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Desistenza volontaria: no se il reato è consumato

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un imputato che, dopo aver fornito false generalità, si era recato presso gli uffici di polizia. La Corte ha stabilito che la desistenza volontaria non è applicabile, poiché il reato si era già consumato al momento della dichiarazione mendace e non poteva essere interrotto da una condotta successiva.

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Pubblicato il 28 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Desistenza volontaria e reato consumato: la Cassazione traccia una linea netta

Un recente provvedimento della Corte di Cassazione offre un importante chiarimento sulla non applicabilità della desistenza volontaria una volta che il reato si è perfezionato. La decisione sottolinea la distinzione fondamentale tra il tentativo di reato, dove l’azione criminale è ancora in corso, e il reato consumato, che rappresenta un punto di non ritorno giuridico. Questo caso, riguardante la fornitura di false generalità, dimostra come un pentimento successivo non possa cancellare un illecito già completato.

I Fatti del Caso

La vicenda processuale ha origine dal ricorso presentato da un individuo condannato nei gradi di merito. L’imputato, in una determinata circostanza, aveva fornito alle autorità delle generalità non veritiere. Successivamente, in un momento distinto, si era recato di sua iniziativa presso gli uffici di polizia. Sulla base di questa seconda condotta, la difesa aveva invocato l’applicazione dell’istituto della desistenza volontaria, sostenendo che l’imputato avesse di fatto interrotto l’azione illecita e neutralizzato le sue conseguenze.

L’Applicabilità della Desistenza Volontaria secondo la Cassazione

Il ricorrente lamentava una violazione di legge da parte della Corte d’Appello per non aver riconosciuto la desistenza volontaria, come previsto dall’articolo 56, terzo comma, del codice penale. Secondo questa norma, se il colpevole desiste volontariamente dall’azione, non è punibile per il tentativo. Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto il motivo del ricorso manifestamente infondato, fornendo una spiegazione chiara e lineare sulla natura del reato contestato e sui limiti applicativi dell’istituto invocato.

La Decisione della Corte Suprema

Con un’ordinanza, la Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile. Di conseguenza, ha condannato il ricorrente non solo al pagamento delle spese processuali, ma anche al versamento di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende, confermando la decisione del giudice di secondo grado.

Le Motivazioni

Il fulcro della decisione risiede nella natura del reato di false dichiarazioni. La Corte ha stabilito che tale reato ha carattere istantaneo: si consuma nel preciso momento in cui le false generalità vengono fornite all’autorità. Una volta che la dichiarazione mendace è stata resa, il reato è perfezionato in tutti i suoi elementi. La condotta successiva dell’imputato, pur lodevole, non può più configurarsi come una desistenza dall’azione, poiché l’azione si era già conclusa e il reato era già stato consumato. L’istituto della desistenza volontaria, infatti, è stato concepito dal legislatore per incentivare il reo a fermarsi durante la fase del tentativo, cioè prima che la condotta illecita giunga a compimento. Non può, quindi, operare retroattivamente per annullare un reato già perfetto.

Le Conclusioni

Questa ordinanza riafferma un principio cardine del diritto penale: la netta separazione tra la fase del tentativo e quella della consumazione del reato. La desistenza volontaria è uno strumento che può portare alla non punibilità solo se interviene prima che la soglia della consumazione sia stata varcata. Un eventuale ravvedimento successivo alla commissione del reato non rientra in questa categoria e, sebbene possa essere valutato dal giudice in altre sedi (ad esempio, per la determinazione della pena), non può eliminare la rilevanza penale del fatto già commesso. La decisione serve da monito: una volta completato un reato istantaneo, non c’è possibilità di “tornare indietro” attraverso l’istituto della desistenza.

Quando si considera consumato il reato di false generalità?
Secondo l’ordinanza, il reato si considera consumato nel momento esatto in cui l’imputato fornisce le false generalità, poiché si tratta di un reato istantaneo.

È possibile invocare la desistenza volontaria dopo aver commesso il reato?
No, la Corte chiarisce che la desistenza volontaria prevista dall’art. 56, terzo comma, cod. pen. può configurarsi solo prima che il reato sia consumato, ovvero nella fase del tentativo.

Qual è stata la conseguenza della dichiarazione di inammissibilità del ricorso?
Il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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