Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 21895 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 21895 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOMECOGNOME nato a POGGIOMARINO il 26/02/1964
avverso l’ordinanza del 03/02/2025 del TRIBUNALE DI NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso del difensore; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udite le conclusioni del P.M. nella persona del Sostituto P.G. NOME COGNOME che ha
concluso per l’inammissibilità del ricorso.
udito il difensore
L’avvocato NOME COGNOME insiste per l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
COGNOME NOMECOGNOME a mezzo dei difensori di fiducia, ricorre per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Napoli del 03/02/2025, che ha confermato il provvedimento con cui il Gip del Tribunale di Napoli ha applicato al ricorrente, in sede di convalida del fermo, la misura della custodia cautelare in carcere in ordine a diverse ipotesi estorsive ai danni di un esercente un’azienda di onoranze funebri, unificate dal medesimo disegno criminoso, aggravate dalle circostanze di cui all’art. 628, comma 3, n. 3 e 416-bis cod. pen.
Per completezza ricostruttiva della vicenda processuale, va precisato che l’indagato era stato arrestato in flagranza per l’estorsione realizzata ai danni della p.o. (in occasione della consegna della seconda tranche di denaro dovuta per il periodo natalizio) ed il Gip del Tribunale di Torre Annunziata, dopo avere convalidato l’arresto, si era dichiarato incompetente – stante la contestazione dell’aggravante del metodo mafioso – in favore di quello di Napoli che aveva confermato, ex art. 27 cod. proc. pen., la misura della custodia cautelare in carcere con ordinanza del 19 dicembre 2014. Tale provvedimento era stato poi dichiarato inefficace dal Tribunale del riesame – a seguito di impugnazione dell’indagato stante l’omessa notifica nei termini di legge dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale. Da qui il fermo disposto dal pubblico ministero in conseguenza della scarcerazione e la nuova ordinanza di convalida ed applicazione della misura resa dal Gip del Tribunale di Napoli il 15 gennaio 2015, poi impugnata dall’indagato in sede di riesame, la cui richiesta è stata rigettata col provvedimento ora oggetto dell’odierno ricorso per cassazione.
La difesa affida le sue censure a tre motivi che, ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., saranno enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
Il P.G. presso questa Corte, con requisitoria-memoria del 2 aprile 2025, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Con il primo motivo si deduce l’inosservanza dell’art. 292, comma 2, lett. c) cod. proc. pen. ed il vizio di motivazione. La censura attiene alla mancata verifica, con ricadute sul piano del rispetto dell’onere della motivazione (da ritenersi carente), del principio dell’autonoma valutazione delle contestazioni, fondandosi l’ordinanza cautelare del Gip sul pedissequo richiamo delle motivazioni della precedente ordinanza cautelare dichiarata inefficacie, nonché su una mera sterile ripetizione delle fonti di prova (la denuncia sporta dalla presunta vittima del
reato, la successiva integrazione e i verbali di interrogatorio di un collaboratore di giustizia), a proposito delle quali mancava totalmente qualsiasi riferimento contenutistico e di enucleazione degli elementi reputati indizianti.
Il motivo è infondato.
L’ordinanza impugnata ha disatteso la censura difensiva richiamando correttamente l’orientamento della Corte di legittimità a mente del quale la nullità dell’ordinanza genetica ricorre nei soli casi in cui la stessa consista in una mera adesione acritica alle scelte dell’accusa. Al di fuori dei rapporti tra ordinanza genetica e richiesta del pubblico ministero (rapporti definiti “verticali” nell sentenza di Sez. 3, n. 16034 del 10/02/2011, M., Rv. 250299 – 01), la visione cambia completamente in caso di provvedimenti, motivati “per relationem”, che si trovino – come nella fattispecie – in un rapporto di tipo completamento diverso, e per così dire “paritario”, rispetto al provvedimento richiamato. L’ordinanza applicativa di una misura cautelare emessa da giudice incompetente ben può essere assimilata ad una ordinanza divenuta inefficace per vizio di forma e non per motivi di merito. Al riguardo, questa Corte ha da tempo affermato il principio per il quale «in tema di motivazione dell’ordinanza impositiva della custodia cautelare, l’obbligo di cui all’art. 125 c.p.p., comma 3 è soddisfatto anche mediante l’esplicito riferimento a precedente ordinanza coercitiva divenuta inefficace per vizio di forma e non di merito, trattandosi di provvedimento rimasto valido nei suoi contenuti sostanziali, la cui valutazione è così fatta consapevolmente propria dal giudice che procede e risulta idonea a rendere edotto l’interessato dell'”iter” logico seguito per pervenire alla decisione adottata» (v. Sez. 1, n. 1533 del 18/12/2007, Mitrica, Rv. 238816 – 01).
Peraltro, seppur l’originaria ordinanza ex art. 27 cod. proc. pen. era stata dichiarata inefficace dal Tribunale del riesame, nulla precludeva al giudice che ha disposto la nuova misura cautelare in sede di convalida del fermo di riprenderne il contenuto, posto che la declaratoria di inefficacia è conseguita a profili formali che nulla attengono alla validità argomentativa del provvedimento dichiarato inefficace, noto alla difesa e all’indagato e facente parte degli atti.
La circostanza poi che il Gip, ai fini della valutazione sulla gravità indiziaria abbia riportato le dichiarazioni della p.o., non esclude affatto che non abbia preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento, sol che si consideri, per come evidenziato dal Tribunale del riesame, che trattasi della principale fonte di prova del procedimento, caratterizzata da corpose affermazioni affastellate di date ed eventi che non si prestano ad un’efficace sintesi dei suoi contenuti. Peraltro, il richiamo ad altre fonti di prova a corredo dell’attendibili della vittima (tra cui le significative dichiarazioni di COGNOME RosarioCOGNOME divenut collaboratore di giustizia e deputato a ricevere i ratei estorsivi allorché il ricorren
era detenuto, nonché gli esiti tratti dalle riprese delle telecamere di sorveglianza che dimostrano la presenza del ricorrente nell’agenzia della p.o. e il rinvenimento sulla persona dell’indagato del rateo estorsivo consegnatogli dalla vittima) danno conto della ricerca da parte del giudice della cautela di altri elementi di conferma del dichiarato e, dunque, logicamente sono dimostrativi dell’autonoma valutazione svolta in punto di attendibilità della vittima del reato.
Con il secondo motivo si denuncia l’inosservanza e l’erronea applicazione delle circostanze aggravanti di cui agli artt. 628, comma 3, n. 3 e 416-bis cod. pen. ed il vizio di motivazione.
Quanto all’aggravante di cui all’art. 416-bis cod. pen., posto che il ricorrente non aveva pronunciato alcuna minaccia nei confronti della p.o. (tanto che si era ritenuta l’ipotesi della cd. minaccia silente), la quale si era sentita intimorita p la fama criminale che lo precedeva, si era finito per ricavare il metodo mafioso esclusivamente dal dato dell’appartenenza del ricorrente alla consorteria mafiosa, ipotesi semmai da ritenersi già contemplata dall’art. 628, comma 3, n. 1 cod. pen.
Quanto all’aggravante di cui all’art. 628, comma 3, n. 3 cod. pen., con ripercussioni anche su quella speciale nella ritenuta declinazione dell’agevolazione, si rappresenta che il ricorrente, libero da anni e con regolare attività lavorativa, aveva agito da solo e per fini propri e non quale appartenente ad un’associazione di tipo camorristico. La mancanza di attualità della partecipazione al consesso criminale escludeva la circostanza, altrimenti fondandosi l’aggravante su una sorta di non consentito status, di carattere permanente, per il solo fatto di essere stato il capo di un’associazione camorristica.
Il motivo è infondato.
Dalla lettura dell’ordinanza impugnata risulta che la carica intimidatoria della richiesta del pagamento del pizzo rivolta dall’indagato alla p.o. si nutre, in termini di efficienza causale, del fatto che la pretesa costituisce reiterazione continuata di analoga richiesta già manifestata da tempo con modalità chiaramente evocative dell’agire mafioso, sol se si consideri che, la prima volta, la p.o. era stata prelevata da uno sconosciuto e condotta in un casolare abbandonato proprio al cospetto del Giugliano che gli aveva chiesto il pagamento della tangente “perché nella zona comandava lui”, sicché avrebbe dovuto pagare se “voleva stare tranquillo” (v. pagg. 10 e 11). Pertanto, del tutto logico è l’argomento speso dai giudici di merito secondo cui il ricorrente nulla aveva da aggiungere alla richiesta estorsiva per determinare nella vittima lo stato di costrizione necessario a ledere la libertà di autodeterminazione.
Peraltro, anche nell’ipotesi della cd. minaccia silente proveniente da persona che fa parte dell’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen., la carica intimidatori si lege comunque alla “richiesta”, seppur estrinsecatasi con modalità “implicite” e,
dunque, si nutre di un autonomo disvalore che riverbera sul profilo oggettivo della condotta e non consente il prospettato assorbimento con l’ulteriore e diversa aggravante di cui all’art. 628, comma 3 n. 3, cod. pen. La circostanza prevista dall’art. 628, comma 3 n. 3 cod. pen. è, infatti di natura soggettiva e attiene alla persona del colpevole, in quanto, come prevede l’art. 70 cod. pen., riguarda le sue condizioni personali, mentre l’aggravante del ricorso all’uso del metodo mafioso è, invece, un’aggravante oggettiva e riguarda le modalità di estrinsecazione del reato (Sez. 2, n. 21616 del 18/04/2024, Armenio, Rv. 286433 – 01).
Quanto, poi, all’ulteriore profilo inerente alla finalità agevolativa a favore della cosca di camorra che avrebbe caratterizzato la condotta estorsiva, la circostanza indotta dalla difesa che il ricorrente abbia agito al fine di conseguire un personale interesse, per come si ricaverebbe dal fatto che il prevenuto ha agito da solo, in modo silente e in luogo pubblico alla presenza, peraltro, di un sistema di videosorveglianza, trova congrua smentita nella motivazione del provvedimento impugnato. Al riguardo, infatti, si è anzitutto sottolineato come si sia al cospetto di un’estorsione di cosca per come ricavato dalla genesi della richiesta estorsiva narrata dalla p.o. e confermato anche dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia che ha ricondotto le estorsioni ai danni degli esercenti le imprese di pompe funebri ad una precisa strategia criminale riconducibile alle cosche presenti sui territori ove tali attività economiche insistevano. Inoltre, a confutazione del rilievo delle circostanze di fatto indicate dalla difesa, si è sottolineato come la consegna del denaro sia avvenuta nei locali dell’agenzia non sottoposti a videosorveglianza e come l’intervento in prima persona di un capo clan non sia da considerare sprovveduto, prestandosi tale comportamento a rivelare quella condizione di assoggettamento diffuso in cui versava il territorio ove insisteva l’attività presa di mira. Del resto, non esiste alcuna massima di esperienza che esclude che anche coloro che sono ai vertici dei consessi mafiosi possano partecipare direttamente alla commissione dei delitti fine del sodalizio o rendersi autori di fatti criminosi avvalendosi del metodo mafioso che da quella consorterie si trae. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
3. Con il terzo motivo si lamenta l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 274 e 275 cod. proc. pen. e il vizio di motivazione in punto di esigenze cautelari. La censura attiene alla mancanza dell’indicazione, da parte del Gip in sede di rinnovazione della misura – conseguente all’inefficacia di quella genetica dichiarata dal Tribunale del riesame con ordinanza del 14 gennaio 2025 – delle “eccezionali esigenze cautelari” poste a fondamento della rinnovazione della misura, in realtà coincidenti con quelle addotte per l’emissione della prima ordinanza.
Inoltre, muovendo dall’assenza dell’aggravante del metodo mafioso, si
lamenta il difetto di attualità delle esigenze cautelari e si sottolinea che il Tribunale avrebbe disatteso plurimi indici favorevoli all’indagato idonei ad incidere sul giudizio di adeguatezza della misura di maggior rigore rispetto a quella subordinata, sollecitata dalla difesa, degli arresti domiciliari.
Il motivo è manifestamente infondato.
L’ordinanza impugnata risulta avere indicato (v. pag. 11) plurimi elementi dimostrativi in punto di esigenze cautelari che danno conto del rispetto dell’onere di motivazione rafforzata di cui all’art. 309, comma 10, cod. proc. pen., alla luce del principio affermato dalla Corte di legittimità secondo cui «Le eccezionali esigenze cautelari che, nei casi di cui all’art. 309, comma 10, cod. proc. pen., consentono di rinnovare la misura cautelare che abbia perso efficacia non richiedono un “quid pluris” rispetto alla situazione precedente, né la necessità di elementi nuovi o sopravvenuti, pur se non coincidono con una normale situazione di pericolosità, ma si identificano, piuttosto, in un’esposizione al pericolo per la collettività di consistenza tale da non risultare superabile se non con l’emissione di una misura coercitiva. (In motivazione, la Corte ha precisato che l’eccezionalità delle esigenze cautelari deve essere desunta non dall’accentuazione della prognosi di pericolosità, ma dal particolare rilievo dei beni giuridici da tutelare, co riferimento alla gravità dei fatti commessi o della capacità criminale del soggetto sottoposto a misura)» (Sez. 1, n.806 del 15/11/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284039 – 02).
L’esistenza dell’aggravante del metodo mafioso rende operativa la presunzione di idoneità della custodia cautelare in carcere di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. Sul punto, l’ordinanza impugnata risulta corredata da congrua motivazione in ordine all’esclusione, nel caso concreto, della possibilità di soddisfare le esigenze cautelari ricorrendo a differenti e meno gravose misure: i trascorsi del ricorrente, unitamente alla gravità del fatto e alle modalità ostensive della condotta, nonché il contesto territoriale di riferimento in cui la stessa s inserisce e concorre a rafforzare in termini di presenza inquinante della presenza di consessi di stampo mafioso, costituiscono plurimi indici fattuali evocativi di gravi pericula che rendono la valutazione operata dai giudici di merito non censurabile in questa sede.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
Non conseguendo dall’adozione del presente provvedimento la rimessione in libertà dell’indagato, deve provvedersi ai sensi dell’art. 94, comma 1 ter, disp. att. cod. proc. pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma
1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso, il 13 maggio 2025.