Detenzione di Stupefacenti: Quando la Quantità Esclude l’Uso Personale
La distinzione tra uso personale e spaccio è uno dei temi più dibattuti in materia di detenzione di stupefacenti. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito i criteri per valutare tale confine, sottolineando come un quantitativo ingente di sostanza sia un elemento chiave per escludere la destinazione al consumo individuale. Analizziamo insieme la decisione per comprendere le logiche seguite dai giudici.
I fatti del caso e la condanna
Il caso riguarda un uomo condannato in primo e secondo grado per il reato di illecita detenzione di marijuana. La quantità di sostanza sequestrata era notevole, corrispondente a oltre 1.400 dosi singole. La difesa dell’imputato aveva sostenuto, senza successo, la tesi dell’uso personale, giustificando l’acquisto di una scorta così cospicua con un prezzo particolarmente vantaggioso ottenuto in un’altra località. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno rigettato questa versione, confermando la condanna.
I motivi del ricorso alla Corte di Cassazione
L’imputato ha presentato ricorso per cassazione basandosi su tre principali motivi:
1. Vizio di motivazione: La difesa contestava il ragionamento dei giudici di merito sull’affermazione della responsabilità penale.
2. Violazione del diritto di non auto-accusarsi: Si lamentava una presunta violazione del principio nemo se detegere tenetur (il diritto a non accusare se stessi), poiché la Corte d’Appello avrebbe implicitamente criticato l’imputato per non aver fornito prove a sostegno della sua tesi.
3. Mancato riconoscimento del fatto di lieve entità: Si chiedeva l’applicazione della fattispecie più lieve prevista dall’art. 73, comma 5, e la concessione delle attenuanti generiche, negate nei precedenti gradi di giudizio.
L’analisi della Cassazione sulla detenzione di stupefacenti
La Corte Suprema ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo le censure difensive infondate e meramente ripetitive di argomenti già esaminati. I giudici hanno chiarito che il tentativo di ottenere una nuova e più favorevole valutazione dei fatti non è consentito in sede di legittimità. Il cuore della decisione risiede nella valutazione del quantitativo di droga, ritenuto un elemento oggettivo e decisivo per distinguere la detenzione di stupefacenti per spaccio da quella per uso personale.
Le motivazioni della decisione
La Corte ha motivato la sua decisione punto per punto. In primo luogo, ha affermato che la valutazione della Corte d’Appello era stata tutt’altro che illogica. Un quantitativo di oltre 1.400 dosi è stato considerato palesemente sproporzionato per un consumo personale, anche tenendo conto della notoria deperibilità della marijuana, che renderebbe insensato accumulare una scorta per diversi anni.
In secondo luogo, riguardo alla presunta violazione del diritto al silenzio, la Cassazione ha precisato che i giudici di merito non hanno penalizzato l’imputato per non aver parlato, ma hanno semplicemente constatato l’assoluta mancanza di prove concrete a supporto della sua versione (l’acquisto “in trasferta” per un prezzo vantaggioso). Le garanzie difensive, quindi, non sono state messe in discussione.
Infine, anche la richiesta di riconoscere il fatto di lieve entità è stata respinta. La Corte ha richiamato i principi delle Sezioni Unite, secondo cui la valutazione deve essere complessiva, ma il dato quantitativo rimane un indice di fondamentale importanza. Un possesso così ingente è stato ritenuto incompatibile con una condotta di lieve entità.
Le conclusioni
Questa ordinanza conferma un orientamento consolidato: nella valutazione della detenzione di stupefacenti, il dato quantitativo è un criterio primario, sebbene non l’unico, per determinare la finalità della condotta. Un possesso che supera palesemente le esigenze di un consumatore medio in un arco di tempo ragionevole, specialmente per sostanze deperibili, fa scattare una forte presunzione di destinazione allo spaccio. La decisione ribadisce inoltre che il ricorso in Cassazione non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sul merito dei fatti, ma deve limitarsi a verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione.
Un’elevata quantità di droga può da sola dimostrare l’intento di spaccio?
Sì, secondo la Corte, un quantitativo cospicuo (nel caso di specie, oltre 1.400 dosi) è un elemento talmente significativo da rendere inverosimile la tesi dell’uso personale, specialmente se la sostanza è deperibile. Costituisce un indice fondamentale per presumere la destinazione alla vendita.
Criticare la mancanza di prove della difesa viola il diritto al silenzio dell’imputato?
No. La Corte ha chiarito che sottolineare l’assenza di elementi concreti a supporto di una specifica tesi difensiva (come l’acquisto a un prezzo vantaggioso) non viola il diritto di non auto-accusarsi. Non si sta punendo il silenzio, ma si sta valutando la plausibilità di una narrazione difensiva priva di riscontri.
Perché non è stata concessa l’ipotesi del fatto di lieve entità?
Il riconoscimento del fatto di lieve entità (art. 73, comma 5) è stato escluso a causa della valutazione complessiva della vicenda, in cui l’ingente quantitativo di stupefacente detenuto ha avuto un peso preponderante. Tale quantità è stata ritenuta incompatibile con una condotta di minima offensività.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 18702 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 18702 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 23/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a FOGGIA il 15/01/1990
avverso la sentenza del 14/04/2023 della CORTE APPELLO di BARI
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
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RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Rilevato che COGNOME NOME – imputato del delitto di illecita detenzione di marijuana, a lui ascritto in concorso – ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del 14/04/2023, con cui la Corte d’Appello di Bari ha confermato la condanna in primo grado irrogata con rito abbreviato dal Tribunale di Foggia, deducendo vizio di motivazione con riferimento all’affermazione di responsabilità, violazione di legge con riferimento agli artt. 6 CEDU e 64 cod. proc. pen., violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento dell’ipotesi lieve di cui al comma 5 dell’art. 73 e alla mancata concessione delle attenuanti generiche;
ritenuto che il primo ordine di censure sia meramente reiterativo e comunque volto a sollecitare una diversa e più favorevole lettura delle risultanze acquisite, cui apprezzamento è evidentemente precluso in questa sede: avendo del resto la Corte territoriale tutt’altro che illogicamente valorizzato, per escludere la tes dell’uso personale, il cospicuo quantitativo corrispondente ad oltre 1.400 dosi, unitamente alla scarsa verosimiglianza di una scorta così imponente (in astratto idonea a soddisfare un consumo quotidiano per alcuni anni) tenuto conto della notoria deperibilità della tipologia di sostanza detenuta dall’ALFARANO (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata). Si tratta di considerazioni che non hanno trovato alcun tipo di confutazione negli argomenti difensivi;
ritenuto che la seconda doglianza sia manifestamente infondata, essendo assolutamente fuori discussione l’intangibilità delle garanzie difensive, ampiamente riconosciute anche in sede sovranazionale sia quanto alla facoltà di non rispondere sia, più in generale, al principio del nemo se detegere tenetur: garanzie che peraltro – ad avviso di questo Collegio – non sono state in alcun modo messe in discussione dal percorso argomentativo tracciato dalla Corte d’Appello, che si è limitata a sottolineare l’impossibilità di apprezzare – m totale assenza di indicazioni concrete anche solo sul prezzo pagato a San Severo – l’effettiva consistenza della prospettazione difensiva, stando alla quale il ricorrente si sarebbe determinato ad acquistare “in trasferta” lo stupefacente per via di un prezzo particolarmente vantaggioso, rispetto a quello praticato nel luogo di residenza;
ritenuto che anche la censura concernente la mancata applicazione del comma 5 dell’art. 73 sia reiterativa e volta ad accreditare inammissibilmente una diversa e più favorevole lettura delle risultanze acquisite, avendo la Corte territoriale escluso – all’esito di una valutazione complessiva della vicenda, alla luce dei principi espressi dalle Sezioni Unite COGNOME – che la condotta del ricorrente
presentasse le connotazioni di minima offensività (indispensabili per il riconoscimento dell’attenuante), avuto riguardo alla consistenza del dato
ponderale e delle dosi ricavabili;
ritenuto che ad analoghe conclusioni debba pervenirsi quanto alle doglianze concernenti la mancata concessione delle attenuanti generiche, essendo stata
motivatamente esclusa la possibilità di valorizzare la scelta del rito e il comportamento processuale, ed essendo gli ulteriori elementi richiamati in ricorso
già stati apprezzati per l’esclusione della recidiva;
ritenuto che le considerazioni fin qui svolte non siano vulnerate da quanto osservato dal difensore nella memoria tempestivamente trasmessa;
ritenuto pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di
euro tremila in favore della Cassa delle Ammende
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2024
Il Consigl
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Il Presidente