictum di Sez. 1, n. 31753 del 01/07/2024, Viola, Rv. 286810 – 01, secondo la quale: «In tema di accesso alle misure alternative e alla liberazione condizionale, hanno natura sostanziale le disposizioni restrittive introdotte con il dl. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, sicché le stesse, alla luce della lettura dell’art. 25, comma secondo, Cost. adottata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 2020, non possono essere applicate retroattivamente, mentre non hanno analoga natura le disposizioni introdotte dall’art. 15 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, che hanno inciso solo sulle modalità di funzionamento degli istituti».
4.4. Ebbene, il principio evocato è certo degno della massima attenzione, ma la prospettazione difensiva è – per ciò che attiene alla concreta vicenda – del tutto mal posta. E infatti, il condannato ha commesso il delitto la cui pena è in esecuzione nell’anno 1974 (in data antecedente, addirittura, alla legge n. 354 del 1975) e invoca ora la concessione della detenzione domiciliare per l’ultrasettantenne, regolata dall’art. 47-ter, comma 01, Ord. pen. Ma l’art. 47-ter legge 26 luglio 1975, n. 354 – nel suo complesso – è stato introdotto dall’art. 13, comma 1, legge 10 ottobre 1986, n. 663 (nota anche come “legge COGNOME“), mentre il comma 01 (ossia, quello che recita che “La pena della reclusione per qualunque reato, ad eccezione di quelli previsti dal libro II, titolo XII, capo II sezione I, e dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale, dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e dall’articolo 4-bis della presente legge, può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza, quando trattasi di persona che, al momento dell’inizio dell’esecuzione della pena, o dopo l’inizio della stessa, abbia compiuto i settanta anni di età purché non sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale”) è stato introdotto, in premessa, ad opera dell’art. 7, comma 2 della legge 5 dicembre 2005, n. 251. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Non vi è chi non rilevi, quindi, trattarsi di disposizioni normative inserite nel vigente sistema penitenziario in epoca di gran lunga susseguente, rispetto al momento commissivo del fatto la cui pena è in espiazione; ciò comporta, secondo una elementare applicazione dei canoni comunemente accettati della logica e della ragionevolezza, oltre che del buon senso interpretativo, che – al momento di porre in essere il suddetto fatto criminoso – COGNOME non potesse prevedere alcun trattamento penitenziario, successivamente precluso da aggravamenti successivi o, comunque, da inasprimenti legislativi. In altri termini, allorquando venne commesso il reato giudicato, non esisteva l’istituto della detenzione domiciliare,
come poi riferito alla persona ultrasettantenne, e, quindi, nulla avrebbe potuto prevedere in tal senso il ricorrente.
Nemmeno può ragionevolmente argomentarsi circa il fatto che il condannato – nelle more dell’accertamento del reato posto in essere nel 1974 possa aver conseguito comunque il diritto ad ottenere il trattamento penitenziario, conformemente alle riforme succedutesi nel tempo, con correlato divieto di applicazione dei limiti successivamente introdotti; a tale conclusione si deve necessariamente pervenire, semplicemente in base alla considerazione che l’istituto stesso della detenzione domiciliare – per quanto inerisce al condannato ultrasettantenne – è nato con la medesima conformazione che presenta attualmente. In definitiva, l’inesistenza della previsione normativa della misura alternativa de qua, all’epoca di commissione del reato, rende chiaro come si tratti di un istituto totalmente sopravvenuto.
Ciò elide in radice la possibilità di invocare la sussistenza di una riforma peggiorativa.
Alla luce delle considerazioni che precedono, si impone il rigetto del ricorso; segue ex lege la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, 26/06/2025.