Desistenza Volontaria: Analisi di una Recente Decisione della Cassazione
L’istituto della desistenza volontaria, previsto dal nostro codice penale, rappresenta un punto di equilibrio tra la repressione del crimine e l’incentivo a non portare a termine azioni illecite. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre un’importante occasione per approfondire i confini applicativi di questa causa di non punibilità, in particolare quando l’interruzione dell’azione criminale coincide con l’arrivo delle forze dell’ordine. Approfondiamo i dettagli del caso e le conclusioni dei giudici.
I Fatti Processuali
Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte riguardava un ricorso presentato da un individuo condannato nei gradi di merito per un reato. La difesa dell’imputato sosteneva che, durante l’esecuzione del crimine, il suo assistito avesse volontariamente interrotto la propria condotta, integrando così i presupposti della desistenza volontaria di cui all’art. 56, terzo comma, del codice penale. Tale norma prevede la non punibilità per chi, dopo aver iniziato un’azione delittuosa, decide spontaneamente di non portarla a compimento. Tuttavia, sia in primo grado che in appello, i giudici avevano respinto questa tesi, ritenendo che l’interruzione non fosse stata affatto volontaria.
La Desistenza Volontaria e l’Intervento Esterno
Il nodo centrale della questione giuridica è la definizione di “volontarietà”. Per poter beneficiare della non punibilità, la scelta di interrompere il piano criminale deve nascere da una decisione autonoma dell’agente. Non deve essere, invece, la conseguenza di fattori esterni che rendono la prosecuzione del reato impossibile, eccessivamente difficile o rischiosa. L’arrivo della polizia sul luogo del delitto è l’esempio classico di un fattore esterno che può neutralizzare la volontarietà della desistenza. Se una persona smette di commettere un furto perché sente le sirene o vede una pattuglia, non sta compiendo una scelta libera, ma sta semplicemente reagendo a una situazione che lo costringe a fermarsi per non essere arrestato.
Le Motivazioni della Corte
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando in toto la valutazione dei giudici di merito. Gli Ermellini hanno evidenziato come la motivazione della sentenza d’appello fosse appropriata, logica e giuridicamente corretta. Nello specifico, i giudici hanno ribadito che dal verbale d’arresto emergeva chiaramente un fatto decisivo: l’azione delittuosa si era interrotta solamente a causa dell’arrivo degli agenti di polizia. Questo elemento fattuale, provato in giudizio, esclude in radice la possibilità di qualificare l’interruzione come una desistenza volontaria. La scelta di fermarsi non è stata libera, ma imposta dalle circostanze. Inoltre, la Corte ha respinto anche la censura relativa al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche (art. 62-bis c.p.), giudicandola generica e aspecifica di fronte a una motivazione che aveva correttamente valorizzato “l’inusitata gravità del fatto”.
Conclusioni
La decisione in commento riafferma un principio consolidato nella giurisprudenza penale: la desistenza volontaria richiede una scelta interiore e autonoma, non una reazione necessitata a un evento esterno. L’intervento delle forze dell’ordine, che rende la consumazione del reato impossibile o altamente probabile la cattura, è un fattore che priva l’interruzione della sua volontarietà. Di conseguenza, l’imputato non può beneficiare della causa di non punibilità. La condanna al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria alla Cassa delle ammende, come previsto dall’art. 616 c.p.p. in caso di inammissibilità, sigilla l’esito del procedimento, offrendo un chiaro monito sui limiti e le condizioni di applicabilità di questo importante istituto del diritto penale.
Quando l’interruzione di un reato può essere considerata desistenza volontaria?
L’interruzione è considerata desistenza volontaria solo quando deriva da una scelta autonoma e spontanea dell’autore del reato, non quando è causata da fattori esterni che lo costringono a fermarsi, come l’arrivo delle forze dell’ordine.
Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione?
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile perché le motivazioni della sentenza impugnata sono state giudicate logiche, complete e giuridicamente corrette, in particolare nel dimostrare che l’azione criminale si era interrotta esclusivamente a causa dell’intervento della polizia, escludendo così la volontarietà della desistenza.
Quali sono state le conseguenze per il ricorrente a seguito della dichiarazione di inammissibilità?
In conseguenza della dichiarazione di inammissibilità del ricorso, il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di 3.000 euro in favore della Cassa delle ammende, come sanzione pecuniaria.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 23084 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 23084 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 15/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: COGNOME nato il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 24/01/2023 della CORTE APPELLO di ROMA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
N. 118)
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso proposto da NOME avverso sentenza recante l’affermazione di responsabilità in ordine al reato ascritto è inammissibile.
Infatti, contrariamente a quanto dedotto, la pronunzia impugnata reca appropriata motivazione, basata su definite e significative acquisizioni probatorie e immune da vizi logico-giuridici, con specifico riferimento all’esclusione della caus di non punibilità della desistenza volontaria, prevista dall’art. 56, comma 3, co pen.
Difatti, i giudici territoriali hanno legittimamente argomentato sul punt rilevando come dal verbale di arresto poteva evincersi che solamente l’arrivo degli operanti aveva interrotto l’azione delittuosa.
Quanto alla censura in punto di diniego dell’art. 62-bis cod. pen., è appena il caso di rilevare che la stessa si palesa generica e aspecifica, a fronte di u puntuale motivazione che, al riguardo, ha valorizzato l’inusitata gravità del fatto.
Segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma di C 3.000,00 a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 15 maggio 2024
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