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Custodia cautelare: no retrodatazione reati continui

La Corte di Cassazione ha stabilito che non è possibile la retrodatazione dei termini di custodia cautelare per un reato associativo, qualora la condotta criminosa si sia protratta dopo l’emissione di una prima ordinanza. La natura permanente del reato impedisce di considerare il fatto come ‘anteriore’, requisito essenziale per l’applicazione dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen.

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Pubblicato il 25 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Custodia Cautelare e Reati Associativi: Quando non è Possibile la Retrodatazione

La gestione della custodia cautelare nei procedimenti penali complessi, specialmente quelli che coinvolgono reati associativi, presenta questioni giuridiche di grande rilevanza. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale riguardo all’applicazione dell’articolo 297, comma 3, del codice di procedura penale, che disciplina la decorrenza dei termini di custodia in caso di più ordinanze. Il caso esaminato chiarisce perché, per i reati permanenti come l’associazione di stampo mafioso, la retrodatazione dei termini non è ammissibile se la condotta illecita non è cessata.

I Fatti di Causa

Un imputato, già detenuto in forza di una prima ordinanza di custodia cautelare emessa nel 2018 per reati di estorsione, veniva raggiunto da un secondo provvedimento restrittivo nel 2020 per il delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.) e altri reati fine.

La difesa dell’imputato presentava un’istanza al Tribunale chiedendo di applicare il principio di retrodatazione previsto dall’art. 297 c.p.p. Secondo tale norma, se vengono emesse più ordinanze per fatti diversi commessi anteriormente alla prima, i termini di custodia decorrono dall’esecuzione del primo provvedimento. L’accoglimento dell’istanza avrebbe comportato la scadenza dei termini massimi di custodia e la conseguente scarcerazione dell’imputato.

Il Tribunale del Riesame di Napoli, tuttavia, rigettava la richiesta, confermando una precedente decisione. La motivazione si basava su un punto cruciale: il reato associativo contestato nella seconda ordinanza era un reato permanente, e la partecipazione dell’imputato al sodalizio criminale si era protratta anche dopo l’emissione della prima ordinanza del 2018.

La Decisione della Corte e la disciplina della custodia cautelare

La Corte di Cassazione, investita del ricorso, ha dichiarato l’impugnazione infondata, confermando integralmente la decisione del Tribunale. I giudici di legittimità hanno ribadito un orientamento consolidato, già espresso dalle Sezioni Unite con la nota sentenza ‘Librato’.

Il principio cardine è che la retrodatazione degli effetti di una seconda ordinanza di custodia cautelare presuppone inderogabilmente che i fatti in essa contestati siano stati commessi anteriormente all’emissione della prima. Questa condizione non può sussistere per un reato permanente, come quello associativo, la cui consumazione si protrae nel tempo e non era cessata al momento del primo arresto.

Poiché la partecipazione dell’imputato al clan era continuata anche dopo l’ottobre 2018, il reato contestato nella seconda ordinanza non poteva considerarsi ‘anteriore’ a tale data. Di conseguenza, veniva a mancare il presupposto fondamentale per l’applicazione della retrodatazione.

Le Motivazioni

La Corte ha ritenuto logica e corretta la valutazione del Tribunale, il quale aveva basato la propria decisione anche sugli accertamenti contenuti in una sentenza di merito successiva. Tale sentenza aveva ricostruito il ruolo apicale e continuativo dell’imputato all’interno del sodalizio, evidenziando come la sua partecipazione non si fosse mai interrotta, neanche durante i periodi di detenzione.

Un elemento chiave valorizzato dai giudici è stata una conversazione intercettata nel dicembre 2017, anteriore alla prima ordinanza, in cui terzi discutevano del ruolo di vertice dell’imputato e delle dinamiche interne al clan. Questo, insieme alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, dimostrava una continuità operativa che si estendeva ben oltre la data della prima misura cautelare.

La Cassazione ha chiarito che, quando si tratta di un delitto permanente, non si può applicare la norma sulla retrodatazione se la condotta illecita prosegue. La permanenza del reato oltre la data della prima ordinanza rende il fatto ‘nuovo’ e non ‘anteriore’, facendo venir meno uno dei pilastri dell’art. 297, comma 3, c.p.p. Di conseguenza, diventa irrilevante anche accertare se gli indizi del reato associativo fossero già ‘desumibili’ dagli atti al momento del primo provvedimento.

Conclusioni

Questa sentenza consolida un importante principio in materia di custodia cautelare e reati associativi. La natura permanente del reato di associazione mafiosa rappresenta un ostacolo insormontabile alla retrodatazione dei termini di custodia, a meno che la difesa non riesca a provare in modo inequivocabile la cessazione della condotta partecipativa in data anteriore alla prima misura cautelare. La decisione sottolinea come la valutazione del giudice debba tenere conto della continuità del vincolo associativo, che può essere provata anche attraverso elementi emersi in altri procedimenti o in sentenze di merito successive. Per gli operatori del diritto, ciò significa che le strategie difensive basate sulla decorrenza dei termini in contesti di criminalità organizzata devono affrontare la difficile prova della cessazione della permanenza del reato.

È possibile ottenere la retrodatazione dei termini di custodia cautelare per un reato associativo permanente?
No, la retrodatazione non è possibile se la condotta di partecipazione all’associazione criminale si è protratta nel tempo, continuando anche dopo l’emissione della prima ordinanza cautelare. La natura permanente del reato impedisce di considerarlo ‘anteriore’ alla prima misura.

Quale condizione principale impedisce l’applicazione dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. in questo caso?
L’ostacolo principale è la mancanza del requisito dell’anteriorità del fatto. Poiché il delitto associativo è un reato permanente e la condotta dell’imputato non era cessata prima dell’emissione della prima ordinanza, il fatto contestato nel secondo provvedimento non può essere considerato interamente commesso in data anteriore.

Una sentenza di merito successiva può influenzare una decisione sulla custodia cautelare?
Sì, la sentenza dimostra che gli accertamenti contenuti in una pronuncia di merito, anche se successiva, possono essere utilizzati dal giudice della cautela per ricostruire i fatti. In particolare, possono servire a determinare la durata della condotta in un reato permanente e a stabilire se essa sia cessata o meno prima di una certa data.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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