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Custodia cautelare: la presunzione di adeguatezza

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso contro un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per un individuo accusato di essere al vertice di un’associazione dedita al narcotraffico. La Corte ha confermato la decisione, basandosi sulla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare per reati di tale gravità. Il ruolo apicale del ricorrente e le prove della sua continua influenza sull’organizzazione anche durante una precedente detenzione sono stati considerati elementi decisivi, superando le argomentazioni relative a un periodo di buona condotta agli arresti domiciliari.

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Pubblicato il 15 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Custodia Cautelare: la Cassazione sulla Presunzione di Adeguatezza in Carcere

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, è tornata a pronunciarsi su un tema cruciale della procedura penale: la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per reati di particolare gravità, come l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. La decisione offre importanti spunti di riflessione sull’equilibrio tra le esigenze di sicurezza sociale e la libertà personale dell’indagato, anche quando quest’ultimo abbia già beneficiato di misure meno afflittive.

I Fatti del Caso

Il caso riguarda un soggetto accusato di avere un ruolo di vertice – promotore, dirigente e organizzatore – in un’associazione criminale dedita al narcotraffico in un specifico territorio. Secondo l’accusa, egli si occupava dell’acquisto di ingenti quantità di cocaina, della sua custodia in terreni di famiglia e della successiva vendita tramite intermediari.

A seguito dell’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, confermata dal Tribunale del riesame, la difesa ha proposto ricorso in Cassazione. Il motivo principale del ricorso verteva sull’inadeguatezza della misura carceraria, sostenendo che l’indagato si fosse dissociato dal contesto criminale. A supporto di tale tesi, la difesa evidenziava che l’uomo era stato precedentemente sottoposto per quasi un anno agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, senza mai violare le prescrizioni e mostrando la volontà di cambiare vita, arrivando a indicare alla polizia giudiziaria il nascondiglio di una quantità di droga.

La Presunzione di Adeguatezza della Custodia Cautelare secondo la Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo l’ordinanza del Tribunale del riesame corretta e ben motivata. Il fulcro della decisione risiede nell’applicazione dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale. Questa norma stabilisce una presunzione relativa di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere per reati di eccezionale gravità, tra cui l’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti (art. 74 d.P.R. 309/90).

Secondo la Suprema Corte, tale presunzione può essere superata solo fornendo elementi concreti e specifici che dimostrino l’assenza del rischio di recidiva o l’adeguatezza di una misura meno afflittiva. Nel caso di specie, questi elementi mancavano.

Il Ruolo Apicale e il Pericolo Concreto di Recidiva

Un elemento decisivo per la Corte è stato il ruolo apicale ricoperto dall’indagato all’interno del sodalizio criminale. I giudici hanno sottolineato come, anche durante una precedente detenzione, l’uomo avesse continuato a gestire gli affari illeciti. Attraverso intercettazioni di colloqui in carcere, era emerso che impartiva direttive ai familiari su come riscuotere crediti e coordinare le attività degli altri associati.

Questa capacità di mantenere un’influenza attiva sull’organizzazione anche da recluso ha dimostrato un pericolo di recidiva attuale e concreto, tale da rendere inadeguata qualsiasi misura diversa dal carcere. La fitta rete di rapporti personali ed economici, secondo la Corte, avrebbe consentito al soggetto di riprendere immediatamente il suo ruolo di vertice se non sottoposto alla massima restrizione.

La Volontà di ‘Cambiare Vita’ non è Sufficiente

La Corte ha inoltre ridimensionato l’argomento difensivo relativo alla manifestata volontà di cambiare vita. Sebbene l’indagato avesse indicato il luogo dove era nascosta della droga, i giudici hanno considerato tale gesto irrilevante. La ragione sta nel fatto che a questa rivelazione non è seguita la fornitura di ulteriori informazioni utili alle indagini. Un singolo atto, se non accompagnato da una collaborazione più ampia, non è sufficiente a scalfire la presunzione di pericolosità legata al reato contestato e al ruolo ricoperto.

le motivazioni

La Corte Suprema ha stabilito che la valutazione del Tribunale del riesame era immune da vizi logici. Il Tribunale aveva correttamente evidenziato la gravità delle condotte, il ruolo di vertice del ricorrente e il suo profondo inserimento nel contesto associativo. Le intercettazioni dei colloqui in carcere, successive a un arresto precedente, avevano confermato la sua perdurante influenza e la sua funzione apicale, dimostrando che non aveva mai realmente interrotto il suo legame con l’associazione. Pertanto, la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere non era stata superata da elementi di prova contrari. La Corte ha ritenuto che la complessa rete di rapporti personali ed economici dell’indagato rendesse la detenzione in carcere l’unica misura idonea a prevenire la reiterazione del reato e, in particolare, la ripresa delle sue funzioni direttive. La dichiarata volontà di cambiare vita è stata giudicata insufficiente, poiché non supportata da una collaborazione investigativa più ampia e concreta.

le conclusioni

In conclusione, l’ordinanza della Cassazione ribadisce un principio fondamentale: per reati di associazione finalizzata al narcotraffico, la legge presume che solo la custodia in carcere sia adeguata a neutralizzare la pericolosità sociale dell’indagato. Per superare questa presunzione non basta un periodo di buona condotta agli arresti domiciliari o un singolo gesto collaborativo. È necessario fornire prove concrete che dimostrino un’effettiva e irreversibile interruzione dei legami con l’ambiente criminale e l’assenza di un pericolo attuale di recidiva. Il ruolo di comando all’interno dell’organizzazione criminale è un fattore che aggrava tale valutazione, rendendo ancora più difficile ottenere una misura meno restrittiva.

Perché è stata confermata la custodia in carcere se l’indagato era già stato agli arresti domiciliari senza commettere violazioni?
Perché, nonostante la buona condotta ai domiciliari, il suo ruolo di vertice nell’associazione criminale e le prove che continuava a gestire gli affari illeciti anche da detenuto in passato hanno dimostrato un rischio di recidiva talmente elevato e attuale da rendere inadeguata qualsiasi misura meno afflittiva del carcere, secondo la presunzione di legge.

La volontà di ‘cambiare vita’, dimostrata indicando un nascondiglio di droga, non è un elemento a favore dell’indagato?
No, in questo caso la Corte ha ritenuto tale gesto irrilevante. La semplice indicazione del luogo di occultamento della droga, non seguita da ulteriori informazioni o elementi utili all’indagine, non è stata considerata sufficiente a dimostrare un reale distacco dal contesto criminale e a superare la presunzione di pericolosità.

Cosa significa ‘presunzione relativa’ di adeguatezza della custodia in carcere?
Significa che per reati di particolare gravità, come l’associazione per narcotraffico, la legge presume che il carcere sia l’unica misura cautelare idonea. Tuttavia, questa presunzione non è assoluta: l’indagato ha la possibilità di ‘provare il contrario’, cioè di fornire elementi specifici e concreti che dimostrino l’assenza di esigenze cautelari o l’adeguatezza di una misura meno grave, come gli arresti domiciliari.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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