Detenzione a fini di spaccio: quando il ricorso in Cassazione è inutile
La distinzione tra uso personale di sostanze stupefacenti e la detenzione a fini di spaccio è una delle questioni più delicate e frequenti nel diritto penale. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce i limiti del ricorso in sede di legittimità, stabilendo quando gli indizi raccolti sono sufficienti a configurare l’intento di vendita e perché non è possibile chiedere ai giudici supremi una nuova valutazione delle prove. Analizziamo il caso e le conclusioni della Corte.
I Fatti del Caso
Un individuo veniva condannato nei gradi di merito per detenzione di sostanze stupefacenti finalizzata allo spaccio. Durante una perquisizione, le forze dell’ordine rinvenivano undici dosi di cocaina, custodite in un contenitore che l’imputato aveva tentato di gettare dalla finestra. Oltre alla sostanza, venivano sequestrati anche elementi considerati tipici dell’attività di spaccio: due bilancini elettronici di precisione perfettamente funzionanti e una busta di plastica da cui erano stati ritagliati pezzi circolari, identici a quelli usati per confezionare le dosi.
L’imputato, inoltre, risultava privo di un’occupazione lecita, circostanza che rendeva poco plausibile la capacità economica di acquistare lo stupefacente per mero uso personale. La difesa presentava ricorso in Cassazione, sostenendo che la detenzione fosse per uso strettamente personale e lamentando un vizio di motivazione nella sentenza d’appello.
La Decisione della Corte sulla detenzione a fini di spaccio
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile. I giudici hanno sottolineato che il ricorso non contestava una violazione di legge, ma mirava a ottenere una nuova e diversa valutazione delle prove e una ricostruzione dei fatti, un’attività che esula completamente dalle competenze della Corte di legittimità.
Il ruolo della Cassazione non è quello di essere un “terzo grado di giudizio” sul merito, ma di verificare la corretta applicazione della legge e la coerenza logica della motivazione delle sentenze impugnate.
Le Motivazioni
La Corte ha ritenuto che la motivazione della Corte d’Appello non fosse né mancante né manifestamente illogica. Al contrario, i giudici di merito avevano correttamente individuato una serie di profili univoci che convergevano nel dimostrare la detenzione a fini di spaccio. Nello specifico, gli elementi decisivi sono stati:
1. Il quantitativo e la suddivisione: La presenza di undici dosi già confezionate indicava una predisposizione alla vendita.
2. Il materiale per il confezionamento: Il ritrovamento di bilancini di precisione e di materiale per il packaging identico a quello utilizzato per le dosi è un classico indizio dell’attività di spaccio.
3. La condotta dell’imputato: Il tentativo di disfarsi della droga all’arrivo della polizia è stato interpretato come un comportamento volto a nascondere non solo il possesso, ma l’attività illecita.
4. La situazione economica: L’assenza di un lavoro lecito è stata considerata un elemento ulteriore, rendendo improbabile l’acquisto di tale quantità di stupefacente per solo consumo personale.
La Corte ha inoltre ribadito un principio consolidato: la qualità di assuntore di sostanze stupefacenti non è affatto incompatibile con quella di venditore.
Le Conclusioni
Questa ordinanza conferma che per contestare una condanna per detenzione a fini di spaccio in Cassazione, non è sufficiente proporre una lettura alternativa dei fatti. È necessario dimostrare una palese illogicità nel ragionamento del giudice di merito o una chiara violazione di legge. Quando la decisione si basa su una valutazione coerente di plurimi indizi gravi, precisi e concordanti (come il numero di dosi, la presenza di bilancini e le modalità di confezionamento), il ricorso che si limita a contestare tale valutazione è destinato all’inammissibilità. La conseguenza, come in questo caso, è la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria, a causa dell’assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.
Quando un ricorso in Cassazione per detenzione a fini di spaccio è inammissibile?
Un ricorso è dichiarato inammissibile quando non denuncia una violazione di legge o un vizio logico palese nella motivazione, ma si limita a chiedere una nuova valutazione delle prove e una diversa ricostruzione dei fatti, attività che non compete alla Corte di Cassazione.
Quali elementi distinguono la detenzione a fini di spaccio dall’uso personale secondo questa ordinanza?
Secondo l’ordinanza, elementi come il numero di dosi già confezionate (undici in questo caso), il rinvenimento di materiale tipico per il confezionamento (due bilancini di precisione e ritagli di plastica), e la mancanza di un’occupazione lecita sono indizi convergenti che provano l’intento di spaccio, superando la tesi dell’uso personale.
Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso?
La dichiarazione di inammissibilità comporta non solo la conferma della condanna, ma anche l’obbligo per il ricorrente di pagare le spese processuali e una sanzione pecuniaria (in questo caso, 3.000 euro) a favore della Cassa delle ammende, in quanto si ritiene che il ricorso sia stato proposto senza che vi fossero i presupposti di legge.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 13308 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 13308 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 15/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a VIBO VALENTIA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 25/01/2023 della CORTE APPELLO di CATANZARO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
Rilevato che il ricorso proposto da NOME, che deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’esclusione dell’uso strettamente personale dello stupefacente rinvenuto, non è consentito dalla legge in sede di legittimità perché attiene alla valutazione delle prove e a profili ricostruttivi del fatto, e perché non è scandito dalla necessaria analisi critica delle argomentazioni poste a base della sentenza impugnata.
Invero, premesso che la valutazione in ordine alla destinazione della droga, ogni qualvolta la condotta non appaia indicativa della immediatezza del consumo, deve essere effettuata dal giudice di merito tenendo conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto, secondo parametri di apprezzamento sindacabili in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della mancanza o della manifesta illogicità della motivazione (Sez. 4, n. 7191 del 11/01/2018, Gjoka, Rv. 272463; Sez. 6, n. 44419 del 13/11/2008, COGNOME, Rv. 241604), la Corte territoriale, con una valutazione di fatto in maniera non manifestamente illogica – e quindi non censurabile in sede di legittimità-, ha individuato plurimi profili che univocamente convergono nel ritenere provata la detenzione a fini di spaccio dello stupefacente sequestrato, quali il rinvenimento, unitamente alle undici dosi di cocaina custodite in un contenitore cilindrico di cui l’imputato cercò di disfarsi, gettandolo dalla finestra dalla sua abitazione all’arrivo della polizia, del materiale tipico per il confezionamento delle dosi – ossia due bilancini di precisione elettronici, perfettamente funzionanti e con taratura a partire da un grammo, e una busta di plastica, dalla quale erano stati ritagliati dei pezzi di forma circolare identici a quelli in cui erano avvolte le dosi di cocaina sequestrata -, nonché l’assenza di un’occupazione lecita, sicché l’imputato non era nelle condizioni di acquistare lo stupefacente, e avendo la Corte d’appello correttamente evidenziato che la qualità di assuntore non è certamente incompatibile, sul piano logico, con quella di venditore di sostanze stupefacenti; Corte di Cassazione – copia non ufficiale stante l’inammissibilità del ricorso e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. Sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della c: sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, di 3.000 euro in favore della GLYPH () Cassa delle ammende
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 15/03/2024.