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Delitto associativo: non basta spacciare per essere affiliato

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un PM contro la decisione del Tribunale del Riesame. Quest’ultimo aveva annullato una misura cautelare per delitto associativo, ritenendo che i contatti dell’indagato con membri di un sodalizio criminale, finalizzati a singoli episodi di spaccio, non fossero sufficienti a dimostrare una sua stabile adesione all’organizzazione. La Suprema Corte ha confermato che la commissione di reati-fine non equivale a partecipazione associativa.

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Pubblicato il 5 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Delitto associativo: la Cassazione traccia il confine con il singolo spaccio

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 13202 del 2025, offre un importante chiarimento sui requisiti necessari per contestare il delitto associativo finalizzato al traffico di stupefacenti. La Suprema Corte ha stabilito che la semplice partecipazione a episodi di spaccio, anche se in contatto con membri di un’organizzazione criminale, non è sufficiente a provare l’appartenenza stabile dell’individuo al sodalizio stesso. Analizziamo insieme la vicenda e i principi di diritto affermati.

I Fatti di Causa

Il caso nasce da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal GIP di Caltanissetta nei confronti di un individuo, indagato per partecipazione a un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti (art. 74 d.P.R. 309/90) e per un singolo episodio di cessione di droga (art. 73 d.P.R. 309/90).

In seguito al ricorso della difesa, il Tribunale del Riesame ha parzialmente riformato la decisione. Pur confermando la gravità indiziaria per il singolo reato di spaccio, il Tribunale ha annullato l’ordinanza per quanto riguarda il delitto associativo. La motivazione? L’assenza di elementi idonei a dimostrare una stabile adesione dell’indagato al sodalizio criminale. Di conseguenza, la misura della custodia in carcere è stata sostituita con l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

Il Procuratore della Repubblica ha impugnato questa decisione con ricorso per cassazione, lamentando un vizio di motivazione e sostenendo che il Tribunale avesse erroneamente sottovalutato le prove, come le intercettazioni e i continui rapporti dell’indagato con figure chiave del gruppo.

La Decisione della Corte sul Delitto Associativo

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso del Pubblico Ministero inammissibile. La decisione si fonda su un principio cardine del giudizio di legittimità: la Cassazione non può riesaminare i fatti e sostituire la propria valutazione a quella, logicamente coerente, del giudice di merito (in questo caso, il Tribunale del Riesame).

Limiti del Giudizio di Cassazione

I giudici ermellini hanno ribadito che il loro compito non è quello di una terza istanza di giudizio sul merito, ma di verificare la correttezza giuridica e la logicità della motivazione del provvedimento impugnato. Nel caso di specie, il ricorso del PM si risolveva in una richiesta di diversa interpretazione delle prove, attività preclusa in sede di legittimità.

La distinzione tra concorso nel reato e partecipazione all’associazione

Il punto centrale della decisione riguarda la distinzione fondamentale tra il concorrere in singoli reati-fine (come lo spaccio) e il far parte organicamente di un’associazione criminale. Commettere più reati in concorso con membri di un’organizzazione non è, di per sé, una prova sufficiente per integrare il delitto associativo.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte ha ritenuto che la motivazione del Tribunale del Riesame fosse adeguata e priva di vizi logici manifesti. Il Tribunale aveva correttamente analizzato gli elementi investigativi, giungendo alla conclusione che essi dimostravano un coinvolgimento dell’indagato nel traffico di stupefacenti, ma non la sua effettiva compenetrazione nel tessuto organizzativo del sodalizio.

Secondo la valutazione del Riesame, i contatti frequenti con altri soggetti non provavano l’esistenza di un vincolo associativo stabile, ma si configuravano come relazioni dirette e immediate finalizzate a concludere specifici affari. Anche una conversazione intercettata, che secondo l’accusa dimostrava la consapevolezza di agire in un contesto strutturato, è stata ritenuta dal Tribunale insufficiente a fondare la presunta appartenenza al gruppo, configurandosi piuttosto come la volontà di concludere un singolo affare.

Conclusioni

La sentenza in esame riafferma un principio cruciale: per configurare il delitto associativo, l’accusa deve fornire la prova di un’adesione stabile e consapevole del soggetto alla struttura criminale. Non basta dimostrare la sua partecipazione a uno o più reati commessi dall’organizzazione. È necessario provare che l’individuo sia inserito nel tessuto organizzativo, con un ruolo definito e la consapevolezza di contribuire al programma criminoso del gruppo. Questa pronuncia consolida le garanzie difensive, imponendo un onere probatorio rigoroso per una delle accuse più gravi previste dal nostro ordinamento penale.

Commettere più reati di spaccio con membri di un’associazione criminale significa automaticamente farne parte?
No. Secondo la sentenza, la commissione di più reati-fine in concorso con singoli partecipi al sodalizio non è di per sé sufficiente a integrare l’esistenza di gravi indizi per il delitto associativo. È necessario che i rapporti costituiscano forme di interazione nell’ambito di un gruppo organizzato e non semplici relazioni dirette.

Qual è il limite del ricorso per cassazione avverso un’ordinanza del Tribunale del Riesame?
Il ricorso per cassazione consente solo la verifica delle censure relative alla logicità della motivazione e alla corretta applicazione dei principi di diritto. Non permette un nuovo esame dei fatti o una diversa valutazione delle prove, se quella del giudice di merito non è manifestamente illogica.

Cosa deve dimostrare l’accusa per provare la partecipazione a un delitto associativo?
L’accusa deve provare l’esistenza di una stabile adesione del soggetto al sodalizio criminale. Deve dimostrare che l’individuo è inserito nel tessuto organizzativo e non si è limitato a partecipare a singoli reati-fine, anche se in contatto con membri dell’associazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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