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Custodia cautelare per spaccio: carcere o domiciliari?

Un uomo, indagato per detenzione di 32 grammi di cocaina, ha contestato la custodia cautelare in carcere, chiedendo i domiciliari. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, stabilendo che la misura del carcere è adeguata quando, pur in presenza di quantitativi non esorbitanti, emergono elementi di un’attività di spaccio organizzata e professionale. In questo caso, il rischio concreto di recidiva ha reso insufficiente la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari.

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Pubblicato il 14 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Custodia Cautelare per Spaccio: Quando il Carcere è Inevitabile?

La scelta della giusta custodia cautelare rappresenta uno dei punti più delicati del procedimento penale, bilanciando le esigenze di sicurezza della collettività con il diritto alla libertà dell’indagato. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 45252/2024) offre chiarimenti cruciali su quando la detenzione in carcere sia giustificata per il reato di spaccio di stupefacenti, anche a fronte di quantitativi non eccezionali.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine da un’ordinanza del Tribunale di Torino che aveva confermato la misura della custodia cautelare in carcere per un uomo, indagato per detenzione a fini di spaccio. L’uomo era stato trovato in possesso, in concorso con una donna, di 32 grammi di cocaina, suddivisi in 26 ovuli. Una parte della sostanza era occultata nell’intimo della complice, mentre il resto si trovava nell’abitazione dell’indagato.

La difesa aveva presentato ricorso al Tribunale del Riesame, sostenendo che la misura carceraria fosse sproporzionata. Secondo il legale, l’unico precedente specifico dell’indagato e la quantità di droga, compatibile con l’ipotesi del “piccolo spaccio”, non giustificavano esigenze cautelari così gravi. La misura degli arresti domiciliari sarebbe stata, a suo avviso, più che sufficiente a soddisfare le necessità preventive.

La Scelta della Custodia Cautelare e la Decisione della Cassazione

Il Tribunale del Riesame aveva rigettato la richiesta, confermando il carcere. Contro questa decisione, la difesa ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando una violazione di legge e un vizio di motivazione. Il punto centrale del ricorso era l’inadeguatezza della motivazione del Tribunale, definita “generica” e non in grado di giustificare la scelta della misura più afflittiva.

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo infondate le censure della difesa. Secondo gli Ermellini, la motivazione del Tribunale del Riesame era tutt’altro che generica, ma basata su una serie di elementi concreti che delineavano un quadro di notevole pericolosità sociale.

Le Motivazioni

La Corte Suprema ha evidenziato come il Tribunale avesse correttamente individuato una serie di indizi che portavano a ritenere l’attività dell’indagato come “organizzata e professionale”. Vediamo quali sono questi elementi:

1. Inserimento nel Contesto Criminale: L’indagato era ritenuto un soggetto inserito “negli ambienti dediti allo spaccio di stupefacenti con un ruolo di non secondario”.
2. Attività Elaborata: Nell’abitazione, l’uomo non si limitava a custodire la droga, ma la “tagliava e suddivideva”, attività tipica di un anello intermedio della catena distributiva e non di un piccolo spacciatore occasionale.
3. Fonti di Approvvigionamento Stabili: L’indagato si riforniva da una fonte che aveva preferito mantenere anonima, suggerendo contatti stabili nel mondo del narcotraffico.
4. Uso di Complici: Il coinvolgimento di una complice incensurata per occultare parte della droga è stato interpretato come un ulteriore indice di scaltrezza e organizzazione.

Il Tribunale aveva inoltre sottolineato che, anche se la condotta fosse stata qualificata come “piccolo spaccio” (art. 73, comma 5), la pena prevedibile sarebbe comunque stata superiore al limite di tre anni, consentendo l’applicazione di misure cautelari custodiali. La professionalità dell’attività illecita rendeva concreto e attuale il pericolo di recidiva.

Infine, la Corte ha ritenuto logica e coerente la valutazione del Tribunale sull’inadeguatezza degli arresti domiciliari. Non risultando fonti lecite di reddito, era altamente probabile che l’indagato, spinto dalla necessità di mantenersi, avrebbe proseguito l’attività di spaccio anche dalla propria abitazione.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio fondamentale: nella valutazione delle esigenze cautelari, non conta solo il dato quantitativo della droga sequestrata, ma anche e soprattutto il contesto in cui il reato si inserisce. La professionalità, l’organizzazione e l’inserimento in reti criminali sono fattori decisivi che possono giustificare la custodia cautelare in carcere anche per quantità di stupefacente non stratosferiche. La decisione sottolinea che il giudice deve compiere una valutazione prognostica concreta sul rischio di recidiva, ritenendo gli arresti domiciliari insufficienti quando l’attività di spaccio rappresenta l’unica fonte di sostentamento dell’indagato.

Una piccola quantità di droga esclude automaticamente la custodia cautelare in carcere?
No. Secondo la sentenza, anche un quantitativo non esorbitante di stupefacente può giustificare la detenzione in carcere se vi sono elementi concreti che indicano un’attività di spaccio svolta in modo organizzato e professionale, e un elevato rischio di reiterazione del reato.

Cosa si intende per “attività di spaccio organizzata e professionale” in questo caso?
Si riferisce a una condotta che va oltre la semplice cessione. Nel caso esaminato, includeva l’inserimento in ambienti criminali, la capacità di custodire, tagliare e suddividere le dosi, l’utilizzo di complici incensurati e l’avere contatti stabili con fornitori, delineando un ruolo non secondario nella catena dello spaccio.

Perché gli arresti domiciliari sono stati ritenuti una misura insufficiente?
Sono stati ritenuti insufficienti perché l’indagato non disponeva di fonti lecite di reddito. Il giudice ha concluso che, spinto dalla necessità di far fronte alle proprie esigenze di vita, l’uomo avrebbe molto probabilmente continuato a spacciare anche se ristretto nella propria abitazione, rendendo tale misura inefficace a prevenire la commissione di altri reati.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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