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Detenzione di stupefacenti: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per detenzione di stupefacenti a fini di spaccio nei confronti di una commerciante che custodiva eroina nel proprio negozio. La sentenza chiarisce la distinzione tra la mera connivenza non punibile e il concorso attivo nel reato, stabilendo che mettere a disposizione un locale commerciale per la custodia della droga costituisce un contributo agevolatore penalmente rilevante. Viene inoltre ribadito che per la configurabilità del ‘fatto di lieve entità’ non basta il solo dato quantitativo, ma occorre una valutazione complessiva del contesto.

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Pubblicato il 18 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Detenzione di stupefacenti in negozio: quando è concorso nel reato?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9237 del 2025, affronta un caso significativo in materia di detenzione di stupefacenti, delineando con precisione il confine tra la semplice e non punibile connivenza e il concorso attivo nel reato. La decisione chiarisce che fornire consapevolmente i propri locali commerciali per la custodia di droga integra un contributo penalmente rilevante all’attività di spaccio altrui. Analizziamo insieme i dettagli di questa importante pronuncia.

Il caso: Eroina nascosta in un esercizio commerciale

La vicenda giudiziaria ha origine dalla condanna di una donna, titolare di un’attività commerciale, per la detenzione illecita di 18,8 grammi di eroina, corrispondenti a circa 752 dosi singole. La sostanza era stata rinvenuta all’interno del suo negozio, suddivisa in tre involucri. La Corte di Appello aveva confermato la sentenza di primo grado, ritenendo che la detenzione fosse finalizzata allo spaccio.

I motivi del ricorso in Cassazione

L’imputata ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su quattro motivi principali:
1. Errata valutazione del dolo: La difesa sosteneva che la Corte di Appello avesse erroneamente concluso per la finalità di spaccio, senza considerare che la condotta dell’imputata fosse, al massimo, una connivenza non punibile, data l’assenza di un suo diretto controllo sui luoghi.
2. Mancato riconoscimento del ‘fatto di lieve entità’: Si contestava il mancato inquadramento del reato nell’ipotesi più lieve prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. 309/1990, lamentando che i giudici avessero dato peso esclusivamente al dato quantitativo della sostanza.
3. Pena eccessiva e diniego di benefici: Il ricorso criticava l’entità della pena e il mancato accoglimento della richiesta di rateizzazione della multa, ritenendo la motivazione carente.
4. Diniego delle pene sostitutive: Infine, si lamentava il rifiuto di sostituire la pena detentiva con una misura alternativa, in contrasto con la finalità rieducativa della pena.

L’analisi della Corte sulla detenzione di stupefacenti

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, offrendo una motivazione dettagliata su ciascuno dei punti sollevati. I giudici hanno stabilito che la responsabilità dell’imputata a titolo di concorso nel reato di detenzione di stupefacenti era stata correttamente provata. Oltre al dato quantitativo, elementi come la suddivisione della droga in involucri e il suo occultamento in un locale aperto al pubblico rendevano inverosimile una destinazione a uso personale e comprovavano, invece, la finalità di spaccio.

Le motivazioni della Sentenza

La Corte ha smontato punto per punto le argomentazioni difensive.

Sul primo motivo, ha tracciato una netta distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato. La prima implica un comportamento meramente passivo e ininfluente; il secondo, invece, richiede un contributo consapevole, anche solo morale o agevolatore, alla condotta criminosa altrui. Mettere a disposizione il proprio locale commerciale per la custodia della droga, secondo la Corte, non è un atteggiamento passivo, ma un’azione che facilita l’attività illecita, costituendo un ‘contributo agevolatore’ e quindi un vero e proprio concorso.

Per quanto riguarda il ‘fatto di lieve entità’, i giudici hanno ribadito il principio consolidato secondo cui la valutazione non può basarsi solo sulla quantità di droga, ma deve considerare l’intero contesto: modalità del fatto, caratteristiche qualitative della sostanza, e il luogo dell’azione. Nel caso di specie, il fatto che lo stupefacente fosse custodito in un esercizio pubblico, frequentato da molti avventori, indicava un’attività di spaccio prolungata e rivolta a un numero indeterminato di soggetti, escludendo così l’ipotesi lieve.

In merito alla determinazione della pena, la Corte ha ritenuto la decisione dei giudici di merito congrua e ben motivata. La pena detentiva era stata fissata partendo dal minimo edittale, ma la pena pecuniaria era stata giustamente adeguata alla gravità del fatto (quantità e qualità della droga) e alla personalità negativa dell’imputata, già gravata da un precedente. Il diniego della rateizzazione della multa è stato confermato perché l’imputata, pur dichiarandosi in difficoltà, non aveva fornito alcuna documentazione a supporto, a fronte della sua titolarità di un’attività commerciale.

Infine, sul diniego delle pene sostitutive, la Cassazione ha ricordato che si tratta di una scelta discrezionale del giudice, basata sui criteri dell’art. 133 del codice penale. La gravità dei fatti e la personalità dell’imputata, desunta dal precedente penale, hanno correttamente portato i giudici a ritenere l’imputata non idonea a un percorso alternativo al carcere, mancando una prognosi favorevole circa il suo reinserimento sociale e l’adempimento delle eventuali prescrizioni.

Le conclusioni

Questa sentenza riafferma principi fondamentali in materia di reati legati agli stupefacenti. In primo luogo, sottolinea che la partecipazione a un reato non richiede necessariamente un’azione diretta, ma può consistere anche in un supporto logistico che facilita l’illecito. In secondo luogo, consolida l’approccio olistico nella valutazione del ‘fatto di lieve entità’, che non può essere ridotto a una mera questione di grammi. Infine, ribadisce l’importanza della discrezionalità motivata del giudice nella commisurazione della pena e nella concessione di benefici, che devono sempre fondarsi su una valutazione concreta della personalità del reo e delle circostanze del reato.

Qual è la differenza tra connivenza non punibile e concorso di persone nel reato di detenzione di stupefacenti?
La connivenza non punibile si verifica quando una persona, pur sapendo del reato, mantiene un comportamento meramente passivo, senza apportare alcun contributo alla sua realizzazione. Il concorso di persone, invece, richiede un contributo consapevole e attivo, che può essere anche solo morale o ‘agevolatore’, come mettere a disposizione il proprio locale commerciale per la custodia della droga, rafforzando o facilitando così l’azione criminale altrui.

Perché non è stata riconosciuta l’ipotesi del ‘fatto di lieve entità’?
Il riconoscimento del ‘fatto di lieve entità’ (art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990) non dipende solo dalla quantità di stupefacente. La Corte ha stabilito che è necessaria una valutazione globale che includa le modalità dell’azione, il luogo, e le caratteristiche della sostanza. In questo caso, la detenzione di un quantitativo significativo (752 dosi) all’interno di un esercizio commerciale aperto al pubblico è stata considerata indicativa di un’attività di spaccio prolungata e non occasionale, incompatibile con la minore gravità del fatto.

Su quali basi il giudice può negare la rateizzazione della pena pecuniaria e le pene sostitutive?
Il giudice ha negato la rateizzazione della pena pecuniaria perché l’imputata non ha fornito alcuna prova documentale delle sue presunte difficoltà economiche, a fronte della titolarità di un’attività lavorativa. Ha negato le pene sostitutive basandosi su una valutazione discrezionale fondata sull’art. 133 del codice penale, considerando la gravità dei fatti e la personalità negativa dell’imputata (desunta da un precedente penale specifico) come elementi che rendevano inidonea una misura alternativa al carcere.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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