Sentenza di Cassazione Penale Sez. F Num. 31280 Anno 2025
Penale Sent. Sez. F Num. 31280 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 02/09/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME COGNOME nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 13/05/1955 avverso l’ordinanza del 12/06/2025 del Tribunale del riesame di Torino visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha richiesto il rigetto del ricorso; sentito il difensore, avvocato NOME COGNOME difensore di fiducia di NOME NOMECOGNOME che insiste nell’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME sottoposto a misura cautelare in carcere in ordine al delitto di partecipazione ad associazione di stampo mafioso ex art. 416-bis cod. pen., impugna l’ordinanza del Tribunale di Torino adito ex art. 310 cod. proc. pen. che ha confermato l’ordinanza della Corte di appello di Torino che aveva rigettato l’istanza di revoca della misura cautelare in carcere.
1.1. NOME COGNOME era stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere, eseguita il 30 giugno 2020, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino, in relazione ai delitti di cui all’art. 416-bis co pen. (capo 1), con ruolo apicale, ed ex art. 74 d.P.R. n. 309/1990 (capo 48).
Il titolo cautelare in ordine al capo 48) veniva revocato a seguito di assoluzione da parte del Tribunale di Asti, con decisione di primo grado che perveniva alla declaratoria di responsabilità di NOME COGNOME in ordine al delitto ex art. 416-bis cod. pen. di cui ai capo 1), unico reato in ordine al quale, quindi, “resisteva” la misura cautelare in carcere, e 47), relativo al delitto di cui all’art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309 del 1990 (in detti termini riqualificata la più grave ipotesi di reato ex art. 73, comma 1, d.P.R. cit.) e condannato alla pena di ·anni diciassette di reclusione.
La Corte di appello di Torino, con sentenza del 12 gennaio 2024, in accoglimento dell’impugnazione del Pubblico Ministero, in parziale riforma della decisione di primo grado condannava NOME COGNOME anche in ordine al reato di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 ricompreso nel capo 48) (per il quale era venuta meno la misura cautelare), confermava il giudizio di penale responsabilità per i restanti reati previsti dai capi 1) e 47) (di cui rispettivamente agli artt. 416 bis cod. pen. e 73, comma 4, d.P.R. cit.) e rideterminava la pena, riconosciuto il vincolo della continuazione tra tutti i reati, in complessivi anni diciotto e un mese di reclusione, così quantificata: anni tredici e mesi quattro di reclusione per il delitto di cui al capo 48) ex art. 74 d.P.R. cit., aumentata ex art. 81 cod. pen. di anni quattro e mesi otto di reclusione per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. di cui al capo 1), e di un mese di reclusione per il delitto di cui all’art. 73, comma 4, d.P.R. cit. di cui al capo 47).
Con decisione del 28 febbraio 2025, questa Suprema Corte annullava la sentenza della Corte di appello nei confronti di NOME COGNOME in ordine al reato di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 (capo 48) ed in ordine al trattamento sanzionatorio, “con rinvio per nuovo giudizio su tali capi e punti ad altra sezione della Corte di appello di Torino”, rigettando nel resto il ricorso di NOME Salvatore.
La motivazione della citata sentenza è stata depositata il 7 luglio 2025, data successiva sia all’ordinanza impugnata che al ricorso oggi in esame.
1.2. La Corte di appello, competente in ragione dell’annullamento con rinvio operato da questa Corte, a seguito di istanza da parte di NOME COGNOME che aveva richiesto – per quel che in questa sede rileva – la declaratoria di cessazione di efficacia della misura cautelare, ha ritenuto non fossero decorsi i termini di custodia cautelare ex art. 300, comma 4, cod. proc. pen., sul presupposto che la parte di pena irrogata in continuazione in ordine all’art. 416-bis cod. pen., unico reato per il quale era in atto la custodia cautelare in carcere, quantificata in anni quattro e mesi otto di reclusione in continuazione rispetto al delitto di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 (reato che all’esito del giudizio di appello era stato ritenuto più grave), fosse stata interamente espiata.
I termini di custodia cautelare ex art. 303, comma 1, lett. d), e 303, comma 4, cod. proc. pen. (sei anni), tenuto conto della loro sospensione per il tempo di redazione della sentenza ex art. 304, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. (270 giorni), sarebbero perenti il 26 aprile 2027 (misura eseguita il 30 giugno 2020).
Il rigetto dell’istanza veniva eminentemente fondato sul presupposto che la pena su cui dover determinare la “pena irrogata” cui la citata norma fa riferimento, non potesse essere individuata in quella determinata dalla sentenza di merito della Corte di appello, in quanto annullata con rinvio dalla Corte di cassazione, ma in quella del Tribunale di Asti che aveva quantificato la pena in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., unico reato in ordine al quale era in atto la misura custodiale, in quattordici anni di reclusione.
Il Tribunale della cautela, condividendo le conclusioni raggiunte dalla Corte di appello, ha confutato la definitività della pena determinata in anni quattro e mesi otto di reclusione in ordine al capo 1 ex art. 416-bis cod. pen., tenuto conto che “tra una pena certa ed immodificabile (“irrogata”) ed una provvisoria ed incerta (“stabilita”, ) e, quindi, ancora modificabile (quantomeno in melius, salvo diverse indicazioni della imminente sentenza di Cassazione), è ineludibile che l’art. 300 co.4 c.p.p. riguardi solo la prima”, così pervenendo al rigetto dell’appello ex art. 310 cod. proc. pen.
Avverso l’ordinanza il ricorrente deduce con un unico articolato motivo vizi di motivazione e violazione di legge con riferimento all’art. 300, comma 4, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.
La difesa rileva come in ordine all’unico reato per il quale è in atto la misura cautelare ex art. 416-bis cod. pen. (capo 1) sin dal 30 giugno 2020, reato ritenuto satellite per il quale nel giudizio di appello NOME COGNOME era stato condannato alla pena di anni quattro e mesi otto di reclusione, risultano spirati i termini ex art. 300, comma 4, cod. proc. pen.
Si censura la tesi che aveva spinto la Corte territoriale a rigettare l’istanza sul presupposto che la pena da prendere quale parametro dovesse essere individuata in quella irrogata dal Tribunale di Asti (anni quattordici) e non, invece, parametrata alla pena di anni quattro e mesi otto di reclusione per come determinata dalla Corte di appello, al contempo rilevando come le argomentazioni poste a sostegno di tale opzione interpretativa del Tribunale adito ex art. 310 cod. proc. pen. si ponessero in contrasto con i principi espressi dalla costante giurisprudenza di legittimità, specie là dove si analizza il contenuto delle Sezioni Unite (si riferisce alle Sezioni unite ‘COGNOME‘, ‘COGNOME‘ e ‘COGNOME‘) e delle Sezioni semplici sul falso presupposto che tali decisioni avessero riguardato ipotesi in cui non era ancora intervenuto un accertamento sulla responsabilità.
Si deduce come la presente vicenda sia sovrapponibile a quelle in cui sono stati espressi i principi di diritto di cui alle evocate decisioni, evenienza confermata proprio dalla nota della Procura generale che aveva rappresentato di non poter eseguire parzialmente la pena per come determinata in sentenza.
Ed infatti, la misura cautelare risulta applicata per il solo delitto di cui all’art 416-bis cod. pen., qualificato come delitto satellite di quello di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, delitto, quest’ultimo, per cui non sussiste applicazione di misura cautelare, con conseguente possibilità per il ricorrente di essere rimesso in libertà in ipotesi di perdita di efficacia della misura.
La difesa osserva come l’erronea interpretazione dell’art. 300, comma 4, cod. proc. pen. da parte del Tribunale sia evidente nella parte in cui non ha preso in esame la pena concretamente inflitta – non modificabile in peius -per l’unico reato in ordine al quale è in atto la misura cautelare (pari ad anni quattro e mesi otto di reclusione), considerato satellite di quello principale, pervenendo ad una sostanziale abrogazione della citata disposizione che non distingue, come argomentato – testualmente – dal Tribunale, tra “una pena certa ed immodificabile irrogata” e “una pena provvisoria ed incerta stabilita” modificabile in melius.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, in quanto infondato, deve essere rigettato.
Si rileva preliminarmente come corretta risulti la conclusione cui è pervenuto il Tribunale ex art. 310 cod. proc. pen., esito conforme a quello della Corte di appello, là dove ha espressamente rilevato come la pena da prendere in considerazione ai fini dell’applicazione dell’art. 300, comma 4, cod. proc. pen. corrisponda a quella di quattordici anni di reclusione che il Tribunale di Asti ha irrogato al ricorrente in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. (capo 1).
Seppure le argomentazioni giuridiche che hanno portato il Tribunale a rigettare il ricorso e confermare la decisione della Corte di appello in ordine all’inoperatività, nel caso di specie, dell’art. 300, comma 4, cod. proc. pen., non risultino correttamente svolte, specie là dove si è assegnata determinante rilevanza alla differenza tra “pena certa irrogata” e “pena provvisoria ed incerta stabilita”, costituisce principio di diritto ormai consolidato quello secondo cui la soluzione che viene data alle questioni di diritto, siano esse processuali o sostanziali, attraverso la motivazione resa nel provvedimento, rileva solo se la stessa incide sulla correttezza della decisione finale e non anche quando non ha alcuna incidenza sulla stessa. Qualora, infatti, sia sottoposta al vaglio del giudice
di legittimità la correttezza di una decisione in rito, la Corte stessa è giudice dei presupposti delta decisione, sulla quale esercita il proprio controllo, quale che sia il ragionamento enunciato per giustificarla (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027 – 05; Sez. U., n. 155 del 29/09/2011, Rossi; Sez. 5, n. 17979 del 05/03/2013, COGNOME, Rv. 255515), e, quindi, anche prescindendo dal “tenore” di alcuna delle ragioni poste a base della censura del ricorrente sul tema processuale proposto: motivazione che, ai sensi dell’art. 619, comma 1, cod. proc. pen., questo Collegio può provvedere a rettificare laddove – come nel caso di specie è accaduto – gli erronei riferimenti giuridici non abbiano avuto influenza decisiva sul dispositivo.
Ciò premesso, occorre rilevare come la situazione che interessa il caso in esame non è sovrapponibile a quello affrontato dalle Sezioni Unite citate nel ricorso e declinato, in peculiari ipotesi, dalle Sezioni semplici di questa Corte.
Secondo un principio di diritto ormai consolidato, ai fini sia dell’articolo 303, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., sia dell’art. 300, comma 4, stesso codice, nel caso di condanna per più reati avvinti dalla continuazione, per alcuni dei quali soltanto (nella specie per i reati satelliti) mantenga efficacia la custodia cautelare, per “condanna” e per “pena inflitta” devono, rispettivamente, intendersi la condanna e la pena inflitte per questi ultimi reati, e non la condanna e la pena inflitte per l’intero reato continuato, in quanto l’unificazione legislativa di più rea nel reato continuato va affermata là dove vi sia una disposizione apposita in tal senso o dove la soluzione unitaria garantisca un risultato favorevole al reo, non potendo dimenticarsi che il trattamento di maggior favore per il reo è alla base della “ratio” del reato continuato (Sez. U, n. 1 del 26/02/1997, COGNOME, Rv. 207939 – 01).
Con specifico riferimento al tema che interessa il presente procedimento, il principio è stato ribadito dalla sentenza delle Sezioni Unite ‘Vitale’ che ha avuto modo di statuire come, in ipotesi di condanna non definitiva per reato continuato, al fine di valutare l’eventuale perdita di efficacia (art. 300, comma 4, cod. proc. pen.) della custodia cautelare applicata soltanto per il reato satellite, la pena alla quale occorre fare riferimento è quella inflitta come aumento per tale titolo (Sez. U, n. 25956 del 26/03/2009, COGNOME, Rv. 243588 – 01).
Ambito differente è quello preso in esame dalle Sezioni Unite ‘COGNOME (Sez. U, n. 23381 del 31/05/2007, Rv. 236393), secondo cui, ai fini della individuazione dei termini di durata massima della custodia cautelare ex art. 303 cod. proc. pen., allorché vi sia stata sentenza di condanna in primo o in secondo grado, deve aversi riguardo alla pena complessivamente inflitta per tutti i reati per i quali è in corso
la misura custodiale, e quindi alla pena complessivamente quantificata a titolo di cumulo materiale o giuridico ex art. 81 cod. pen.
Come può osservarsi dalla lettura congiunta delle precedenti massime, che danno conto dei principi di diritto in ordine al significato da assegnare alla portata ed operatività dell’art. 300, comma 4, cod. proc. pen., nessuna distinzione è ipotizzabile – come pur effettuato nell’ordinanza impugnata – tra “pena certa irrogata” e “pena provvisoria ed incerta stabilita”: valorizzata discrasia che non è non idonea a risolvere la questione in esame, visto che proprio la decisione delle Sezioni Unite ‘Vitale’ ha rilevato come l’art. 300, comma 4, cod. proc. pen. faccia riferimento “all’entità della pena irrogata”, riferendosi, evidentemente, a quella che deve essere potenzialmente eseguita per ciascun reato e, pertanto, differente dalla pena che il giudice “stabilisce” provvisoriamente ex art. 533, comma 2, cod. proc. pen., su cui, conformemente alle norme sul concorso di reati e di pene o sulla continuazione, deve fondarsi la determinazione della pena che deve essere “applicata”.
Ciò che rileva, pertanto, non è la minore o maggiore stabilità della decisione in punto di pena, cui pare fare riferimento il Tribunale allorché distingue tra “una pena certa ed immodificabile irrogata” e “una pena provvisoria ed incerta stabilita” modificabile in me/ius, errando però là dove vorrebbe valorizzare evenienze ipotetiche e future estranee al contenuto dell’art. 300, comma 4, cod. proc. pen.
4. Il tema oggetto della presente decisione parrebbe essere affrontato da questa Corte (Sez. 6, n. 28984 del 28/05/2013, COGNOME, Rv. 255859) che ha statuito che, ai fini dell’eventuale perdita di efficacia ex art. 300, comma 4, cod. proc. pen. della custodia cautelare applicata soltanto per il reato satellite in ipotesi di condanna non definitiva per il reato continuato, la pena alla quale occorre fare riferimento è quella inflitta come aumento per tale titolo, anche quando la stessa possa essere rideterminata negli ulteriori gradi di giudizio. E però, l’esame della citata decisione che, è bene evidenziare, non considera una ipotesi esattamente sovrapponibile a quella oggetto di odierno scrutinio, evidenzia proprio come non sia rilevante la possibile successiva rideterminazione della pena (la sentenza spiega come “Tale evenienza, infatti, si verifica anche allorquando l’imputato venga condannato ad una pena non definitiva per reato continuato con titolo custodiale applicato solo per il reato satellite; caso per il quale è pacifico in giurisprudenza che si debba comunque tener conto solo dell’aumento di pena concretamente dato in continuazione per il reato meno grave, benché tale pena sia astrattamente modificabile”).
Di contrario avviso sembra essere la sentenza di questa Corte (Sez. 2, n. 23559 del 14/05/2014, COGNOME, Rv. 259813), a mente della quale, allorché la
Corte di cassazione confermi la decisione di condanna di un imputato limitatamente al reato satellite, annullando con rinvio per il reato base, l’eventuale scadenza del termine di fase previsto per tale reato comporta, in relazione ad esso, l’obbligo di scarcerazione dell’imputato, mentre l’eventuale perdita di efficacia della custodia cautelare per il reato satellite dovrà essere valutata, ai sensi dell’art. 300, comma 4, cod. proc. pen., in relazione alla pena inflitta a titolo di aumento.
La citata decisione puntualizza che, se la scarcerazione per il reato base non è stata ancora disposta, nonostante l’avvenuta scadenza del relativo termine, la misura applicata per il reato satellite non perde efficacia, ai sensi del predetto art. 300, comma 4, cod. proc. pen., anche se la sua durata si sia protratta per un tempo non inferiore all’entità della pena inflitta a titolo di aumento, in quanto, in questa ipotesi, in ragione della c.d. doppia conforme, e della necessaria futura modifica del trattamento sanzionatorio, l’unico termine da rispettare è quello previsto dagli artt. 303, comma quarto, e 304, comma sesto, cod. proc. pen.”
Tuttavia, la differente situazione che si è venuta a determinare nel caso concreto consente di superare tali decisioni ed i relativi contrasti “di vedute”.
Determinante risulta, pertanto, analizzare l’esito attuale della vicenda processuale (per come ricostruita nel “ritenuto in fatto”) che ha interessato NOME COGNOME ed il conseguente accertamento in ordine ali -entità della pena irrogata” cui parametrare l’eventuale perenzione del termine ai fini di una corretta applicazione della citata norma.
L’art. 300, comma 4, cod. proc. pen., infatti, impone la cessazione della misura custodiale quando il periodo trascorso in stato cautelare sia superiore rispetto all’entità di pena irrogata, che nel caso di specie riguarda il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. (capo 1), unico delitto ancora sorretto dalla misura cautelare in carcere ed in ordine alla cui responsabilità sussiste il giudicato.
Sotto tale profilo è evidente come la sentenza di questa Corte del 28 febbraio 2025 ha provveduto ad annullare con rinvio la sentenza della Corte di appello, quanto alla posizione di NOME COGNOME in ordine al delitto di cui al capo 48) ex art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 – reato che era stato ritenuto sussistente, andando di contrario avviso rispetto alla decisione del Tribunale, solo in seguito alla sentenza di appello – dunque, in una situazione nella quale la decisione di secondo grado aveva ritenuto che il delitto di cui all’art. 74 d.P.R. cit. fosse il reato più grave, così “degradando” il delitto di cui al capo 1) (art. 416-bis cod. pen.) a reato satellite del primo e determinando la pena in aumento per la ritenuta continuazione in quattro anni ed otto mesi di reclusione.
Il Tribunale aveva, invece, irrogato in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., reato ritenuto più grave all’esito dell’assoluzione in ordine ai fatti di cui al capo 48 (art. 74 d.P.R. cit.), la pena di quattordici anni di reclusione.
Con il venir meno della sentenza della Corte di appello, al momento “cassata” da questa Corte di legittimità, l’unica pena che può dirsi validamente irrogata in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., è quella contenuta nella sentenza di primo grado: e solo a tale pena, che al momento, in attesa delle decisioni che saranno adottate nel giudizio di rinvio, è possibile fare riferimento ai fini della definizione degli spazi di operatività dell’art. 300, comma 4, cod. proc. pen.
Quanto sopra enunciato in ordine al particolare iter processuale che ha interessato la vicenda fa emergere con la necessaria chiarezza come le decisioni di questa Corte a Sezioni Unite che si assumono violate (nelle conclusioni cui perviene il Tribunale ex art. 310 cod. proc. pen.), non avessero in alcun modo trattato vicende analoghe a quella oggi in esame, in cui l’annullamento ha interessato una sentenza di appello che era andata di contrario avviso proprio in ordine a detto specifico aspetto: sentenza della Cassazione di annullamento con rinvio che ha fatto venir meno proprio la determinazione della pena quantificata attraverso la “prevalenza” della maggiore gravità del delitto di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 su quella di cui all’art. 416-bis cod. pen.
Il ricorrente, a fondamento della bontà dell’interpretazione data alla previsione di cui all’art. 300, comma 4, cod. proc. pen., sostiene che la natura di reato satellite e l’entità della pena determinata dalla Corte di appello costituisca ormai un dato non modificabile in quanto, in ipotesi contraria, si violerebbe il principio di diritto che pone il divieto della reformatio in peius ex art. 597 cod. proc. pen.
Tale argomento non è condiviso dal Collegio.
Costituisce ormai espressione di un consolidato orientamento di questa Corte il principio secondo cui, nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento della condanna per il solo reato più grave, il giudice, nel determinare la pena per il reato residuo, meno grave, non è vincolato alla quantità di pena individuata quale aumento ai sensi dell’art. 81, comma secondo, cod. pen. (tra le tante, cfr. Sez. 4, n. 13806 del 07/03/2023, Clemente, Rv. 284601; Sez. 4, n. 9176 del 31/01/2024, S., Rv. 285873, principio espressamente richiamato da Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653 – 01; sul punto, anche Sez. 6, n. 15890 del 03/12/2013, dep. 2014, Lleshi, Rv. 261528). In altri termini, nulla impedisce che il giudice in sede di rinvio, se dovesse ritenere che non sussistano le condizioni per affermare la colpevolezza dell’imputato per il delitto di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309
del 1990, possa confermare il trattamento sanzionatorio già stabilito dal giudice di primo grado per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., che, in ipotesi, tornerebbe ad essere il reato più grave.
Dunque, è proprio l’annullamento della sentenza di appello, con il conseguente venir meno – allo stato – del delitto di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 (capo 48), già escluso dal primo giudice che aveva determinato la pena per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. in quattordici anni di reclusione, a far veni meno il presupposto su cui il ricorrente basa l’affermazione del superamento dei termini custodiali ex art. 300, comma 4, cod. proc. pen.
8. L’articolata vicenda processuale che ha interessato il ricorrente risulta, pertanto, differente da quelle che hanno dato causa alle decisioni delle Sezioni Unite e delle Sezioni semplici di questa Corte citate nel ricorso, perché nessuna di tali pronunce ha riguardato casi in cui l’annullamento della Cassazione fosse attinente ad ipotesi di affermazione di responsabilità per un reato rispetto al quale la sentenza di secondo grado fosse andata di diverso avviso rispetto a quella del primo giudice.
La situazione processuale presa in esame dalle citate sentenze verrà – se del caso – a concretizzarsi nell’ipotesi in cui il giudice del rinvio dovesse tenere ferma la decisione di appello annullata, confermando la responsabilità del Luppino in ordine al delitto di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990. In tal caso, infatti, si potr tornare a ritenere “irrogata la pena” per l’unico reato “satellite”, quello di cui all’art. 416-bis cod. pen., per il quale vi è il titolo custodiale, che non potrà essere superiore a quella quantificata nella precedente sentenza di appello: con la conseguente operatività del principio espresso dalla citata sentenza a Sezioni Unite n. 16208 del 27/03/2014, C., cit. che riconosce – in simili casi – il divieto di “reformatio in pejus” anche nel giudizio di rinvio, con riferimento alla decisione del giudice di appello se il ricorso per cassazione è stato proposto dall’imputato.
In tale contesto, differente si profila il regime in ordine ai limiti del giudizio di rinvio e le connesse conseguenze che si rifletteranno sulla misura cautelare, a seconda che l’esito del giudizio rescissorio dovesse essere di rigetto dell’appello del Pubblico Ministero e di conferma del giudizio operato dal Tribunale (che aveva escluso l’integrazione dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 del capo 48); o, piuttosto, che la decisione del giudice di rinvio dovesse condividere, diversamente motivando, il giudizio di responsabilità del ricorrente anche in ordine al delitto di cui all’art. 74 d.P.R. cit. (confermando la decisione della prima sentenza della Corte di appello del 12 gennaio 2024 e la conseguente natura di reato satellite del delitto di cui al capo 1). Solo in questa seconda ipotesi – ferma l’eventuale applicazione dell’art. 275, comma 2-ter, cod. proc. pen. con
riferimento al delitto di cui all’art. 74 d.P.R. cit. di cui al capo 48) – al momento della decisione del giudice di rinvio vi potrebbero essere le condizioni per ritenere l’operatività dell’art. 300, comma 4, cod. proc. pen. (secondo l’interpretazione delle Sezioni Unite ‘Vitale’) in relazione al “confermato” trattamento sanzionatorio per il reato satellite del capo 1).
Una conferma della correttezza della esegesi privilegiata in questa sede è indirettamente desumibile dalla disciplina applicabile, ai fini del computo dei termini di fase ex art. 303, comma 2, cod. proc. pen., in ipotesi di annullamento con rinvio della sentenza di condanna e conseguente regressione del procedimento, situazione processuale in cui è pacifico che l’unico parametro ai fini del calcolo del nuovo termine di fase sia la pena determinata dalla sentenza di primo grado: essendo stato chiarito che «l’annullamento comporta la reviviscenza della sentenza di primo grado ed è sulla base dei titoli di reato di quella decisione che dovranno essere condotte le valutazioni riguardanti la scadenza o meno del termine di fase di cui all’art. 303, co. 2, c.p.p.», perché la relativa statuizione, finché non definitivamente annullata, rimane valida ed operante» (così in Sez. F, n. 32994 del 20/08/2024, Montenegro, Rv. 286878, in motivazione).
Sotto tale aspetto, appare priva di pregio la tesi contenuta nel ricorso secondo cui la mancata declaratoria di inefficacia della misura custodiale sia il ‘frutto’ di una artificiosa reviviscenza della sentenza di primo grado: al contrario, è proprio la tesi difensiva che, per sostenere l’avvenuto decorso del termine ai fini dell’applicazione dell’art. 300, comma 4, cod. proc. pen., a voler far “rivivere” una sentenza, quella della Corte di appello, che è stata invalidata dalla Cassazione sulla “struttura” del reato continuato e sulla conseguente determinazione delle pene per i singoli reati posti in continuazione.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, secondo quanto previsto dall’art. 616, comma 1, cod. proc. pen.
L’attuale stato cautelare cui è sottoposto il ricorrente impone, ai sensi dell’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen., la trasmissione del presente provvedimento a cura della cancelleria al direttore dell’istituto penitenziario per gli adempimenti di cui al comma 1-bis dell’art. cit.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso il 02/09/2025.