Desistenza volontaria: la Cassazione fissa i paletti per l’ammissibilità del ricorso
Con l’ordinanza n. 44546/2024, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi su un tema cruciale del diritto penale: la desistenza volontaria. La decisione offre importanti spunti di riflessione non solo sulla sostanza dell’istituto, ma anche sugli aspetti procedurali che ne condizionano la valutazione in sede di legittimità. Il caso analizzato riguarda un ricorso dichiarato inammissibile perché considerato meramente riproduttivo di argomentazioni già respinte nei gradi di merito.
Il caso in esame: un ricorso ‘fotocopia’
La vicenda processuale trae origine dal ricorso presentato da un imputato avverso una sentenza della Corte d’Appello. Il ricorrente basava la sua difesa sulla tesi della desistenza volontaria, sostenendo di aver interrotto l’azione criminosa per una sua libera scelta. Tuttavia, sia il tribunale di primo grado che la Corte territoriale avevano già esaminato e disatteso questa linea difensiva, ritenendo che l’interruzione del reato non fosse scaturita da una genuina volontà dell’agente, ma da circostanze esterne.
Il ricorso per Cassazione, anziché presentare nuove argomentazioni o vizi di legittimità della sentenza impugnata, si è limitato a riproporre gli stessi profili di censura già vagliati e respinti, senza un reale confronto critico con le motivazioni dei giudici di merito.
Le motivazioni della Cassazione sulla desistenza volontaria
La Suprema Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha colto l’occasione per ribadire i principi consolidati in materia di desistenza volontaria. I giudici hanno sottolineato che un ricorso è inammissibile quando si limita a dedurre un motivo ‘meramente riproduttivo’ di censure già adeguatamente valutate e respinte con argomenti giuridici corretti dalla corte territoriale.
Nel merito della questione, la Corte ha richiamato la propria giurisprudenza costante (in particolare la sentenza n. 17518/2019), secondo cui, ai fini della configurabilità della desistenza, la decisione di interrompere l’azione criminosa deve essere il frutto di una scelta volontaria dell’agente. Tale scelta non deve essere riconducibile a cause indipendenti dalla sua volontà o necessitata da fattori esterni che rendono impossibile o troppo rischiosa la prosecuzione del reato. In altre parole, la scelta di ‘tornare indietro’ deve essere libera e non coartata dalle circostanze.
Conclusioni: le conseguenze dell’inammissibilità
La conseguenza diretta della dichiarazione di inammissibilità è stata la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende. La Corte ha specificato che tale condanna è dovuta perché non si può ritenere che l’imputato abbia proposto il ricorso ‘senza versare in colpa’, citando la sentenza della Corte Costituzionale n. 186 del 2000. La decisione evidenzia come un’impugnazione palesemente infondata o meramente ripetitiva non solo non ha possibilità di successo, ma comporta anche significative conseguenze economiche per chi la propone. Questo principio serve a scoraggiare ricorsi dilatori o pretestuosi, garantendo l’efficienza del sistema giudiziario e sanzionando l’abuso dello strumento processuale.
Quando un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile?
Secondo questa ordinanza, un ricorso è inammissibile quando si limita a riproporre motivi di censura già adeguatamente esaminati e respinti con corretti argomenti giuridici dalla corte territoriale, senza un reale confronto critico con la decisione impugnata.
Quali sono i requisiti per configurare la desistenza volontaria?
La desistenza è considerata volontaria solo se la decisione di interrompere l’azione criminosa è il frutto di una scelta autonoma e libera dell’agente, non determinata da cause indipendenti dalla sua volontà o da fattori esterni che rendono la prosecuzione del reato impossibile o eccessivamente rischiosa.
Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso?
La dichiarazione di inammissibilità comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro (in questo caso, tremila euro) da versare alla Cassa delle ammende, specialmente quando si ritiene che il ricorso sia stato proposto con colpa.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 44546 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 44546 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a NOTO il 06/02/1983
avverso la sentenza del 22/12/2023 della CORTE APPELLO di BOLOGNA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
i
letto il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME avverso la sentenza in epigrafe esaminati gli atti e il provvedimento impugnato;
ritenuto che il ricorso è inammissibile perché deduce un motivo meramente riproduttivo di profili di censura in ordine alla configurabilità della desistenza già adeguatamente vagliati disattesi con corretti argomenti giuridici dalla Corte territoriale (si vedano le pagine 2 e 3);
ritenuto che le conclusioni dei Giudici di merito sono coerenti con la giurisprudenza di questa Corte che, ai fini della configurabilità della desistenza dal delitto, richiede che la decisio interrompere l’azione criminosa deve essere il frutto di una scelta volontaria dell’agente, no riconducibile ad una causa indipendente dalla sua volontà o necessitata da fattori esterni (cfr Sez. 3, n. 17518 del 28/11/2018, dep. 2019, Rv. 275647);
ritenuto che all’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila da versare in favore della cassa delle ammende, non potendosi ritenere che lo stesso abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. n. 186 del 2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso l’11 ottobre 2024.