Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 22834 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 22834 Anno 2025
Presidente: IMPERIALI NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 16/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nato in Brasile il 15/01/1988
avverso la sentenza del 05/11/2024 della Corte d’appello di Bologna
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visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 05/11/2024, la Corte d’appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del 28/04/2021 del Tribunale di Bologna: 1) assolveva NOME NOME COGNOME dal reato di danneggiamento di un’autovettura di cui al capo 4) dell’imputazione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato; 2) dichiarava non doversi procedere con riguardo alle residue ipotesi di danneggiamento di cui allo stesso capo 4) dell’imputazione per mancanza della querela; 3) ritenuto il reato di minaccia grave di cui al capo 1) dell’imputazione assorbito nel reato di danneggiamento di cui al capo 2) dell’imputazione, rideterminava in quattro mesi e venti giorni di reclusione la pena irrogata al COGNOME per tale reato; 4) confermava nel resto la sentenza di primo grado.
Avverso la suddetta sentenza del 05/11/2024 della Corte d’appello di Bologna, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore avv. NOME COGNOME NOME NOME COGNOME affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce l’inosservanza dell’«obbligo di correlazione fra imputazione e giudizio di condanna» e l’erronea applicazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. «laddove la Corte di appello abbia ritenuto che il reato di danneggiamento contestato al capo 2 sia stato commesso mediante minaccia alle persone quando in realtà né il pubblico ministero né il giudice di prime cure hanno mai contestato o ipotizzato una tale circostanza».
Il COGNOME premette che la Corte d’appello di Bologna ha ritenuto che il reato di danneggiamento della vetrata di un negozio di cui al capo 2) dell’imputazione sia stato commesso non su cose esposte alla pubblica fede – come sarebbe stato ritenuto dal pubblico ministero nel formulare il suddetto capo 2) e dal Tribunale di Bologna nel condannarlo per tale reato – ma con minaccia nei confronti del proprietario del medesimo negozio.
In tale modo, la Corte d’appello di Bologna lo avrebbe condannato per un reato diverso da quello che gli era stato contestato nell’imputazione e per il quale era stato condannato dal Tribunale di Bologna, giacché si tratterebbe di «due condotte ontologicamente diverse», atteso che «un conto è commettere un danneggiamento minacciando qualcuno , diversa condotta è invece danneggiare un bene esposto alla pubblica fede senza contestualmente proferire alcuna minaccia alla vittima del danneggiamento».
Il ricorrente rappresenta che, per il Tribunale di Bologna, come per il pubblico ministero, egli «avrebbe commesso dapprima un autonomo reato di minaccia aggravata e, una volta esauritasi tale condotta, anche il reato di danneggiamento di beni esposti alla pubblica fede non essendoci in sentenza il benché minimo riferimento che il danneggiamento in questione sia stato commesso contestualmente ad alcuna violenza o minaccia a persone in realtà verificatesi ben prima del danneggiamento stesso».
Il pubblico ministero aveva infatti ritenuto che fossero stati commessi due distinti e autonomi reati, avendo contestato al capo 1) quello di minaccia e al capo 2) quello di danneggiamento, «senza minimamente specificare o lasciare intendere che si sia trattato di un danneggiamento eseguito mediante violenza o minaccia alle persone». Il pubblico ministero aveva infatti scritto, nel capo 2) dell’imputazione, relativo a reato di danneggiamento: «dopo avere minacciato di morte il titolare NOME, danneggiava, incrinandola, la vetrata ».
Pertanto, la Corte d’appello di Bologna, nel condannarlo per il reato di danneggiamento con minaccia, non avrebbe operato una diversa qualificazione
giuridica della condotta enunciata nell’imputazione ma lo avrebbe condannato per un fatto diverso.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’erronea applicazione degli artt. 84, 612 e 635 cod. pen., in quanto «la minaccia proferita dal COGNOME non era strumentale alla commissione del reato di danneggiamento essendosi già completamente esauritasi la condotta minacciosa prima dell’atto di danneggiamento».
Il ricorrente deduce che «non può certo dirsi che la minaccia contestata al capo 1 di imputazione, “Ti ammazzo”, sia strumentale o addirittura elemento costitutivo del reato di danneggiamento contestato al capo 2».
Infatti, «ome si evince agevolmente in atti e persino nella sentenza di primo grado», quando egli «ha danneggiato la vetrina del negozio, aveva già completamente esaurito la condotta minacciosa rivolta alla persona offesa. Il calcio sferrato alla vetrina è successivo alla minaccia stessa come peraltro riportato nel capo di imputazione “dopo aver minacciato di morte…. danneggiava….”».
Secondo il COGNOME, «la violenza esercitata sul bene oggetto del danneggiamento è condotta del tutto avulsa è diversa rispetto alla minaccia che l’imputato aveva già proferito». Infatti, «e l’imputato avesse minacciato il titolare del negozio di provocare danni all’esercizio commerciale o altri danni materiali si sarebbe potuto interpretare il gesto successivo come diretta conseguenza della minaccia poco prima effettuata. Nel caso di specie invece, la minaccia di morte (violenza su persone) risulta essere del tutto difforme e distinta rispetto al gesto poi effettivamente compiuto (violenza su cose) ragion per cui di certo una tale minaccia non può essere considerata lo strumento con cui è stato commesso il danneggiamento o addirittura l’elemento costitutivo del reato di cui all’art 635 cp».
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce l’erronea applicazione dell’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., per avere la Corte d’appello di Bologna violato il divieto di reformatio in peius, segnatamente, per avere «irrogato una pena più grave rispetto a quella inflitta dal giudice di prime cure ravvisando una ipotesi di reato (quella del danneggiamento mediante minaccia) non rilevata in primo grado».
Secondo il COGNOME, il divieto di reformatio in peius sarebbe stato violato perché la Corte d’appello di Bologna lo aveva «condanna per una fattispecie di reato più grave rispetto a quella per cui era stato condannato in primo grado».
Infatti, la Corte d’appello di Bologna, col ritenere che il danneggiamento di cui al capo 2) dell’imputazione era stato «commesso in sussistenza della minaccia precedentemente proferita dal COGNOME, circostanza questa esclusa dal Pubblico Ministero e dal Giudice di primo grado», avrebbe «di fatto ritenuto perpetrata
un’azione – quella di danneggiamento mediante minaccia – mai ipotizzata e ravvisata prima: in realtà non doveva neppure sussistere il reato di danneggiamento stante la sua depenalizzazione se commesso nella forma cosiddetta semplice. Dovendo infatti essere esclusa la circostanza dell’esposizione alla pubblica fede anche per il danneggiamento della vetrina ( stante la presenza in loco del proprietario e di altre persone)».
Ad avviso del ricorrente, la decisione della Corte d’appello – asseritamente inedita rispetto sia alla contestazione del pubblico ministero sia alla decisione del giudice di primo grado – di ritenere il danneggiamento di cui al capo 2) «non commesso evidentemente su bene esposto alla pubblica fede bensì mediante minaccia», avrebbe «determinato una riforma in peius della pena irrogata al COGNOME il quale avrebbe dovuto essere assolto per il danneggiamento semplice non più costituente reato e al massimo condannato (a pena edittalmente ben inferiore) per le sole minacce proferite prima».
Il ricorrente conclude che, «on l’applicazione delle concesse attenuanti in via equivalente rispetto alle aggravanti contestate per le minacce, ed escluso il danneggiamento non sussistendo in realtà alcuna circostanza costituiva un tale reato, all’imputato sarebbe stata inflitta la sola pena della multa».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo non è fondato.
Nel capo 2) dell’imputazione, relativo al reato di danneggiamento della vetrata del negozio, il pubblico ministero aveva contestato che lo stesso reato era stato commesso «dopo avere minacciato di morte il titolare NOME NOME».
Pertanto, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, l’elemento del reato di danneggiamento costituito dalla minaccia era contenuto nel capo 2) dell’imputazione relativo allo stesso reato, con la conseguenza che, col condannare l’imputato per il reato di danneggiamento commesso con minaccia la Corte d’appello di Bologna non ha in alcun modo violato il principio della correlazione tra accusa e sentenza.
È vero che, come è sostenuto dal ricorrente, il Tribunale di Bologna aveva qualificato il fatto come «danneggiamento di cose esposte alla pubblica fede» (e non come danneggiamento con minaccia).
Ciò non comporta, tuttavia, alcun vizio della sentenza impugnata, atteso che, da un lato, come si è detto, il danneggiamento con minaccia era stato contestato dal pubblico ministero nel relativo capo d’imputazione (capo 2) e che, dall’altro lato, la riqualificazione in tale senso ben poteva essere effettuata d’ufficio all’esito
del giudizio di appello, anche in assenza di impugnazione da parte del pubblico ministero, in forza dei poteri che sono attribuiti alla corte d’appello dall’art. 597 comma 3, cod. proc. pen.; il cui esercizio era nella specie consentito – essendo stata la questione della sussistenza del reato di cui al capo 2) dell’imputazione devoluta alla Corte d’appello di Bologna -, oltre che prevedibile, dovendosi ritenere, alla luce di quanto si è detto, che la stessa Corte d’appello abbia in realtà solo “recuperato” una qualificazione giuridica che scaturiva dal capo d’imputazione.
Il secondo motivo non è fondato.
La Corte d’appello di Bologna ha ritenuto la configurabilità del reato di danneggiamento commesso con minaccia di cui al capo 2) dell’imputazione in quanto ha reputato che la minaccia di morte che l’imputato aveva rivolto al titolare del negozio NOME COGNOME costituisse la «condotta strumentale, e quindi l’elemento costitutivo, del reato di danneggiamento di cui al capo 2)».
Nel fare riferimento alla «strumentalità» della condotta minacciosa rispetto all’azione di danneggiamento, la Corte d’appello di Bologna mostra di fare implicitamente richiamo a quella giurisprudenza della Corte di cassazione che si era formata in relazione al “vecchio” testo dell’art. 635 cod. pen., anteriore alla sostituzione di esso a opera dell’art. 2, comma 1, lett. I), del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, nel quale la commissione del danneggiamento «con violenza alla persona o con minaccia» configurava una circostanza aggravante a effetto speciale del reato.
Secondo parte della giurisprudenza della Corte di cassazione, in effetti, tale circostanza aggravante era configurabile solo se vi fosse stato un nesso strumentale tra la condotta violenta o minacciosa e il danneggiamento (Sez. 5, n. 29578 del 09/05/2014, COGNOME, Rv. 262597-01).
Tuttavia, la giurisprudenza della Corte di cassazione che si è formata con riguardo al “nuovo” testo dell’art. 635 cod. pen., con il quale il legislatore ha fatto assurgere la condotta violenta o minacciosa a elemento costitutivo del reato, si è invece orientata nel senso che il reato di danneggiamento commesso con violenza o con minaccia è configurabile anche nel caso in cui non sussiste un nesso di strumentalità tra la condotta violenta o minacciosa e l’azione di danneggiamento, in quanto la ragione dell’incriminazione deve essere ravvisata nella maggiore pericolosità manifestata dall’agente nell’esecuzione del reato (Sez. 5, n. 15643 del 13/12/2019, dep. 2020, Forte, Rv. 279105-01; Sez. 6, n. 16563 del 15/03/2016, Cava, Rv. 266996-01).
In quest’ultima sentenza si è altresì argomentato, in modo pienamente condivisibile, che: a) dal punto di vista letterale, l’espressione «con violenza alla persona o con minaccia» non evoca necessariamente un nesso di strumentalità tra
la condotta violenta o minacciosa e l’azione di danneggiamento; b) dal punto di vista sistematico, il “nuovo” primo comma dell’art. 635 cod. pen. tratta in modo unitario i fatti di danneggiamento «con violenza alla persona o con minaccia» e («ovvero») i fatti commessi «in occasione del delitto previsto dall’articolo 331» cod. pen., nei quali il legame tra il danneggiamento e lo stesso delitto è di tipo occasionale e non funzionale.
Si deve pertanto ritenere che, ai fini della sussistenza dell’elemento costitutivo del reato di danneggiamento costituito dalla commissione di esso con violenza alla persona o con minaccia, la violenza o la minaccia, oltre che strumentali rispetto al danneggiamento, cioè dirette a vincere l’opposizione della parte offesa, possano essere anche solo commesse in occasione dello stesso – in quanto, anche in tale caso, espressive della maggiore pericolosità del danneggiante -, dovendosi intendere, con ciò, la commissione della violenza o della minaccia in un tempo coevo o immediatamente anteriore o immediatamente posteriore al danneggiamento, senza che vi sia, tra la violenza fisica o morale e il danneggiamento, un’apprezzabile soluzione di continuità.
Tanto chiarito, si deve rilevare come un siffatto legame tra la minaccia e il danneggiamento fosse senz’altro ravvisabile nella specie, alla luce della ricostruzione del fatto che era stata operata dal Tribunale di Bologna, il quale aveva esposto come dall’istruttoria dibattimentale fosse emerso che, «alla richiesta dell’COGNOME di uscire , l’imputato lo minacciava proferendo le parole “ti ammazzo”, per poi uscire e sferrare un violento calcio alla vetrina dell’esercizio danneggiandola irrimediabilmente» (prima pagina della motivazione della sentenza di primo grado).
Pertanto, col ritenere la configurabilità nella specie del reato di danneggiamento con minaccia, la Corte d’appello di Bologna non è incorsa nel denunciato vizio di erronea applicazione della legge penale.
3. Il terzo motivo non è fondato.
Con tale motivo, il ricorrente ha denunciato che la Corte d’appello di Bologna avrebbe violato il divieto di reformatio in peius perché gli avrebbe irrogato una pena per «una ipotesi di reato (quella del danneggiamento mediante minaccia) non rilevata in primo grado».
Nel senso dell’infondatezza di tale doglianza depone quanto si è già detto esaminando il primo motivo, cioè che, posto che si deve ritenere che il danneggiamento con minaccia fosse stato contestato dal pubblico ministero nel relativo capo 2) dell’imputazione, la riqualificazione in tale senso ben poteva essere effettuata d’ufficio dalla Corte d’appello di Bologna, anche in assenza di impugnazione da parte del pubblico ministero, in forza dei poteri a essa conferiti dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., il cui esercizio si doveva reputare nella
specie consentito, dovendosi ritenere la questione della sussistenza del reato di cui al capo 2) dell’imputazione essere stata devoluta alla stessa Corte d’appello.
Pertanto, con riqualfficare il fatto di cui al capo 2) dell’imputazione come danneggiamento con minaccia e col condannare l’imputato per tale reato, la Corte
d’appello di Bologna non è incorsa nella denunciata violazione del divieto di reformatio in peius.
Tanto più che, pur assorbendo nel suddetto reato di cui al capo 2)
dell’imputazione anche il reato di minaccia di cui al capo 1) dell’imputazione, la
Corte d’appello di Bologna ha determinato la pena base in misura pari a quella che era stata irrogata dal giudice di primo grado.
4. Pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle
spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 16/05/2025.