Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 22621 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 22621 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a Cerignola l’1/1/1956
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bari del 9/5/2024
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi il ricorso inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 9.5.2024, la Corte d’Appello di Bari ha confermato la sentenza del Tribunale di Foggia del 13.10.2020, con cui NOME COGNOME -dichiarato colpevole del reato di cui gli artt. 2 e 7 L. n. 895 del 1967 limitatamente alla detenzione di una pistola Colt calibro 25, di una pistola mitragliatrice modello Mauser, di un revolver British bulldog e di un moschetto intarsiato -era stato condannato alla pena di mesi sei di reclusione ed euro 1.400 di multa.
1.1 L’imputato ha proposto appello, rilevando in rito che l’attività di indagine era nulla ai sensi dell’art. 360, comma 5, cod. proc. pen., trattandosi di
accertamento tecnico irripetibile. Quanto al merito, COGNOME ha eccepito, innanzitutto, che il tribunale avrebbe dovuto disapplicare il decreto con cui il prefetto di Foggia lo aveva interdetto dalla detenzione di armi. In secondo luogo, ha evidenziato con riferimento: alla pistola Colt calibro 25, che la denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. era stata eseguita dal cedente dottor COGNOME il quale aveva depositato al Commissariato di Cerignola la dichiarazione di cessione; alla pistola Mauser, che non ne aveva la disponibilità perché era stata rinvenuta tra i cimeli del genitore defunto; alla pistola British bulldog e al moschetto, che si trattava di armi antiche per le quali doveva considerarsi abolita la necessità di denuncia ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), punto a), d.lgs. n. 204 del 2010.
1.2 Al riguardo, la Corte d’Appello di Bari ha ritenuto:
quanto alla irripetibilità dell’accertamento, che al consulente tecnico del pubblico ministero era stato demandato di accertare le caratteristiche, la funzionalità e la catalogazione delle armi, appurando se si trattasse di armi comuni da sparo e se fossero di tipo clandestino. In sostanza, la finalità dell’esame era di valutare se i beni potessero essere considerati armi oppure meri cimeli da collezione. Il giudice di primo grado ha coerentemente valutato che gli accertamenti non determinarono alcuna alterazione definitiva della cosa e non intaccarono la possibilità di reiterazione dell’accertamento, né l’oggetto dell’indagine lasciava ipotizzare una modificazione tale da impedire da rinnovazione;
quanto alla disapplicazione del decreto prefettizio, che il provvedimento spiega i suoi effetti finché non ne sia stata chiesta la revoca, ciò a cui l’imputato non ha provveduto;
quanto alla pistola Colt calibro 25, che l’appellante ha ammesso di non aver richiesto il rilascio di un’attestazione di cessione dell’arma e che, pertanto, manca qualsivoglia prova in merito all’adempimento dell’obbligo di denuncia e, quindi, alla legittima detenzione dell’arma. La circostanza che il cedente avesse denunciato il trasferimento non soddisfa la ratio della denuncia, che è quella, non solo di conoscere dove siano le armi, ma anche chi ne abbia effettivamente la disponibilità;
quanto alla pistola Mauser, che, in primo luogo, non è emersa con certezza l’originaria provenienza dell’arma, in quanto non compare nella denuncia effettuata dal padre dell’imputato, e, in secondo luogo, che in ogni caso ciò non avrebbe esentato l’imputato dal denunciare personalmente l’acquisizione dell’arma;
quanto al revolver British bulldog e al moschetto, che il d.lgs. n. 204 del 2010 ha escluso dall’obbligo di denuncia i possessori di raccolte autorizzati di armi antiche in quanto possessori di un’apposita licenza, ma non anche i possessori di armi antiche (rimanendo integrata, in assenza di denuncia, la contravvenzione di
cui all’art. 697 cod. pen.). Ma l’appellante non si confronta con le risultanze dell’accertamento del pubblico ministero, perché, in primo luogo, entrambe le armi non furono classificate quali ‘ armi antiche ‘, e, in secondo luogo, ne venne accertata la regolare funzionalità e quindi l’attuale attitudine a offendere, sicché ciò determinò la loro qualificazione quali ‘ armi comuni da sparo ‘ . A nulla rileva che la Sovrintendenza archeologica avesse riconosciuto l’interesse storico-artistico di parte delle armi, perché nemmeno questo esonera dall’obbligo di denuncia.
Avverso la predetta sentenza, ha proposto ricorso il difensore di COGNOME articolando quattro motivi.
2.1 Con il primo motivo, eccepisce che, prima della c.d. ‘ prova a fuoco ‘ , l’arma viene smontata, lubrificata e riassemblata. Questa operazione può determinare la modifica dell’originario stato del reperto e, dunque, non può definirsi operazione ripetibile, tale potendosi considerare la sola ‘ prova a fu oco’ stessa ma non anche le operazioni propedeutiche, che debbono essere qualificate come irripetibili e, dunque, essere eseguite con le garanzie difensive.
2.2 Con il secondo motivo, deduce vizio di motivazione sulla disapplicazione del decreto prefettizio.
Il provvedimento in questione non può avere efficacia sine die : nel caso di specie, il provvedimento era del 17.10.1994 ed era stato emesso in circostanze in cui non era prevedibile la successiva assoluzione dell’imputato in relazione ai fatti per cui il divieto era stato adottato.
2.3. Con il terzo motivo, deduce vizio di motivazione con riferimento al fatto che la Corte d’Appello non ha apprezzato adeguatamente la testimonianza del teste COGNOME il quale ha dichiarato di essersi recato, unitamente all’imputato, presso gli uffici amministrativi del Commissariato di Cerignola per comunicare il trasferimento dell’arma ceduta a Pedarra. Di conseguenza, non è dubbia la circostanza storica che l’imputato abbia provveduto nell’immediatezza a effettuare la prescritta denuncia agli organi preposti.
Altro aspetto è la mancata richiesta del relativo attestato o la mancata sua esibizione in giudizio, in quanto la circostanza è stata comunque processualmente acclarata dalle dichiarazioni del teste e, in ultima analisi, la esigenza pubblica della conoscenza del detentore dell’arma fu soddisfatta dalla denuncia del cedente l’arma.
2.4 Con il quarto motivo, deduce vizio di motivazione con riferimento al fatto che la Corte d’Appello non ha adeguatamente valutato la relazione della Sovrintendenza che classificò le armi come di ‘ interesse storico-artistico ‘ . Questa classificazione modifica il quadro normativo di riferimento e rende inconferente il
richiamo della sentenza all’art. 7 del d.m. 14.4.1982, che riguarda l’obbligo di denuncia per coloro che detengono armi antiche in numero superiore a otto.
Ha errato la Corte di Appello anche nel momento in cui ha escluso l’applicabilità del d.m. del 1982 in rapporto alla funzionalità delle armi. In realtà, il decreto in questione non prevede alcuna differenza tra un reperto funzionante e un reperto inefficiente.
Con requisitoria scritta trasmessa il 14.2.2025, il Sostituto Procuratore generale ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile, evidenziando che i motivi sono aspecifici e, comunque, del tutto assertivi, poiché il ricorrente in concreto non si confronta adeguatamente con la motivazione della Corte di Appello e, in ogni caso, non assolve all’onere, avendo denunciato contestualmente due o più tra i vizi della motivazione, di indicare precisamente quali profili siano interessati dai singoli vizi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è complessivamente infondato per le ragioni di seguito esposte.
Quella posta con il primo motivo di ricorso è questione già affrontata e risolta sia nella sentenza di primo grado che in quella di secondo grado, peraltro in risposta a doglianze allora formulate dal difensore dell’imputato nei medesimi termini adesso sottoposti al giudice di legittimità.
In particolare, i giudici di merito ribadiscono in modo congruo che la censura specificamente attinente alla pretesa irripetibilità delle operazioni precedenti la prova di sparo è inconferente rispetto all’esito del peculiare accertamento affidato al consulente tecnico e finalizzato alla verifica di caratteristiche, funzionalità e catalogazione delle armi in sequestro.
La motivazione della sentenza impugnata è del tutto adeguata e, peraltro, richiama a supporto sia le dichiarazioni del sottufficiale di polizia giudiziaria autore dell’accertamento, il quale ha anche smentito in fatto che le operazioni propedeutiche alla prova si siano svolte con le modalità ipotizzate dal ricorrente, sia le dichiarazioni del consulente tecnico dello stesso imputato, il quale ha ammesso il carattere ripetibile della prova sulla funzion alità dell’arma.
A fronte di ciò, il ricorso, reiterando il motivo d’appello, nemmeno precisa quale lesione, in ultima analisi, sarebbe derivata al diritto di difesa dallo svolgimento dell’accertamento in assenza di contraddittorio e, conseguentemente, quale pregiudizio concreto avrebbe invalidato l’ indagine tecnica diretta a stabilire se le armi fossero funzionanti e se fossero catalogabili o meno come clandestine.
Deve ritenersi, di conseguenza, che la sentenza impugnata abbia fatto corretta applicazione del principio secondo cui l’accertamento tecnico irripetibile, che impone di assolvere agli adempimenti richiesti dall’art. 360 cod. proc. pen., è solo quello che, in forza di una valutazione “ex ante” e sulla base di una ragionevole prevedibilità, sia causa di alterazione della cosa, del luogo o della persona sottoposta all’esame medesimo (Sez. 1, n. 1059 del 3/10/2024, dep. 2025, P., Rv. 287484 -02; Sez. 3, n. 46043 del 20/3/2018, C., Rv. 274519 – 01).
Il primo motivo di ricorso, quindi, deve essere disatteso.
Quanto al secondo motivo, la sentenza d’appello è contrastata dal ricorrente, sul punto della invocata disapplicazione del decreto del Prefetto di Foggia che gli interdiceva la detenzione di armi, con l ‘argomento che , nel procedimento penale da cui era scaturito il detto provvedimento amministrativo, l’imputato era stato medio tempore prosciolto.
Si tratta della medesima doglianza con cui era stata avversata anche la sentenza di primo grado, la quale aveva deciso in modo analogo la questione, e il ricorrente la reitera pedissequamente senza confrontarsi con la motivazione conforme della Corte d’App ello, che afferma la perdurante efficacia del provvedimento prefettizio fino a che non ne intervenga la revoca.
Il ricorso non confuta specificamente tale motivazione, che invece è del tutto condivisibile.
La disapplicazione potrebbe riguardare tutt’al più un atto amministrativo illegittimo ab origine , ma non un atto legittimo dalla perdurante validità formale, mai venuta meno per effetto della eventuale revoca dell’atto stesso, il cui presupposto, peraltro, non è la pendenza di un procedimento penale, ma, a stare al tenore letterale dell’art. 39 r.d. n. 773 del 1931, la discrezionale valutazione del Prefetto -non sindacabile dal giudice penale -circa la possibilità che il detentore di un ‘arma ne abusi .
Ne discende, pertanto, che il secondo motivo di ricorso debba essere considerato infondato.
Anche il terzo motivo si limita a riproporre, con riferimento alla violazione dell’obbligo di denuncia della pistola colt cal. 25, la medesima doglianza sulla base della quale era stata già impugnata la sentenza di primo grado.
La Corte d’Appello l’ha adeguatamente disattesa, in virtù dell’invalicabile argomento di ‘chiusura’ per cui, anche a ritenere nel merito che fosse stato
adempiuto l’obbligo di denuncia della cessione dell’arma, resta il fatto che ciò non avrebbe esentato il cessionario dall’obbligo di denuncia di possesso.
I giudici di secondo grado hanno in tal modo riaffermato la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui la necessità della denuncia di trasferimento dell’arma da parte di colui che la cede non esime il cessionario dall’obbligo di presentare denuncia di possesso della stessa (Sez. 1, n. 27829 del 13/06/2013, COGNOME, Rv. 256070 – 01), la quale legittima il rapporto materiale che si instaura tra l’arma e il nuovo detentore (Sez. 1, n. 2127 del 14/5/1992, P.m. in proc. COGNOME, Rv. 190689 – 01).
Il motivo di ricorso denuncia vizio di motivazione, ma prima ancora non si confronta con la motivazione in diritto della sentenza d ‘appello e non la confuta sulla base di elementi diversi, sicché è da considerarsi inammissibile.
Per quello che riguarda il quarto motivo, è esatto quello che afferma la Corte d’Appello di Bari, e, cioè, che, secondo l’art. 7 d.m. 14.4.1982, coloro che detengono armi da sparo antiche, artistiche o rare di importanza storica in numero non superiore a otto debbono farne denuncia, ai sensi dell’art. 38 r.d. n. 773 del 1931, al locale ufficio di pubblica sicurezza o, in mancanza, al comando dei carabinieri del posto.
Il ricorrente, invece, erra quando eccepisce, in contrasto con la lettera della norma, che l’obbligo di denuncia sorge a partire da otto armi detenute; in realtà, in caso di armi detenute in numero superiore a otto si applica l’art. 8 del lo stesso d.m. 14.4.1982, il quale si riferisce alle collezioni, che richiedono una apposita licenza.
In ogni caso , il ricorso non confuta l’ argomento correttamente esposto dai giudici di secondo grado, secondo cui le armi di COGNOME non furono mai classificate quali ‘armi antiche’, e utilizza piuttosto, a sostegno del motivo, il termine di armi di ‘interesse storico -artistico’, che tuttavia non è contemplato dal d.m. 14.4.1982, il cui ambito di applicazione è circoscritto dall’art. 1 alle ‘armi da sparo antiche’ e alle ‘armi da sparo artistiche o rare di importanza storica di modelli anteriori al 1890’.
Anche il quarto motivo, pertanto, deve essere disatteso.
Alla luce di quanto fin qui osservato, dunque, il ricorso deve essere rigattato, con la conseguente condanna del ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 25.3.2025