Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 2721 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 2721 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 10/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME NOMECOGNOME nato il 26/11/1991 a Cosenza avverso l’ordinanza del 13/06/2024 del Tribunale di Catanzaro;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso; uditi gli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME i quali hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Catanzaro, decidendo in sede di riesame, confermava la custodia in carcere disposta nei confronti di NOME COGNOME in relazione al delitto di partecipazione, con ruolo apicale, ad
ot.;JK
associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope con l’aggravante mafiosa (art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; 416-bis.1 cod. pen.) (capo 1) e a numerosi reati fine in materia di stupefacenti (artt. 73 d.P.R. cit.) (capi 2, 107, 114, 130, 131, 133, 134, 135, 136, 140, 184, 185, 186) nonché di estorsione (art. 629 cod. pen.) (capi 402, 404, 405, 407, 408, 410, 412, 414, 415, 418).
2. Nell’interesse di NOME COGNOME sono presentati due ricorsi.
Il primo ricorso – a firma degli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME – si compone di un unico motivo, con cui è dedotta la violazione dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., sulla retrodatazione dei termini di custodia cautelare. Vi si osserva quanto segue.
Le condotte contestate al ricorrente nel presente procedimento (c.d. “Recovery”) risalgono a un periodo antecedente all’ordinanza, coincidente con quello oggetto del procedimento (“Reset”) nel cui ambito era stato emesso un precedente provvedimento coercitivo che segna, in mancanza di evidenze contrarie, la fisiologica cessazione della condotta partecipativa mafiosa dell’indagato.
D’altronde, gli stessi Giudici dell’ordinanza impugnata riconoscono che l’indagine “Recovery” si pone in continuità con l’operazione “Reset”, mostrandosi consapevoli della pregressa attività di narcotraffico operata sul medesimo territorio, per conto degli stessi soggetti (i sottogruppi del “clan italiano” e “clan zingari”, sebbene autonomi, erano tutti riconducibili all’associazione confederata facente capo a NOME COGNOME, prima reggente per conto di NOME COGNOME, al quale subentrò, nel periodo di detenzione, NOME COGNOME) e nel medesimo periodo – il che è comprovato dalla contestazione dell’aggravante mafiosa -, essendo nel primo procedimento emersa l’esistenza di un’associazione dedita agli affari di narcotraffico come alla realizzazione di ulteriori reati scopo.
Secondo il Tribunale, il quadro si sarebbe completato con le dichiarazioni di due collaboratori: COGNOME che però nulla dice sulla posizione di COGNOME; COGNOME il quale colloca l’indagato, con riguardo al narcotraffico, in un gruppo funzionalmente autonomo da quello di COGNOME, cui si riferisce il capo di imputazione.
Né tali dichiarazioni apportano elementi di novità rispetto al dato dell’esistenza di una piazza di spaccio facente capo al “clan degli italiani”.
Il Tribunale del riesame sostiene, poi, che le informative di reato conclusive, poste a sostegno dell’ordinanza emessa nel procedimento in oggetto sono pervenute in data successiva al rinvio a giudizio disposto nel procedimento
“Reset” e che il compendio indiziario in esse contenute attesterebbe l’impossibilità che gli accadimenti contestati successivamente fossero conosciuti.
Tuttavia, nella memoria difensiva prodotta in sede di riesame già si obiettava che l’elaborazione investigativa sopravvenuta si componeva precipuamente di intercettazioni captate nel medesimo procedimento “Reset”, trasposte nel presente per il tramite di una informativa di reato, sicché nessun ulteriore maggior riscontro ai fatti oggetto del presente accertamento sarebbe emersa.
Ciò nondimeno, l’ordinanza impugnata continua a sostenere acriticamente la parziale valenza dimostrativa degli atti confluiti nella prima indagine.
Eppure, nessuna delle conversazioni presenta elementi di novità rispetto alle emergenze già conoscibili, essendo tutte intervenute in un periodo ricompreso dall’indagine “Reset”, al cui interno confluirono.
E, d’altronde, se non conosciute, tali interlocuzioni erano quantomeno in quel contesto conoscibili, così come noto era il materiale a sostegno del presunto interesse del ricorrente in ogni attività eseguita per conto del sodalizio dedito anche al traffico di droga.
In conclusione – e precisato che la stessa ordinanza reputa configurabile il requisito della connessione tra i fatti in esame – non corrisponde al vero che non sussista il requisito dell’anteriore desumibilità, essendo i fatti oggetto de presente procedimento fondati su un vasto, complesso e variegato compendio probatorio, rappresentato da informative di polizia giudiziaria, già conosciute o conoscibili al tempo dell’emissione della prima ordinanza di custodia cautelare.
Peraltro, sebbene secondo un insegnamento di legittimità, la nozione di desumibilità non coincida con quella di disponibilità in atti, che costituisce mero dato di fatto, constando invece di un giudizio sulla possibilità che l’autorità giudiziaria, in possesso di determinati elementi, sia in grado di dedurre da essi conclusioni, secondo altro orientamento, deve aversi riguardo esclusivamente all’emersione in termini quantitativi di un complesso di indizi valutabili e non anche, su un piano qualitativo, all’attività di decodificazione, interpretazione, compiuta elaborazione degli elementi da parte degli organi deputati perché diversamente si farebbe dipendere la durata della privazione della libertà da un’estensione non definita né definibile a priori del tempo necessario al pubblico ministero per esaminare indizi di cui già disponga (Sez. 2, n. 18879 del 30/04/2021, COGNOME, Rv. 281230).
Tale limite deve valere a fortiori quando si riconosce espressamente – come nel caso di specie – il presupposto della connessione tra le ipotesi delittuose e, in tal senso, la circostanza aggravante mafiosa costituisce «malta cementizia» tra le condotte indagate nei due indicati filoni investigativi.
3 GLYPH
Di più, quando i procedimenti abbiano avuto origini autonome, la regola applicabile è quella di cui al secondo periodo dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., sicché la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari disposte con la successiva ordinanza opera se i fatti oggetto di tali provvedimenti erano desumibili dagli atti già prima del momento in cui è intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza: cioè, nel caso in esame, prima del 17 luglio 2023 (come appreso da fonti aperte).
L’informativa finale, comunque riepilogativa di informazioni investigative già acquisite, porta una data anteriore.
Deduzioni non dissimili valgono per i reati scopo annoverati nell’imputazione provvisoria in materia di narcotraffico e di estorsione, nella richiesta d applicazione della coercizione personale essendo peraltro espressamente richiamato il procedimento “Reset”, a dimostrazione della sua continuità con esso e non potendosi condividere quanto affermato nell’ordinanza impugnata, e cioè che alcune imputazioni provvisorie, sebbene circoscritte a un periodo antecedente alla prima ordinanza di custodia, risulterebbero dai successivi esiti captativi offerti dalle utenze in uso all’imputato e al concorrente NOME COGNOME dal momento che i fatti di cui ai capi da 402) a 414) sono invece coevi, se non pregressi, mossi da intenti sovrapponibili, commessi in riconosciuta continuità con quelli del procedimento in oggetto, oltre che nello stesso territorio di riferimento.
Nell’altro ricorso, presentato dal solo Avvocato NOME COGNOME, sono dedotti tre motivi.
4.1. Con il primo motivo si eccepisce violazione della legge penale e vizio di motivazione ancora in materia di retrodatazione dei termini di custodia cautelare, insistendo sul requisito dell’anteriore desumibilità dei fatti al momento dell’emissione del provvedimento cautelare nel procedimento “Reset”.
4.2. Con il secondo motivo si deduce errata applicazione di legge penale e vizio di motivazione quanto al delitto associativo.
I Giudici del riesame ritengono che il macrosistema investigativo iniziato dal procedimento “Reset” abbia portato a ritenere la sussistenza di un assetto organizzativo specificamente funzionale al narcotraffico.
Non sono però chiarite le ragioni della distinzione tra associazione di stampo mafioso e associazione di narcotraffico composta dai medesimi soggetti, non essendo stata dimostrata l’esistenza di una struttura criminale autonoma e differenziata rispetto a quella di tipo mafioso, che aveva tra le proprie finalit
anche lo spaccio di sostanze stupefacenti, oltre ad una serie indeterminata di ulteriori attività illecite.
Anche il metodo sarebbe lo stesso, come risulta dall’indicazione delle rigide regole del “Sistema” che definivano i canali di approvvigionamento e che imponevano la confluenza dei proventi in un’unica comune “bacinella”, la distinzione dei territori di operatività tra i “clan degli italiani” e i “clan zingari”, il divieto di c.d. sottobanco ecc.
Posto che lo spaccio di sostanze stupefacenti rappresenta una delle voci dei profitti che arricchivano la cassa dell’associazione mafiosa, in presenza della stessa composizione personale, non emerge un differente ambito operativo né, soprattutto, un diverso progetto delittuoso, tale da far ipotizzare – secondo l’insegnamento di legittimità – la sussistenza di un’associazione volta al narcotraffico, diversa da quella mafiosa.
Quanto, poi, specificamente, alla posizione di NOME COGNOME, i Giudici del riesame non hanno esplicitato l’iter logico-argomentativo seguito, essendosi limitati a riprendere la “scheda personale” del ricorrente, ritenuto preposto al coordinamento dell’attività di altri, pur essendo egli stesso subordinato e inserito nel gruppo di altro indagato.
In un punto dell’ordinanza, cercano poi di spiegare l’ascesa di Illuminato attraverso riferimenti che restano però vaghi e non sono contestualizzati dal punto di vista temporale, comunque senza riscontro.
Soprattutto, la motivazione appare illogica dove ascrive al ricorrente un ruolo apicale sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori che non specificano quale fosse il contributo offerto dall’indagato alle dinamiche criminali del sodalizio.
Essa è poi apodittica, desumendo tale ruolo apicale dai numerosissimi reati fine, sebbene tale elemento non sia sufficiente, per la giurisprudenza di legittimità, e sulla scorta dello scambio di messaggi SMS con i presunti sodali, unico elemento indicativo, in rapporto al quale i Giudici non si confrontano con le deduzioni difensive sulla mancata indicazione dei criteri identificativi delle varie schede telefoniche.
Senza autonoma valutazione, l’ordinanza impugnata riprende, inoltre, le tesi di NOME COGNOME, adepta dell’Illuminato nel sistema del narcotraffico con ruolo di cassiera del gruppo, addivenendo a conclusioni inconciliabili con quanto emerso nel procedimento “Reset” dove, con riferimento alla “bacinella” comune del clan, la Procura distrettuale aveva ritenuto che le risorse servissero anche a sostenere le spese per le forniture degli stupefacenti da smerciare, poi, ad opera dei clan, nelle diverse piazze di spaccio, ma che mai faceva richiamo a NOME COGNOME (individuava, piuttosto, altri soggetti).
5 GLYPH
L’impossibilità di giustificare l’ipotesi associativa mediante il richiamo ai reat fine è anche dimostrata dalla vaghezza delle affermazioni sulla convergenza con gli interessi criminali di diverso gruppo facente capo a tale COGNOME, estraneo al contesto su cui si basa il procedimento in esame.
4.3. Con l’ultimo motivo, si eccepisce errata applicazione di legge penale e vizio di motivazione quanto alla gravità indiziaria dei reati fine di tentat estorsione aggravata con l’aggravante mafiosa.
Il richiamo al compendio investigativo operato dal Tribunale del riesame non giustifica la gravità indiziaria in relazione ai tentativi di estorsione, mancand ogni chiarimento sui soggetti utilizzatori delle schede e restando i messaggi cui l’ordinanza fa riferimento – ferme le deduzioni sulla dubbia legittimità della relativa acquisizione e, quindi, sulla loro utilizzabilità -, privi di riscontro.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Affetto da genericità “derivata” è il motivo di ricorso (rectius: di entrambi i ricorsi) relativo alla violazione dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen.
2.1. In tema di contestazione a catena, è onere della parte, che invoca la retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare, provare la desumibilità dagli atti del primo procedimento del fatto di reato oggetto dell’ordinanza successiva (Sez. 2, n. 6374 del 28/01/2015, COGNOME, Rv. 262577, che in motivazione precisa che la parte, ai fini della desumibilità del fatto di cu alla seconda ordinanza, deve provare il deposito, all’interno del procedimento nel quale è stata emessa la prima ordinanza e al momento di emissione della stessa, dell’informativa finale della polizia giudiziaria, contenente il compendio dei risultati investigativi, ovvero di note di P.G., rispetto alle quali la successi informativa finale non presenti elementi di novità).
2.2. Ciò premesso, a fronte di argomentazioni puntuali e specificamente articolate soprattutto nel primo dei ricorsi sinteticamente esposti nel “ritenuto in fatto”, il requisito della c.d. anteriore desumibilità dei fatti avrebbe dovuto esser non soltanto dedotto, ma anche dimostrato in termini puntuali già dinanzi al Tribunale del riesame.
Ciò, nel caso di specie, non è accaduto, e tale lacuna non consente di ravvisare vizi nella motivazione del provvedimento impugnato, là dove si replica alle osservazioni difensive: che le operazioni tecniche di intercettazione idonee ad inquadrare la sussistenza del gruppo associato di cui al capo 1) terminarono nel 2023; che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia COGNOME e COGNOME, rese
successivamente all’esecuzione della prima ordinanza, hanno costituito riscontro all’ipotesi accusatoria, compendiate in risultanze integrative di indagine non presenti nel procedimento penale “Reset”; che le informative conclusive di reato pervennero nella loro completezza all’ufficio della Procura dopo la data di rinvio a giudizio nel procedimento penale “Reset”.
Il secondo motivo di ricorso è generico nella parte in cui evoca un bis in idem tra l’ipotesi di art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, contestata nel procedimento attuale (“Recovery”), e l’associazione di stampo mafioso, di cui al procedimento “Reset”, alludendo in modo indimostrato alla coincidenza tra i due sodalizi (dal punto di vista della composizione personale, delle finalità illecite e delle regole in essi vigenti), a fronte dell’astratta ammissibilità del concorso formale tra le due ipotesi di reato (vd., tra le altre, Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258163). Ed appare, per di più, contraddittorio là dove, con riferimento alle dichiarazioni di NOME COGNOME allude a compendi probatori non sovrapponibili in relazione ai due procedimenti “Recovery” e “Reset”.
È invece manifestamente infondato ove revoca in dubbio la gravità indiziaria riguardo alla posizione di COGNOME, il cui ruolo di «indiscusso boss del proprio sottogruppo», in costante contatto con il vertice COGNOME e con i referenti degli altri sottogruppi, risulta per contro, ampiamente motivata sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e del contesto di ampio compendio intercettativo, analiticamente riportato, oltre che supportata da un numero di reati fine davvero ragguardevole.
Mentre, le ulteriori deduzioni difensive (tra cui quelle relative alla identificazione dell’indagato) si risolvono in una sollecitazione a rivalutare elementi di prova, anch’essi adeguatamente apprezzati dai Giudici di merito, esulando, dunque, dal sindacato di questa, che è Corte di mera legittimità.
Per la stessa ragione va dichiarato inammissibile il terzo motivo di ricorso, relativo alla gravità indiziaria dei reati fine estorsivi: meramente reiterativo d deduzioni cui il Tribunale di riesame ha esaurientemente, oltre che non illogicamente, risposto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di tremila euro alla Cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 10/12/2024