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Custodia cautelare: quando è negato l’arresto a casa

La Corte di Cassazione conferma la decisione di mantenere la custodia cautelare in carcere per un individuo condannato per spaccio. La sentenza evidenzia come l’elevato pericolo di recidiva, la gravità della condotta e la considerazione dell’abitazione come ‘centrale di spaccio’ rendano inidonea la misura degli arresti domiciliari, anche a fronte della collaborazione dell’imputato.

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Pubblicato il 4 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Custodia Cautelare: Perché il Pericolo di Recidiva Prevale sulla Collaborazione

La scelta della misura restrittiva adeguata è un momento cruciale nel procedimento penale. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha riaffermato i principi che guidano la valutazione sulla custodia cautelare, chiarendo perché, in certi contesti, la detenzione in carcere rimane l’unica opzione percorribile, anche di fronte a elementi che potrebbero suggerire una minore afflittività. Il caso in esame riguarda un individuo condannato in primo grado a sei anni per detenzione e spaccio di stupefacenti, al quale è stata negata la sostituzione del carcere con gli arresti domiciliari.

I Fatti e la Richiesta della Difesa

L’imputato, dopo la condanna in primo grado, aveva richiesto la sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, eventualmente assistiti da braccialetto elettronico. A sostegno della sua istanza, la difesa aveva evidenziato diversi elementi: il tempo trascorso dai fatti, la condotta collaborativa tenuta sin dall’inizio del procedimento con ammissioni e informazioni sul fornitore, e l’assoluzione della convivente, titolare di un regolare lavoro, il cui domicilio sarebbe stato idoneo ad ospitarlo. Inoltre, la difesa contestava la valutazione dei giudici di merito che avevano qualificato l’abitazione come una ‘centrale di spaccio’, sostenendo che le cessioni di droga avvenivano all’esterno.

La Valutazione sulla custodia cautelare da parte della Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo che le argomentazioni della difesa fossero finalizzate a una rivalutazione dei fatti, non consentita in sede di legittimità, e non riuscissero a scalfire la coerenza logica della decisione del Tribunale del riesame. I giudici hanno sottolineato come la motivazione del provvedimento impugnato fosse solida e non manifestamente illogica, basandosi su una valutazione complessiva di tutti gli elementi a disposizione.

Le motivazioni della Corte

Il Tribunale, la cui decisione è stata avallata dalla Cassazione, ha giustificato il mantenimento della custodia cautelare in carcere sulla base di una serie di fattori cruciali. In primo luogo, la gravità della condotta, che ha portato a una pena di sei anni di reclusione. In secondo luogo, il profilo soggettivo dell’imputato: un soggetto recidivo, privo di attività lavorativa e operativo nel settore degli stupefacenti da molti anni (dal 2009). Questi elementi hanno delineato un quadro di elevato e concreto pericolo di recidiva.

La Corte ha inoltre ritenuto corretta la valutazione sull’inidoneità degli arresti domiciliari. Nonostante l’assoluzione della convivente, l’abitazione era stata il luogo di detenzione dello stupefacente, configurandosi quindi come una base logistica per l’attività illecita, una vera e propria ‘centrale di spaccio’. In questo contesto, nemmeno l’uso di strumenti di controllo elettronico è stato considerato sufficiente a neutralizzare il rischio di reiterazione del reato. Infine, la collaborazione dell’imputato, sebbene presente, è stata ridimensionata, poiché le sue ammissioni risalivano già all’udienza di convalida dell’arresto e non costituivano un elemento di novità tale da modificare il giudizio sulla sua pericolosità sociale.

Le conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale: nella valutazione della misura cautelare più adeguata, il giudice deve compiere un bilanciamento complessivo di tutti gli indizi e le circostanze. La gravità dei fatti, la personalità dell’imputato e un radicato inserimento nel circuito criminale possono portare a ritenere il pericolo di recidiva talmente elevato da rendere la custodia cautelare in carcere l’unica misura idonea a tutelare le esigenze della collettività. Elementi come la collaborazione o l’idoneità di un domicilio perdono di peso quando il quadro generale indica una persistente e concreta propensione a delinquere.

Perché è stata negata la sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari?
La richiesta è stata negata a causa dell’elevato pericolo di recidiva. I giudici hanno considerato la gravità della condotta (che ha portato a una condanna a sei anni), il fatto che l’imputato fosse recidivo, senza lavoro e attivo nel settore degli stupefacenti dal 2009. Questi elementi hanno reso la detenzione in carcere l’unica misura adeguata.

La collaborazione dell’imputato non è stata considerata un fattore a suo favore?
La collaborazione è stata considerata irrilevante per modificare la misura cautelare. I giudici hanno osservato che le ammissioni e le indicazioni sul fornitore erano state fornite sin dall’udienza di convalida dell’arresto e non costituivano un fatto nuovo tale da diminuire la valutazione sulla sua pericolosità sociale.

Come è stata valutata l’abitazione ai fini degli arresti domiciliari?
Nonostante l’assoluzione della convivente, l’abitazione è stata ritenuta inidonea perché considerata una ‘centrale di spaccio’. Il fatto che lo stupefacente fosse detenuto in quel luogo, pronto per essere immesso sul mercato, è stato determinante per escludere che gli arresti domiciliari, anche con braccialetto elettronico, potessero impedire la reiterazione del reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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