Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 39251 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 39251 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 04/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a SANTERAMO IN COLLE il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 10/01/2024 della CORTE APPELLO di POTENZA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
lette le conclusioni del PG, NOME COGNOME, ha chiesto il rigetto del ricorso.
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 26 ottobre 2022 il Tribunale di Matera, in rito abbreviato, previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti, ha condannato NOME COGNOME alla pena di 2 anni e 2 mesi di reclusione per il reato di incendio dello stabile residenziale di Matera INDIRIZZO in cui era ubicata l’RAGIONE_SOCIALE gestita da NOME COGNOME, fatto avvenuto il 29 ottobre 2020.
Con sentenza del 10 gennaio 2024 la Corte di appello di Potenza, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha riqualificato il fatto in quello di incendio tentato, e rideterminato la pena inflitta all’imputato in un anno e sei mesi di reclusione, e confermato per il resto la sentenza di primo grado.
Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso l’imputato, per il tramite del difensore, con i seguenti motivi di seguito descritti nei limit strettamente necessari ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di qualificazione giuridica del fatto, perché la sentenza impugnata ha ritenuto il fatto sussumibile sotto la norma di cui agli artt. 56 e 423 cod. pen., laddove esso avrebbe dovuto essere rubricato come art. 424 cod. pen., atteso l’utilizzo di un quantitativo limitato di materiale infiammabile, la superficie circoscritta dello sviluppo delle fiamme che hanno attinto solo la vetrata d’ingresso dell’RAGIONE_SOCIALE, la non infiammabilità della porta-vetro, la limitatezza dei danni, indipendentemente dall’intervento dei RAGIONE_SOCIALE del RAGIONE_SOCIALE, e lo scopo dell’azione criminosa, che era palesemente finalizzata soltanto a dare un segnale al concorrente.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge in punto di utilizzazione delle dichiarazioni accusatorie rese dai coimputati NOME COGNOME e NOME COGNOME, perché si tratta di dichiarazioni spontanee rese in indagini preliminari, e poi ripetute in udienza preliminare; queste dichiarazioni sarebbero utilizzabili in giudizio abbreviato solo contro l’imputato che le ha rese ma non contra alios, nel qual caso sussisterebbe una inutilizzabilità patologica che avrebbe imposto di ritenerle non utilizzabili; in ogni caso, esse avrebbero dovuto essere valutate secondo il criterio di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., ovvero avrebbero avuto bisogno di riscontri esterni a conferma dell’attendibilità dei dichiaranti, ed i riscontri avrebbero dovuto riguardare proprio il chiamato in correità.
Con il terzo motivo deduce violazione di legge, perché nei motivi di appello era stata richiesta l’applicazione dell’attenuante del danno di lire entità, atteso che esso si era risolto nella rottura del vetro della porta e nell’annerimento della facciata, danno quantificabile in qualche centinaio di euro, ma la sentenza d’appello ha ignorato l’istanza senza alcuna motivazione.
Con requisitoria scritta il Procuratore generale, NOME COGNOME, ha concluso per il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
Il primo motivo, dedicato alla qualificazione giuridica del fatto, è inammissibile per mancanza di specificità.
La sentenza di appello ha risposto al motivo sulla qualificazione giuridica del fatto, evidenziando che la giurisprudenza di legittimità ritiene che “il discrimine tra il reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424 cod. pen.) e quello di incendio (art. 423 cod. pen.) è costituito dall’elemento psicologico del reato. Nell’ipotesi prevista dall’art. 423 cod. pen. esso consiste nel dolo generico, cioè nella volontà di cagionare un incendio, inteso come combustione di non lievi proporzioni, che tende ad espandersi e non può facilmente essere contenuta e spenta, mentre, invece, il reato di cui all’art. 424 cod. pen. è caratterizzato dal dolo specifico, consistente nel voluto impiego del RAGIONE_SOCIALE al solo scopo di danneggiare, senza la previsione che ne deriverà un incendio con le caratteristiche prima indicate o il pericolo di siffatto evento. Pertanto, nel caso di incendio commesso al fine di danneggiare, quando a detta ulteriore e specifica attività si associa la coscienza e la volontà di cagionare un fatto di entità tale da assumere le dimensioni previste dall’art. 423 cod. pen., è applicabile quest’ultima norma e non l’art. 424 cod. pen., nel quale l’incendio è contemplato come evento che esula dall’intenzione dell’agente. (Sez. 5, n. 1697 del 25/09/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258942).
Lo scopo che perseguivano gli agenti è, pertanto, irrilevante, quando dal complesso delle circostanze dell’azione emerga la consapevolezza e volontà di cagionare una “combustione di non lievi proporzioni, che tende ad espandersi e non può facilmente essere contenuta e spenta”, per usare l’espressione della pronuncia COGNOME.
La pronuncia di appello ha ritenuto che tale consapevolezza e volontà di cagionare una combustione di non lievi proporzioni fosse ricavabile nel caso in esame “dall’aver utilizzato un combustibile altamente infiammabile, dall’aver dato RAGIONE_SOCIALE a materiali facilmente aggredibili dalle fiamme, senza di fatto attivarsi per limitarne la loro espansione all’intero edificio e dalla parte sovrastante dove era un alloggio privato, dall’aver agito in un orario notturno, tutti questi elementi che denotano la consapevolezza inevitabile degli occupati della portata al potenzialità distruttrice delle fiamme e della loro difficile governabilità” (pagg. 8 e 9 dell sentenza).
Il ricorso è inammissibile per mancanza di specificità, perché non si è confrontato con questa motivazione e non ha preso posizione sull’esistenza o meno di questi indici dell’esistenza del dolo di incendio, cui si è limitato a contrapporne altri, alcuni peraltro scarsamente significativi (la superficie circoscritta attinta dal fiamme, che è dipesa dalla sollecitudine o meno dell’intervento dei RAGIONE_SOCIALE del RAGIONE_SOCIALE) o del tutto irrilevanti per le ragioni indicate sopra (la volontà di dare un segnale al concorrente), o puramente assertivi (l’affermazione che l’incendio non si sarebbe
comunque propagato al piano superiore anche senza l’intervento dei RAGIONE_SOCIALE).
I motivi di ricorso per cassazione sono, infatti, inammissibili quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni, di fatto o di diritto, poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, COGNOME, Rv. 255568). Le ragioni di tale necessaria correlazione tra la decisione censurata e l’atto di impugnazione risiedono nel fatto che quest’ultimo non può ignorare le ragioni del provvedimento censurato (così in motivazione Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, COGNOME, Rv. 268822) in quanto la funzione tipica dell’impugnazione è quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce che si realizza attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 cod. proc. pen.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.
Il motivo è, pertanto, inammissibile.
2. Il secondo motivo è, invece, infondato.
È orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che nel sistema processuale “le dichiarazioni spontanee rese dall’indagato alla polizia giudiziaria sono utilizzabili in sede di giudizio abbreviato nei confronti dei chiamati in reità o in correità” (Sez. 6, n. 21265 del 15/12/2011, dep. 2012, P.G. in proc. Bianco, Rv. 252852).
È vero che esse devono essere valutate, come sostiene il ricorso, secondo la regola di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., ma, nel caso in esame, la sentenza impugnata, e già quella di primo grado, evidenziano come riscontri l’esistenza di molteplici contatti telefonici tra COGNOME e COGNOME sia nei giorni precedenti al fatto sia il giorno stesso del fatto, nonché la circostanza che dalla immagini delle telecamere di sicurezza risulta che COGNOME e COGNOME si erano recati insieme a Matera già nella giornata precedente al fatto probabilmente allo scopo di effettuare il sopralluogo preliminare. È stata altresì valorizzata la serie di contatti telefonici anche tra COGNOME e COGNOME la sera del fatto, riscontri che riguardano, pertanto, proprio il chiamato in correità, come richiesto in ricorso.
Il terzo motivo, dedicato al mancato riconoscimento dell’attenuante del danno di speciale tenuità, è inammissibile.
Pur se la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n 4, cod. pen. è stata ritenuta, da una risalente giurisprudenza, astrattamente applicabile al reato di cui all’art. 423 cod. pen. (Sez. 1, n. 16510 del 17/10/1989, Virdis, Rv. 182670: la circostanza attenuante del danno di lieve entità è applicabile anche ai reati di pericolo, qualora essi siano plurioffensivi ed in via secondaria colpiscono anche il
patrimonio, nella specie incendio), va osservato che nel caso in esame l’atto di appello si limitava a dedurre che “il danno procurato alla persona offesa è (..) costituto dalla rottura del vetro della porta e l’annerimento della facciata, danno quantificabile in qualche centinaio di euro. Sul punto la sentenza di primo grado è priva di motivazione”.
Si trattava di un motivo di appello inammissibile per difetto di specificità, perché non conteneva una critica argomentata alla sentenza impugnata, limitandosi a sostenere in modo assertivo la necessità di applicazione della attenuante in ragione esclusivamente della quantificazione del danno patrimoniale – peraltro stimato in modo del tutto approssimativo (“qualche centinaio di euro”) ed assertivo (privo di qualsiasi supporto documentale a sostegno) – in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “la concessione della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, presuppone necessariamente che il pregiudizio cagionato sia lievissimo, ossia di valore economico pressoché irrisorio, avendo riguardo non solo al valore in sé della cosa sottratta, ma anche agli ulteriori effetti pregiudizievoli che la persona offesa abbia subìto in conseguenza della sottrazione della “res”, senza che rilevi, invece, la capacità del soggetto passivo di sopportare il danno economico derivante dal reato. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto inammissibile il ricorso con il quale l’imputato invocava la configurabilità della predetta circostanza attenuante in una fattispecie di furto di merce del valore commerciale di 82 euro, sul presupposto che tale somma fosse irrilevante rispetto alla capacità economica del supermercato vittima del reato” (Sez. 4, n. 6635 del 19/01/2017, Sicu, Rv. 269241).
Formulato in questi termini, il motivo di appello era, pertanto, inammissibile, il che rende conseguentemente inammissibile per mancanza di interesse il motivo di ricorso che deduce la omessa risposta al motivo di appello (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 46588 del 03/10/2019, COGNOME, Rv. 277281: in tema d’impugnazioni, è inammissibile, per carenza d’interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado che non abbia preso in considerazione un motivo di appello inammissibile “ab origine” per manifesta infondatezza, in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio. Fattispecie in tema di mancata concessione delle attenuanti generiche, in cui l’imputato si doleva della mancata pronuncia della Corte di Appello, a fronte di un motivo di appello manifestamente inammissibile perché non specificava le ragioni poste alla base dell’invocato riconoscimento delle stesse circostanze e non adduceva una motivata censura all’argomento al riguardo impiegato dal giudice di primo grado).
In ogni caso, per quanto sopra detto, un anno di “qualche centinaio di euro” non può dirsi di speciale tenuità, con la conseguenza che la deduzione è anche manifestamente infondata.
Il ricorso è, pertanto, nel complesso infondato. Ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., alla decisione consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.