Desistenza Volontaria: Non Basta Fermarsi, la Scelta Deve Essere Libera
La desistenza volontaria è un concetto cruciale nel diritto penale, capace di escludere la punibilità per un reato tentato. Ma cosa significa veramente “volontariamente”? Basta semplicemente interrompere l’azione? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ci offre un chiarimento fondamentale: la scelta di non proseguire nel crimine deve nascere da una libera determinazione interiore, non dettata dalla paura o da ostacoli esterni. Analizziamo insieme questa importante decisione.
I Fatti del Caso: Il Tentativo di Rapina e il Ricorso in Cassazione
Il caso riguarda un individuo condannato nei primi due gradi di giudizio per il reato di tentata rapina. Non accettando la condanna, l’imputato ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione, basandolo su due motivi principali. In primo luogo, ha contestato la valutazione delle prove e la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, lamentando un vizio di motivazione. In secondo luogo, e questo è il punto centrale, ha sostenuto di aver volontariamente interrotto la propria azione criminosa, invocando quindi l’applicazione dell’istituto della desistenza volontaria previsto dall’articolo 56 del codice penale.
L’Analisi della Corte di Cassazione e il concetto di desistenza volontaria
La Suprema Corte ha esaminato entrambi i motivi di ricorso, giungendo a una declaratoria di inammissibilità.
Per quanto riguarda il primo motivo, i giudici hanno ribadito un principio cardine del giudizio di legittimità: la Corte di Cassazione non è un terzo grado di giudizio sul fatto. Il suo compito non è rivalutare le prove o proporre una ricostruzione alternativa degli eventi, ma verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione della sentenza impugnata. Poiché le argomentazioni dell’imputato si limitavano a riproporre questioni di fatto già ampiamente discusse e decise nei gradi precedenti (la cosiddetta “doppia conforme”), il motivo è stato ritenuto aspecifico e quindi inammissibile.
Il secondo motivo, relativo alla desistenza volontaria, è stato invece giudicato manifestamente infondato, offrendo alla Corte l’occasione per precisare i contorni di questo istituto.
Le Motivazioni: La Differenza tra Scelta Libera e Azione Necessitata
La motivazione della Corte si concentra sulla distinzione tra una scelta autenticamente volontaria e una scelta “necessitata” da fattori esterni. I giudici d’appello avevano già stabilito che l’interruzione dell’azione delittuosa non era stata frutto di una libera scelta dell’imputato. La Cassazione ha confermato questa lettura, richiamando un principio di diritto consolidato.
La desistenza, per essere considerata “volontaria”, non richiede che sia spontanea, ma esige che la decisione di non portare a termine il reato sia presa in una condizione di “libertà interiore”. In altre parole, l’agente deve avere ancora la possibilità di completare il crimine, ma scegliere di non farlo. Se, al contrario, la decisione di fermarsi è causata da circostanze esterne che rendono il proseguimento dell’azione impossibile, irrealizzabile o eccessivamente rischioso, non si può parlare di desistenza volontaria. In questo caso, l’interruzione non è una scelta, ma una necessità imposta dalla situazione. La Corte ha ritenuto che nel caso di specie l’imputato si fosse fermato non per un ripensamento interiore, ma perché le circostanze avevano reso la continuazione del reato troppo pericolosa.
Le Conclusioni: Quando un Ricorso Diventa Inammissibile
L’ordinanza si conclude con la dichiarazione di inammissibilità del ricorso. Questa decisione comporta non solo la conferma definitiva della condanna per tentata rapina, ma anche la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle ammende. Le implicazioni di questa pronuncia sono chiare: primo, i ricorsi in Cassazione devono concentrarsi su questioni di diritto e non su mere contestazioni dei fatti; secondo, l’istituto della desistenza volontaria viene interpretato in modo rigoroso, premiando solo chi compie una genuina scelta di abbandonare il proposito criminale, e non chi è semplicemente costretto a farlo dalle circostanze.
Quando si può parlare di desistenza volontaria in un reato?
Si può parlare di desistenza volontaria quando la mancata consumazione del delitto dipende da una scelta dell’autore che non è necessitata, ma operata in una situazione di libertà interiore, indipendente da circostanze esterne che rendono impossibile o troppo rischioso il proseguimento dell’azione criminosa.
Perché la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché i motivi erano in parte aspecifici e reiterativi di doglianze già affrontate in appello, e in parte manifestamente infondati. In particolare, la Corte non può riesaminare nel merito la ricostruzione dei fatti e ha ritenuto che la richiesta di applicare la desistenza volontaria fosse priva di fondamento giuridico nel caso specifico.
Cosa significa che la scelta di desistere non deve essere “necessitata”?
Significa che l’agente deve interrompere l’azione criminale pur avendo ancora la possibilità concreta di portarla a termine. Se si ferma perché spaventato da un evento imprevisto, dall’arrivo delle forze dell’ordine o perché l’obiettivo è diventato irraggiungibile, la sua non è una scelta libera ma una decisione obbligata dalle circostanze, e quindi non si configura la desistenza volontaria.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 7898 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 7898 Anno 2025
Presidente: IMPERIALI NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 14/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a CATANIA il 20/03/1983
avverso la sentenza del 30/05/2024 della CORTE APPELLO di CATANIA
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
CONSIDERATO IN FATTO E IN DIRITTO
Letto il ricorso di COGNOME
ritenuto che il primo motivo di impugnazione, con cui si lamenta violazione degli artt. 125, 192 cod. proc. pen. nonché vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di tentata rapina ed all’affermazione di responsabilità dell’imputato, è aspecifico in quanto reiterativo di medesime doglianze inerenti alla ricostruzione dei fatti e all’interpretazione del materiale probatorio già espresse in sede di appello ed affrontate in termini precisi e concludenti dalla Corte territoriale nonché articolato esclusivamente in fatto e, quindi, proposto al di fuori dei limiti del giudizio di legittimità, restando estranei a poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi probatori posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti;
rilevato che i giudici di appello, con motivazione esaustiva e conforme alle risultanze processuali, che riprende le argomentazioni del giudice di primo grado come è fisiologico in presenza di una doppia conforme, hanno indicato la pluralità di elementi idonei a dimostrare la penale responsabilità del ricorrente in ordine al reato di tentata rapina (vedi in particolare pagg. 2 e 3 della sentenza impugnata in ordine all’idoneità della condotta del ricorrente ad incutere timore nella persona offesa), tale ricostruzione, in nessun modo censurabile sotto il profilo della completezza e della razionalità, è fondata su apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perci insindacabili in questa sede;
considerato che il secondo motivo di ricorso, che lamenta la mancata applicazione dell’art. 56, comma terzo cod. pen., avendo il COGNOME volontariamente desistito dall’azione criminosa, oltre che reiterativo, è manifestamente infondato. I giudici di appello affermando, con motivazione conforme alle risultanze probatorie, che la desistenza dall’azione delittuosa non è stata frutto di una libera scelta del ricorrente (vedi pag. 3 della sentenza impugnata) hanno correttamente dato seguito al principio di diritto secondo cui : “in tema di desistenza dal delitto, la mancata consumazione del delitto deve dipendere dalla volontarietà che non deve essere intesa come spontaneità, per cui la scelta di non proseguire nell’azione criminosa deve essere non necessitata, ma operata in una situazione di libertà interiore, indipendente da circostanze esterne che rendono irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’azione criminosa» (Sez. 4, n. 12240 del 13/02/2018, Ferdico, Rv. 272535 – 01);
rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2025.