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Destinazione allo spaccio: Cassazione e limiti del ricorso

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6133/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per detenzione di stupefacenti. La Corte ha ribadito che la valutazione degli elementi di prova che dimostrano la destinazione allo spaccio, come la quantità e il confezionamento della droga, spetta esclusivamente ai giudici di merito e non può essere riesaminata in sede di legittimità se la motivazione è logica e adeguata.

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Pubblicato il 31 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Destinazione allo spaccio: Cassazione e Limiti del Ricorso

Con l’ordinanza n. 6133 del 2024, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi su un tema cruciale in materia di stupefacenti: i criteri per accertare la destinazione allo spaccio e i limiti del sindacato di legittimità sulla valutazione delle prove. La decisione offre importanti spunti di riflessione sui confini tra il giudizio di merito e quello della Suprema Corte.

I Fatti di Causa

Il caso trae origine da una sentenza della Corte d’Appello di Torino, che aveva confermato la condanna di un individuo per detenzione di sostanze stupefacenti. La condanna non si basava sul semplice possesso, ma sulla specifica accusa che la droga fosse destinata alla vendita a terzi. La Corte territoriale aveva fondato la propria decisione su una serie di elementi fattuali ritenuti inequivocabili: il dato ponderale (la quantità di sostanza sequestrata), la suddivisione della stessa in più involucri pronti per la cessione, e la diversa qualità e tipologia delle sostanze rinvenute.

Contro questa decisione, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, contestando proprio la ricostruzione dei fatti e l’interpretazione del materiale probatorio effettuata dai giudici d’appello.

Il Ruolo della Cassazione e la destinazione allo spaccio

Il ricorrente, con un unico motivo, ha tentato di portare all’attenzione della Suprema Corte una diversa lettura delle prove, sostenendo che queste non dimostrassero con certezza la finalità di spaccio. Tuttavia, la Cassazione ha immediatamente chiarito la propria funzione: essa non è un terzo grado di giudizio nel quale si possono riesaminare i fatti. Il suo compito è quello di verificare la corretta applicazione della legge e la coerenza logica della motivazione della sentenza impugnata.

La Corte ha specificato che la ricostruzione del fatto, la valutazione delle prove e l’apprezzamento della loro rilevanza sono attività rimesse alla competenza esclusiva dei giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello). Il ricorso in Cassazione non può trasformarsi in un’occasione per proporre una nuova e diversa valutazione degli stessi elementi già esaminati nei gradi precedenti.

Le Motivazioni della Decisione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo la motivazione della Corte d’Appello di Torino ‘congrua e adeguata’, oltre che esente da vizi logici. Secondo gli Ermellini, la decisione impugnata si fondava su un ragionamento solido, basato su corretti criteri di inferenza e ‘condivisibili massime di esperienza’, pienamente convergente con quanto già stabilito dal Tribunale in primo grado.

L’accertamento della destinazione allo spaccio era stato motivatamente desunto da una pluralità di elementi oggettivi: il peso, il confezionamento in dosi e la varietà delle droghe. Questi indizi, valutati nel loro complesso, costituivano una base argomentativa non illogica per concludere che la detenzione non fosse finalizzata al mero uso personale. La Corte ha inoltre precisato che, sebbene una delazione anonima non fosse utilizzabile come prova, nel caso di specie non era comunque stata decisiva per la condanna, fondata su altri e più solidi elementi.

Le Conclusioni

L’ordinanza ribadisce un principio fondamentale del nostro sistema processuale: la Corte di Cassazione è giudice della legittimità, non del fatto. Pertanto, un ricorso che si limiti a contestare l’apprezzamento delle prove operato dal giudice di merito, senza individuare un vizio logico manifesto o una violazione di legge, è destinato all’inammissibilità. La conseguenza di tale declaratoria, come previsto dall’art. 616 del codice di procedura penale, è la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende, in questo caso quantificata in 3.000 euro. La decisione serve da monito: per avere successo in Cassazione, non è sufficiente non essere d’accordo con la valutazione del giudice, ma è necessario dimostrare un errore specifico nel suo ragionamento giuridico o logico.

È possibile chiedere alla Corte di Cassazione di riesaminare le prove che hanno portato a una condanna per spaccio?
No, secondo questa ordinanza, la ricostruzione e la valutazione dei fatti e del materiale probatorio sono di esclusiva competenza dei giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello). La Corte di Cassazione può solo verificare che la motivazione della sentenza impugnata sia logica e non violi la legge, senza poter riesaminare le prove.

Quali elementi vengono usati per provare la destinazione allo spaccio di sostanze stupefacenti?
La decisione conferma che la prova della destinazione allo spaccio può essere desunta da una pluralità di elementi di fatto, come il dato ponderale (la quantità della sostanza), la suddivisione in più involucri e la detenzione di diverse tipologie di droghe.

Cosa succede quando un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile?
In base all’art. 616 c.p.p., quando il ricorso è dichiarato inammissibile, il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese del procedimento e di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, che in questo specifico caso è stata determinata in 3.000,00 euro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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